Giorgio Salvini, Il Sole 24 Ore 18/8/2013, 18 agosto 2013
NON È IL NOBEL CHE FA IL FISICO
Qualsiasi cosa facesse, mostrava sempre signorilità e intelligenza. Anche per questo ritorno volentieri sui ricordi che ho di Bruno Pontecorvo, uno dei più grandi fisici italiani, ora che siamo vicini (la data è il 22 agosto) al centenario della sua nascita. Le Università di Roma e Pisa, assieme all’Istituto nazionale di fisica nucleare lo celebreranno con due convegni a settembre: a Pisa anche con una mostra, a Roma anche con una serata dedicata alla famiglia Pontecorvo.
Signorilità e intelligenza, dicevo. Ma che intelligenza! Bruno Pontecorvo ha intuito profondamente le conseguenze di un esperimento cruciale per la fisica del ’900, quello di Conversi, Pancini e Piccioni. Non starò a descriverlo, se non con le parole del premio Nobel Luis Alvarez: «La moderna fisica delle particelle ebbe inizio durante gli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, quando un gruppo di giovani italiani, Conversi, Pancini e Piccioni, iniziarono un notevole esperimento». Incredibilmente, né i tre né Pontecorvo ebbero mai il Nobel, ma pazienza.
Bruno capì dunque le implicazioni profonde di quell’esperimento e la sua notorietà - che già era alta, perché era pur sempre il più giovane esponente del gruppo di via Panisperna guidato da Fermi - divenne decisamente planetaria. In poco tempo, assumerà nella comunità dei fisici il ruolo di un maestro stimato e ascoltato a livello mondiale sulle interazioni deboli e i neutrini. Le sue più importanti previsioni teoriche sono state tutte verificate sperimentalmente.
Io l’ho conosciuto in quel fragoroso finale degli anni ’40, a Milano. Ci siamo scambiati informazioni sui raggi cosmici, che erano diventati, in un’Italia devastata dalla guerra, il punto di forza della fisica italiana povera di mezzi ma pur sempre segnata dalla scuola di Fermi e dalla tenacia di Amaldi. Quindi viva, intuitiva, capace di trovare risultati anche con pochi, poveri strumenti.
Bruno Pontecorvo aveva allora già acquisito una dimensione di vita più internazionale. Aveva lavorato a Parigi, poi in Canada, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna (di cui aveva la cittadinanza), ma manteneva un legame profondo con la comunità dei fisici italiani.
Lui sparì all’improvviso con tutta la famiglia nell’estate del 1950. Mi meravigliò? No, in quegli anni in cui l’assetto politico mondiale era in turbinoso movimento, un coup de teatre come quello era nell’ordine delle cose. Era chiaro, comunque, che quasi certamente era andato in Urss. Cinque anni di silenzio su Bruno Pontecorvo, o almeno silenzio a occidente. E timori e sospetti dei servizi di sicurezza, anche nei miei confronti (venni interrogato dagli americani in quanto suo amico e forse cripto-comunista).
Nel frattempo i sovietici gli metteranno a disposizione una buona dotazione scientifica, pubblicheranno i suoi articoli in russo, gli conferiranno il premio Stalin. Insomma, lo tratteranno bene, anche se per lui l’Urss rappresenterà, col tempo, una profonda disillusione. Ma era restìo a parlarne. Sotto la tenda georgiana (la nuora era di quella regione) dove abbiamo cenato seduti per terra o all’allevamento dei cavalli del figlio (di cui era molto orgoglioso) piuttosto che nell’anno in cui è stato ospite della mia stanza all’Università di Roma, era difficile fargli uscire un commento sulla sua scelta di abbandonare l’occidente. Negli ultimi anni parlerà della sua scelta politica come di un abbaglio: era una religione, diceva. Ma io penso che fosse più una sorta di profondo innamoramento per una causa di giustizia, e dell’innamorata, anche se ti delude, fai fatica a parlare male.
Certo, lui stesso ricordava di non aver voluto firmare l’appello di Sacharov contro l’invasione di Praga, nel ’68, pensando che il grande fisico russo fosse un illuso, salvo poi riconoscere che aveva ragione lui. Ma Bruno era così anche per un altro motivo: non amava, come invece accade a molti fisici, lo scontro frontale, il sarcasmo, la battuta tagliente. Era sempre per esercitare il compromesso visto come strumento per migliorare le situazioni senza dover per forza umiliare qualcuno. E questo coincideva anche con la sua passione sportiva: amava la competizione, ma la viveva come un gioco leale.
La sua signorilità. E il suo pudore.
Qui viene il capitolo più triste. La sua convivenza col morbo di Parkinson durata per oltre 15 anni. A volte gli rendeva difficile tenere a lungo una conversazione, ma soprattutto, credo, lo ha limitato nel rapporto con i più giovani. Il pudore per la sua malattia lo portava a ritrarsi. Chiunque l’abbia conosciuto, comunque, non può che conservare il ricordo di un fisico onorato, di visione limpida e capace di amare l’umanità, a partire dagli amici che gli sono stati attorno nella sua lunga avventura terrena.