Marco Liera, Il Sole 24 Ore 18/8/2013, 18 agosto 2013
AI FIGLI È MEGLIO LASCIARE LA LIQUIDITÀ, NON LE IMPRESE
Le generazioni che attualmente hanno tra i 30 e i 60 anni hanno scoperto, spesso dolorosamente, che il lavoro dipendente nel settore privato può rivelarsi assai incerto. Il riferimento va a quegli italiani che almeno un lavoro dipendente a tempo indeterminato in passato l’hanno trovato e ora si confrontano o con una disoccupazione inattesa con basse possibilità di trovare un altro impiego con analoghe caratteristiche, o con una crescente precarietà percepita sul rapporto esistente. Più volte su questa rubrica ho accennato al fatto che una parte di questo capitale umano può trasformarsi in nuova imprenditoria, e quindi non solo ri-occuparsi ma creare anche nuovi posti di lavoro, in accordo con la "distruzione creativa" schumpeteriana. Ora vorrei soffermarmi sulle dinamiche familiari che possono a volte ostacolare, altre volte assecondare questi processi di cambiamento.
Una delle spinte più forti al passaggio a una dimensione imprenditoriale è la volontà di "lasciare qualcosa ai figli". Un qualcosa di superiore al mero trattamento di fine rapporto che rappresenta la tipica capitalizzazione di una carriera di dipendente. Si tratta di un nobile istinto, che può diventare ancora più importante in una fase di diffusa disillusione nei confronti del lavoro dipendente. Ma che deve essere gestito con attenzione.
Non solo una minoranza di ex-lavoratori dipendenti ha le caratteristiche idonee per trasformarsi in imprenditori, ma soprattutto i figli di questi ultimi potrebbero rivelarsi assai inadatti a proseguire l’attività dei genitori, o essere attratti da altri obiettivi. La scelta di avviare un’impresa, con tutti i rischi e le difficoltà del caso, dovrebbe essere vista in una dimensione mono, e non multi-generazionale. Tranne le dovute eccezioni (come può essere il caso di figli già grandi coinvolti fin dall’inizio nella startup di mamma o papà), i figli non dovrebbero essere condizionati dalle preferenze dei genitori. E immaginare che i figli possano poi decidere comunque di monetizzare l’azienda fondata dai genitori, se inadatti o disinteressati alla sua gestione, è un alibi che non funziona. Se proprio si è benestanti, o lo si diventa, ai figli si lasciano attività già liquide, più che imprese (o case, per citare un altro veicolo di trasferimento della ricchezza molto amato dai genitori premurosi) il cui destino è spesso legato a doppio filo ai loro fondatori.
Ovviamente l’obiettivo di un bravo imprenditore dovrebbe essere quello di aumentare nel tempo il valore della sua azienda. Ma spesso questo valore non è pienamente monetizzabile, e neppure trasferibile agli eredi. Pertanto, la scelta imprenditoriale di un genitore dovrebbe stare in un "conto mentale" ben separato da quello relativo al passaggio intergenerazionale del benessere. Una chiarezza che è fondamentale per minimizzare future delusioni.