Stefano Montefiori, Corriere della Sera - La Lettura 18/8/2013, 18 agosto 2013
TUTTI I CATTIVI DELL’AVVOCATO DEL DIAVOLO: «AVREI VOLUTO DIFENDERE BIN LADEN»
Varcata la porta con la scritta in francese e arabo Jacques Vergès, avvocato del foro di Parigi, si entra in un’anticamera dove su un lungo tavolo sono disposti molti giochi di scacchi in pietre e legni preziosi. A sinistra il grande salone, pieno di oggetti d’arte e testimonianze di una vita avventurosa – dalle scatole di sigari cubani alle maschere africane del presidente della Costa d’Avorio, Houphouët-Boigny (1905-93), a migliaia di libri – con un gigantesco arazzo orientale alla parete. In fondo alla stanza, seduto alla scrivania, c’è lui, l’«avvocato del terrore». Ormai ottantottenne, Jacques Vergès appare provato dall’età e da una recente caduta. «Mi spiace, non posso alzarmi», dice. Sono le 3 del pomeriggio di venerdì 9 agosto, Vergès è atteso il 20 a Cortina per parlare del suo libro Quant’erano belle le mie guerre! (Liberilibri). Ma non riuscirà a tornare in Italia, dove combattè da ragazzo contro i nazisti: l’avvocato Vergès è morto la sera di Ferragosto. Quella che segue è la sua ultima intervista.
Al momento di stringergli la mano, non si può fare a meno di pensare con un brivido che quelle stesse dita in passato hanno già stretto le mani di Nelson Mandela, sì, ma soprattutto di Pol Pot e dei suoi compagni, di Mao Zedong, di Carlos «lo sciacallo», del «boia di Lione» Klaus Barbie e di un buon numero di terroristi palestinesi. Tutta gente responsabile di qualche milione di morti, che l’avvocato di padre francese e madre vietnamita ha aiutato e — tranne Mao, Pol Pot e Mandela — difeso legalmente. Oggi che è il momento dei bilanci Jacques Vergès appare, come sempre, in pace con se stesso e anzi piuttosto compiaciuto. «Ho voluto fare in modo che la mia vita fosse il mio autoritratto. Liberi gli altri di amarla o detestarla, è un problema loro, non mio. Io sono quel che sono».
Com’è nata la passione per i cattivi?
«Ho cominciato subito, a 17 anni, mettendomi agli ordini di un condannato a morte. Era il generale Charles de Gaulle, che alla testa di poche centinaia di pazzi, tra i quali me stesso, diceva che il compromesso con la Germania nazista era una vergogna, e che bisognava difendere l’onore della Francia libera. Un’eresia, nel 1942. Come vede, qualche volta stare dalla parte del torto può rivelarsi la scelta giusta».
Le dà fastidio la definizione di «avvocato del terrore»?
«Sono abituato alle aggressioni verbali. Quella formula è stata usata dal regista Barbet Schroeder per un documentario fatto apposta per intrappolarmi, ma alla fine, se guardate il film, sono io ad avere messo in trappola lui. È difficile tenermi testa, ed è una vita che rispondo agli attacchi».
Lei invece come si definirebbe?
«Come un piccolo militante comunista, e poi come un piccolo condottiero. Sul finire della Seconda guerra mondiale, mentre ancora combattevo con de Gaulle, avevo già preso contatti con il Partito comunista francese. Poi mi sono occupato dell’internazionale degli studenti comunisti, in quelle vesti ricordo di aver conosciuto degli italiani, tra gli altri Giovanni Berlinguer, Luciana Castellina, Carlo Ripa di Meana. Poi ho condotto la mia battaglia personale contro il colonialismo, in Algeria ho preso le difese di Djamila Bouhired, che aveva messo le bombe nei luoghi pubblici dei francesi, e che poi divenne madre dei miei figli».
È questa la sua ossessione? Tutto nasce dall’odio verso il colonialismo?
