Paolo Panerai, ItaliaOggi 17/8/2013, 17 agosto 2013
ORSI & TORI - «La povertà non è socialismo. La ricchezza è bella». Deng Xiao Ping Fondatore della nuova Cina Fa piacere e crea speranza che oggi il più ricco d’Italia, secondo il patrimonio quotato in borsa, sia un ex Martinitt come Leonardo Del Vecchio
ORSI & TORI - «La povertà non è socialismo. La ricchezza è bella». Deng Xiao Ping Fondatore della nuova Cina Fa piacere e crea speranza che oggi il più ricco d’Italia, secondo il patrimonio quotato in borsa, sia un ex Martinitt come Leonardo Del Vecchio. Segno che, nonostante la povertà crescente del Paese, anche chi nasce povero può avere la speranza di diventare ricco. Non succede con la facilità e la frequenza con cui capita negli Stati Uniti o nella moderna Cina ma almeno un seme concreto Del Vecchio lo rappresenta. Un soffio di aria fresca per un Paese come l’Italia che sembra condannato alla più cupa decadenza. Fare fortuna in Italia è sempre più difficile per la mancata modernizzazione del Paese: a quasi 70 anni dalla fine della dittatura fascista, non è stata adeguata ai tempi l’architettura costituzionale dello Stato e del governo; non sono state realizzate le infrastrutture fisiche e digitali; non sono stati liberalizzati i mercati ma ci si è illusi che ciò avvenisse con privatizzazioni, come quella di Telecom, che sono state di fatto una svendita del patrimonio pubblico per entrare nell’euro senza creare i presupposti per un’azienda chiave sempre più forte, diventata invece fragilissima; non è stata riformata una burocrazia retaggio di epoche borboniche; non è stata riformata la giustizia nel momento in cui si sono rotti gli equilibri con il potere politico dopo l’eliminazione dell’immunità parlamentare... La progressiva caduta della competitività del sistema economico, per i lacci e lacciuoli già messi a nudo da Guido Carli, ha fatto il resto, mentre il colpo decisivo è stato inferto al Paese con l’incapacità di contenere la spesa pubblica e con la conseguente elevazione, fino all’insopportabilità, della pressione fiscale. Così mentre anche il Portogallo è tornato a crescere (+1,1%) insieme al resto d’Europa, l’Italia è tuttora in profonda recessione. Per questo, esempi come quello di Del Vecchio sono fondamentali per capire la direzione che l’Italia deve prendere: genialità nell’individuare decenni fa il settore delle montature per occhiali come una prateria da conquistare; intuito nel legare gli occhiali a un concetto di stile made in Italy in primo luogo con la licenza di Giorgio Armani fino al punto da farlo diventare importante azionista di Luxottica; coraggio di cavalcare i mercati stranieri non limitandosi a vendere ma anche a comprare dovunque reti di negozi di ottica; capacità nello scegliere manager sempre più bravi come l’attuale ceo Andrea Guerra senza incaponirsi nella trasmissione del potere gestionale ai figli ma anzi stimolandoli a iniziare attività in proprio come ha fatto Claudio con l’acquisto e il rilancio di Brooks Brothers; saggezza nella diversificazione degli investimenti nel settore immobiliare e delle assicurazioni con Generali; determinazione nel non voler essere condizionato dai salotti buoni fino a lasciare il consiglio d’amministrazione delle stesse Generali avendo capito prima degli altri che il vecchio management pensava più al potere che alla redditività attraverso camarille con alcuni azionisti. Ma altrettanto significativo, proprio in questo momento di credit crunch e di banchieri messi al muro dal rigore ingiustificato di Bankitalia, è il caso di Miuccia e Patrizio Bertelli. Il loro patrimonio, dopo la quotazione a Hong Kong di Prada, supera i 14 miliardi. Non molti anni fa avrebbero anche potuto fallire se Intesa Sanpaolo, guidata da Corrado Passera e Gaetano Miccichè, non li avesse finanziati con 600 milioni di euro mentre le altre banche chiedevano il rientro. Da una parte la capacità di Bertelli di fare autocritica rispetto alla scelta, costosissima, di puntare sul multibrand a imitazione di Bernard Arnault e dall’altra la capacità di essere banchieri veri di Passera e Miccichè hanno consentito di avere in Italia un colosso del lusso che potrebbe anche costituire la base per replicare la strategia seguita dalle banche francesi nei confronti di Arnault. Tutti sanno che se il re del lusso mondiale non avesse avuto costantemente al suo fianco non una ma varie banche d’Oltralpe, mai e poi mai da ex costruttore edile di provincia avrebbe potuto creare un gruppo che oggi veleggia verso i 40 miliardi di fatturato e senza batter ciglio può aggregare aziende come Loro Piana, mettendo sul piatto 2 miliardi di euro. Del resto, anche se non appartiene alla storia della borsa, anche la vicenda dei Loro Piana è indicativa di come dal quasi fallimento si possa arrivare in pochi anni a creare un’azienda di valore miliardario. Attanagliati dalla crisi del tessile, Sergio e Pier Luigi Loro Piana trovarono un primo aiuto