Laura Montanari, la Repubblica 17/8/2013, 17 agosto 2013
CHE FINE HANNO FATTO GLI EROI (E I CODARDI) DELLA CONCORDIA
La prua del gigante adesso è sprofondata un po’ più in giù sotto le onde e la ruggine cala da ponti e oblò, quasi una ruga profonda. «Eccola, com’è grande». Già. E «com’è vicina all’isola». Teleobiettivi puntati, telefonini pronti al clic: dal traghetto si alzano sempre tutti in piedi.
ED ESCONO fuori sul ponte a guardarla ancora con stupore, i turisti salpati da Porto Santo Stefano. Isola del Giglio, arcipelago Toscano, seconda estate con vista sulla Costa Concordia. A un anno e mezzo dal più sciagurato dei naufragi del mondo — 32 morti per un inchino e centinaia di feriti, danni economici e ambientali ancora indefiniti — lo scafo bianco è diventato opaco, le vernici virano al giallo, la salsedine aggredisce tutto come una malattia inarrestabile. Dalla cima si intravedono ancora le piscine di quella che era la più grande spa galleggiante, 2mila metri quadrati arredati in stile orientale e attrezzati di sofisticati sistemi tecnologici. Sul fondo del mare sono invece scivolate le sdraio e le scarpe dei viaggiatori, i pezzi di mobilio e i piatti di uno dei cinque ristoranti di questa nave grande come un quartiere. E con una popolazione di 3.208 passeggeri e 1.023 membri dell’equipaggio. «I naufraghi di quella notte erano più di 4 volte gli abitanti dell’isola» dice uno al bar di Giglio porto. Non c’erano abbastanza coperte, posti letto, aprirono gli asili, la chiesa, le case, la scuola. Dal mare l’ondata di scialuppe, gente a nuoto o scaricata dalle motovedette pareva inarrestabile.
Gli scampati scrivono ancora: lettere commosse e cartoline senza una via o un codice postale o il nome di una famiglia, scrivono al Giglio come fosse una persona, dal Canada, dalla Germania, dal Sudafrica al Giappone, dalla Corea. A volte rimandano i maglioni avuti in prestito, altre tornano con una busta, un regalo o solo una stretta di mano. La medaglia d’oro che il presidente Napolitano ha consegnato all’isola è chiusa in cassaforte e non sono i trofei di generosità che possono aiutare questo pezzo di Toscana a risollevare il turismo. «La gente non vuole il mare col relitto, anche se l’acqua è perfetta » dicono tutti al Giglio. Certo la crisi pesa, ma pure lo sconcerto che dà quel colosso delle crociere reclinato sul fianco, immerso per più di metà, appoggiato su due spuntoni di roccia. Lo dicono i numeri. «Più 0,9 il turismo degli ultimi sei mesi all’Argentario, meno 9,5 da noi», denuncia il sindaco Sergio Ortelli guardando la sagoma ferrosa di questo gigante deformato dai cantieri della Titan Micoperi, specialisti in rimozione. Corde di ferro, cassoni, stazioni di rilevazione dati, gru, elevatori, telecamere. Rimettere in galleggiamento e poi spostare questa nave da 144mila tonnellate è un’opera di ingegneria mai testata prima, sfida a cui lavorano giorno e notte, domeniche comprese, 500 addetti, metà dei quali vive sulla piattaforma Pioneer e nemmeno scende a terra. «Mi viene ancora addosso tutta la tristezza di quei giorni nel rivederla», dice uno dei soccorritori dei vigili del fuoco. Disabitata, in rovina, i corridoi pieni di alghe, pesci e oggetti che fluttuano sinistri al chiuso delle cabine.