«Da bambino, euroasiatico, con gli occhi orientali di mia mamma vietnamita, mi sono sentito presto diverso dagli altri. La questione del colonialismo la vivevo sulla pelle, e ho dovuto costruirmi in modo solitario. Ho scelto di affermare la mia umanità, e di disprezzare consigli e critiche che mi avrebbero reso uguale agli altri».
Il suo percorso è lineare, fino a un certo punto. Da ex resistente antinazista e poi militante comunista, quando lei lottava per l’indipendenza dell’Algeria seguiva una linea relativamente coerente. È con la difesa del nazista Barbie o dei compagni del genocida Pol Pot che diventa impossibile seguirla.
«Ma se un avvocato rifiuta di difendere i criminali, ha sbagliato mestiere, come un medico che sviene alla vista del sangue. Quel che va capito è che io volevo soprattutto comprendere. Non mi interessa il crimine, ma quel che c’è nella testa del criminale. Ho difeso Barbie in tribunale, mica ho sostenuto che avesse ragione o che avesse fatto bene a torturare. Ho solo colto l’occasione per ricordare che anche la Francia ha commesso crimini orrendi in Algeria, e che i torturatori francesi in Algeria agivano agli ordini di François Mitterrand, all’epoca ministro e poi presidente della Repubblica durante il processo a Lione. La mia strategia processuale è sempre stata la rottura, il buttarla in politica, facendo emergere le contraddizioni degli accusatori».
Ma perché è diventato amico di François Genoud, facoltoso nazista svizzero?
«François Genoud è un mitomane, che si è sempre arrogato un ruolo che non ha mai ricoperto. Non siamo mai stati amici. Ma è vero che ci siamo incrociati più volte, anche perché la sua era l’unica banca svizzera disposta a dare soldi per l’Fln, il Fronte di liberazione algerino».
Invece di trovarla imbarazzante, lei ha cavalcato la saldatura tra causa araba e neonazismo.
«Il nemico del mio nemico è mio amico, come si dice. Ma a parte la battuta, il ruolo di Genoud è davvero sopravvalutato».
Nel film di Schroeder si vede Pol Pot, il «fratello numero 1» dei Khmer rossi, responsabile del genocidio cambogiano che ha fatto 1,7 milioni di morti, raccontare ridacchiando: «Jacques Vergès ha scritto di me che mi conosce da 20 o 30 anni come un uomo educato, discreto e sorridente». Non le sembra spaventoso?
«Tutte le guerre moderne sono di sterminio. O vogliamo parlare di Hiroshima, Nagasaki, Dresda? Pol Pot l’ho conosciuto a Parigi negli anni Cinquanta assieme a Khieu Samphan (capo di Stato della Kampuchea Democratica, il regime dei Khmer rossi, sotto processo per crimini contro l’umanità davanti al tribunale misto cambogiano e internazionale di Phnom Penh, ndr). Parlavamo della lotta internazionalista contro il colonialismo, di come liberare la Cambogia dal dominio straniero».
Dal 1970 al ’78, lei è sparito dalla circolazione. Era in Cambogia?
«Non ho mai rivelato dettagli su quegli anni e non lo faccio neanche adesso, per non danneggiare alcune persone. È vero però che nel 1973 i servizi di sicurezza palestinesi consigliarono ad Arafat di ricorrere a me nel caso qualche personalità dell’Olp fosse stata catturata dagli israeliani. Comunque, dopo il periodo della sparizione sono tornato a Parigi, pieno di esperienze e ricordi, ma senza un soldo. Ho continuato a seguire cause celebri, ma soprattutto mi sono occupato di diritto comune, della difesa di persone normali. Cosa che tutti tendono a dimenticare».
È mai stato contattato o usato dai servizi francesi?
«No. Una volta una grande società francese mi ha chiesto di intervenire per corrompere un ministro nell’ambito di un grosso affare in Algeria. Ho rifiutato. Tutto qui».
Quale personaggio avrebbe voluto difendere?
«Osama Bin Laden, nel grande processo che non c’è stato. Mica perché abbia mai condiviso le sue scelte. Mi sarebbe piaciuto mettere un’altra volta in imbarazzo i suoi grandi accusatori e, creda a me, ci sarei riuscito».