in un soggetto particolare, metà tessile e metà banchiere, come Serafino Trabaldo Togna, che divenne azionista della loro azienda. Da quel momento, avendo il coraggio di investire nell’industria tessile negli Stati Uniti per superare le barriere doganali e raccogliendo il viatico della madre che da tempo produceva il loro unico capo verticalizzato, un bel cappotto di cachemire, avviarono la verticalizzazione dell’azienda con sempre più capi prodotti, con sempre più negozi aperti e con un’azione di marketing puntata sull’eccellenza, l’innovazione nei tessuti e la conquista di materie prime più raffinate, fino a sostenere pastori e mandrie, senza disdegnare l’acquisto del cachemire più prezioso alle aste, con prezzi da record, per poter dire che Loro Piana aveva sempre la materia prima di più alta qualità. In tutti questi casi si intrecciano genio ed eleganza italiani, coraggio e ricerca, nuovi record produttivi unici. È questo, bellezza, il made in Italy che ancora tiene in piedi il Paese perché nell’industria tradizionale, quella di base, senza la quale uno Stato non può essere ai vertici industriali, l’Italia dell’Ilva di Taranto rischia di scomparire grazie al primato della magistratura irresponsabile di quanto fa e inarrestabile da qualsiasi altro potere. Per fortuna, ma la loro fortuna è nata e si è sviluppata abbondantemente fuori dell’Italia, ci sono i Rocca, che nella classifica annuale di MF-Milano Finanza sui Paperoni della borsa non a caso occupano il terzo posto dopo l’exploit del primo posto dello scorso anno. Ma quella dei Rocca è una ricchezza che viene da lontano, da quando il nonno degli attuali membri della famiglia al vertice del gruppo decise di emigrare in Argentina per dare vita a un forte gruppo siderurgico. Qui la storia è famigliare, ma i discendenti, evidentemente per il rigore imposto dal fondatore, hanno saputo essere all’altezza del nonno, continuando a sviluppare il gruppo anche quando la sfortuna ha colpito più di un membro autorevole della famiglia, che era in posti chiave delle varie aziende. Non deve sorprendere che la famiglia Agnelli/Nasi (più propriamente Agnelli/Elkann/Nasi) sia soltanto ottava nella classifica, precedendo non di molto Diego e Andrea Della Valle. Il potere condizionante degli Agnelli per le sorti del Paese è sempre stato nettamente superiore alla loro potenza finanziaria essendo la riprova della decadenza dell’Italia, anche se occorre ricordare che secondo Margherita Agnelli larga parte della ricchezza lasciata dal padre Giovanni è ben nascosta in fondazioni del Liechtenstein. Sia come sia, il potere Agnelli continua a sovrastare la ricchezza e per evitare che diminuisca John Elkann ritiene che la Fiat debba rimanere il controllore del principale gruppo editoriale italiano. Di editori nella classifica dei primi dieci per ricchezza in borsa ce ne sono due, ma ambedue ci sono perché hanno attuato (è il caso dei De Agostini) una forte diversificazione in molti altri campi, da quelli delle scommesse ai fondi di private equity, oppure (è il caso di Silvio Berlusconi) nel settore finanziario con il formidabile alleato Ennio Doris. È finita l’epoca in cui gli editori (famiglia Rizzoli) erano tanto ricchi da potersi permettere la proprietà del Milan e di avere il più bel Falcon della flotta aerea privata, oltre che un palazzo sulla Fifth Avenue di New York. Non è invece un caso che nei primi 20 ci siano due brand espressione del made in Italy come Campari (famiglia Garavoglia) e Ferragamo (con ancora in primo piano la matriarca Wanda), due gruppi grandi esportatori e sempre più globali; basti pensare che con il brand Aperol dal 2014 Campari sarà importante sponsor del Manchester United. Per la stessa logica della capacità di globalizzarsi, in questo caso sia come aree di produzione che come aree di vendita, segue a non molta distanza De Longhi, che in questo modo è, dopo i Benetton, il più importante gruppo dell’ex mitico Nordest. Non mancano nelle prime posizioni gli investitori stranieri, in primo luogo i soci esteri di Unicredito: sia Khalifa bin Zayed (Abu Dhabi) che Alex Knaster, i quali, avendo comprato titoli della seconda banca italiana quando nessuno li voleva, ora si trovano a godere del recupero di valore dell’istituto di credito. Nella banca guidata da Federico Ghizzoni siede, come vicepresidente in rappresentanza proprio dei capitali di Abu Dhabi, il presidente della Ferrari, Luca di Montezemolo, il quale nella confidenza fatta alcuni giorni fa a un amico non si è potuto astenere dal commento, lui che non ha un passato da banchiere, su come oggi sono costretti a svolgersi i consigli di amministrazione degli istituti di credito: ore e ore passate a verificare il rispetto delle procedure e dei vincoli della Banca centrale, invece che a esaminare operazioni in cui può esprimersi lo spirito proprio dei veri banchieri, quello di finanziare chi è in grado di produrre ricchezza o di salvare posti di