Fanno ancora rumore le vite cadute lì dentro, Dayana sei anni inciampata correndo per mano a suo padre lungo uno dei corridoi del ponte 4 mentre tutto, nel buio, diventava verticale. O Girolamo, il musicista dei Dee Dee Smith: pugliese, di Alberobello, era sul ponte 3 con la band, non sapeva nuotare, lo hanno messo su una scialuppa e lui è sceso per far posto a un bambino perdendo l’ultimo treno della vita. E quegli altri quattro trovati nell’ascensore la cui porta si è spalancata diventando trappola mortale nel buio. O come Guillermo Gual, 69 anni, spagnolo, che soffriva di autismo: bastava poco per spaventarlo, l’hanno trovato morto e incastrato vicino a uno dei cartelli che indicavano i punti di raccolta. Chiunque abbia vissuto i giorni successivi, quando la nave restituiva i corpi, ricorderà Kevin, ragazzo indiano che camminava avanti e indietro sulla banchina, pregando. È rimasto lì per settimane ad aspettare suo fratello Russel Rebello, 33 anni, cameriere imbarcato e uno fra gli ultimi ad abbandonare la nave, lo si intravede in uno dei filmati quando lo scafo è già piegato, un attimo prima di sprofondare. Russell come Maria Grazia Trecarichi, 50 anni, siciliana e una crociera per regalo di compleanno: sono ancora fra i dispersi. Un rosario di vite perse per una sciocchezza, un inchino, una rotta spericolata, l’impatto contro la roccia delle Scole alle 21,45. E poi la mancata evacuazione, quel negare la realtà per paura o per lo shock, «abbiamo avuto un black out» mentiva il comandate Francesco Schettino alla capitaneria e «tornate nelle vostre cabine, vi faremo sapere» dicevano dagli altoparlanti per «non generare il panico».
Che storia incredibile Concordia. Imbrigliata nello stesso posto di quella notte, fantasma di una vacanza, giochi e divertimenti senza più voce. A 50 metri dagli scogli della Gabbianara, si vedono bene le vetrate della plancia di comando: dove c’erano Schettino e i suoi ufficiali, dove era salita dopo cena, Domnica Cemortan, amica moldava del comandante. Schettino non ha più ripreso il mare, Costa lo ha licenziato e ora la sua è una storia di ricorsi legali di codici e norme. Non si è perso un’udienza del processo al cinema Moderno di Grosseto che lo vede come unico imputato. Ha rilasciato qualche intervista, per prendersi il merito di aver fatto ruotare la nave verso la costa o per dare addosso al timoniere colpevole di non aver capito l’ultimo ordine prima dell’impatto. Il timoniere indonesiano, Jacob Rusli Bin, è rimasto a casa, fine dei viaggi: Costa non lo ha licenziato, semplicemente non gli ha più rinnovato il contratto. È tra quelli che hanno patteggiato, un anno e 8 mesi, l’unico con un avvocato d’ufficio e mai presente al processo.
Niente più mare neppure per Silvia Coronica, 32 anni, terzo ufficiale di plancia, per Manrico Giampedroni, commissario di bordo decorato con medaglia d’oro da Schifani per aver salvato diverse vite rimanendo poi per 36 ore, ferito, prigioniero nella nave, e per l’altro ufficiale Ciro Ambrosio: il ministero delle Infrastrutture ha ritirato loro (per due anni) la patente. E Ambrosio che da 6/7mila euro dello stipendio di quando navigava è passato a 1.400 per impiego a terra negli uffici dell’armatore, sperava di chiudere i conti con quella notte e poter rimettersi in viaggio. Invece la beffa, via la patente, proprio a lui che non aveva nemmeno una misura cautelare e a cui i giudici hanno riconosciuto l’impegno nel salvare i passeggeri. «Ricorreremo» promette il suo avvocato, Salvatore Catalano. Lavora sempre per Costa, Roberto Ferrarini manager che ha patteggiato e che non è più però a capo dell’unità di crisi. Molti altri, compreso Antonello Tievoli, il
maitre gigliese che aveva chiamato la sorella, insegnante nella scuola sull’isola per annunciarle l’inchino e lei aveva postato su Facebook: «La nave passerà vicino vicino», è fra quelli tornati al lavoro in crociera. Non aveva pendenze con la giustizia, ma si racconta che sul distintivo della giacca abbia scritto al posto del suo cognome quello di un familiare. La curiosità della gente può far male perché costringe a tornare indietro, a quella notte carica di errori, lutti, rimpianti, ma anche di umanità ed eroi riconsegnati alle proprie vite. Chi è tornato a fare il cameriere, il cuoco, l’addetto alla lavanderia, il chitarrista, la ballerina per altre flotte, chi su un altro transatlantico. Salpano, ripartono, chissà se troveranno mai la giusta distanza da quel 13 gennaio, «
amm’a fa l’inchino al Giglio», ore 18,45 Concordia si era da poco lasciata alle spalle Civitavecchia e i cricieristi scorrevano i menù, si distendevano alla spa, passeggiavano sui ponti come fossero davvero in vacanza, come se fossero al riparo.