lavoro. Colpisce infine la nona posizione del francese Emmanuel Besnier grazie alla conquista di Parmalat: dalle macerie di Calisto Tanzi è rinata una società, la prima del settore alimentare, che capitalizza svariati miliardi. Non era quindi campato in aria il tentativo fatto da Passera, quand’era ceo di Intesa Sanpaolo, di trattenere in mani italiane il comando di un’azienda sicuramente strategica come quella di Collecchio. Come si vede l’annuale classifica dei Paperoni della borsa elaborata da MF-Milano Finanza è uno spaccato abbastanza rappresentativo del Paese Italia, della sua economia basata principalmente sul made in Italy, con poca presenza dell’industria classica se si esclude l’ingresso in classifica di Pietro Salini con la conquista di Impregilo, in passato un grande protagonista del genio italiano anche nella realizzazione di grandi opere nel mondo al punto che Carli, uscito da Bankitalia, chiese ad Agnelli che gli offriva di entrare nel suo gruppo di fare il presidente di Impregilo, tanto era il prestigio internazionale della società che dovendosi cimentare in gare internazionali per dighe, metropolitane e grandi ponti doveva per forza essere competitiva a livello mondiale. E per Carli le aggiudicazioni di Impregilo (e delle società che fondendosi ne generarono la nascita) erano un termometro molto importante per capire quanto l’imprenditoria italiana riuscisse a competere e il Paese a tenere il passo con il resto del mondo. Ora Impregilo incasserà una sostanziosa penale per la rinuncia alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, che in ultima analisi avrebbe segnato un risveglio delle grandi opere in Italia. Per capirne l’importanza sul piano della modernizzazione basta ricordare la modifica sociale, economica, di efficienza che sta sempre di più introducendo l’Alta velocità prima delle Ferrovie dello Stato e ora anche di Ntv-Italo. Scorrendo la classifica, si capisce quindi anche quali sono i buchi gravissimi del sistema produttivo italiano e come, per uscire dalla crisi sempre più drammatica, si imponga un colpo di reni da parte del governo che restituisca piena fiducia agli imprenditori italiani. In assoluto la ricchezza in Italia non manca, nonostante la perdita del 24% di potere di acquisto degli italiani negli ultimi 20 anni. Occorre mobilitarla. E per fare ciò non si può prescindere da quanto ogni economista onesto ma anche ogni case history materialmente suggeriscono: il forte abbassamento della pressione fiscale, oggi insopportabile. Non c’è esempio di un Paese che sia ripartito per una crescita capace di creare posti di lavoro dove non siano state tagliate le tasse, specialmente se esse erano altissime, come sono oggi insopportabili in Italia. Ma per tagliare le tasse occorrono due atti preliminari: ridurre di almeno il 10% subito la spesa pubblica ormai superiore agli 800 miliardi annui (le aziende sono arrivate, per la crisi, anche a tagliare i propri costi del 30-35% e quindi non si capisce perché non possa farlo il governo) e tagliare contemporaneamente il debito pubblico, ormai superiore ai 2 mila miliardi, vendendo asset, siano dello Stato o degli enti locali, visto che questi concorrono al debito pubblico per oltre 400 miliardi. Se il governo guidato da Enrico Letta avrà il coraggio (prima di tutto) e la forza per compiere questi tagli, l’Italia che esce dalla classifica dei Paperoni di borsa, quale specchio della ricchezza del Paese, potrà ripartire alla grande. Diversamente quelle ricchezze della classifica e tutte le altre, molto più massicce, che non sono in borsa, prenderanno altre strade. Strade dove la ricchezza può moltiplicarsi, come fenomeno genetico, al servizio non solo di chi la possiede ma anche di tutti gli altri italiani. Appunto, come scriveva Den Xiao Ping: la povertà non è socialismo; la ricchezza è bella. P.S. Il twitter di MF-Milano Finanza ha segnalato nei giorni scorsi qual è la strada individuata da Gianni Letta con il presidente Giorgio Napolitano per dare agibilità politica a Silvio Berlusconi. Il capo del centrodestra dovrà fare tre mesi ai servizi sociali, mentre sarà chiesta la grazia non per la pena principale, visto che comunque ne avrà espiata una buona parte dell’anno residuato dall’indulto, ma per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Il problema è che la definizione di questa parte della pena è nelle mani dei giudici di Milano, che per congelare Berlusconi, invece di accelerare, potrebbero fare melina. Riuscirà Napolitano a imporre la stessa celerità che la Corte d’appello di Milano e la Cassazione hanno avuto nel condannare il rifondatore di Forza Italia? Se la giustizia dovesse avere due velocità a seconda della convenienza politica, dovrebbe essere naturale che il governo Letta, se resisterà, proceda senza indugio alla riforma, peraltro giudicata indispensabile anche da Napolitano che ha misurato sulla sua pelle la ferocia di alcuni pm aspiranti leader politici.