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 2013  agosto 14 Mercoledì calendario

QUEL CERCHIO ALLA TESTA (CHE NON MI LASCIA

MAI) –
Psy, la popstar coreana, pantaloni alla turca e piedi nudi, se ne sta seduto in una piccola camera asfittica al The Dorchester Hotel di Londra. Davanti a lui ci sono tre pacchetti di sigarette, e mi chiedo se saranno sufficienti per l’intervista. Infatti, Psy non smette un secondo di fumare, e quando non fuma chiede con ansia che gli venga tradotto quanto si sta dicendo, e quando non chiede la traduzione, mi racconta della sua infanzia e del padre violento, del suo «disperato» bisogno di attenzione, del tempo trascorso in prigione e dei suoi problemi di alcol, droghe e bugie. Beve in continuazione, giorno e notte. La vodka coreana è la sua «migliore amica», ma beve anche whisky, tequila e qualsiasi altra cosa con un po’ di gradazione. «Se sono felice, bevo. Se sono triste, bevo. Se c’è il sole. bevo. Se fa caldo bevo, e se fa freddo bevo comunque».
C’è qualche momento nella sua vita in cui non beve?
«Quando devo smaltire una sbornia».
E le capita spesso di avere quel tipo di cerchio alla testa?
«Spessissimo».
Psy è la prova vivente di come il successo possa rendere una persona triste e sola, tanto da aver bisogno di un bel po’ di vodka coreana per riequilibrare le energie scombinate da una hit che da signor nessuno l’ha trasformato in una star planetaria alla Justin Bieber.
Dopo la pubblicazione su internet del video ipnotico Gangnam Style nel luglio 2012, Psy ha trovato un nuovo tormentone con il balletto del cowboy che agita il lazo, lanciato in un trotto sincopato. Ha visitato venti nazioni e una cinquantina di città. Ha incontrato Ban Ki-moon e il presidente Obama. Ha tenuto una conferenza ad Harvard, ha parlato alla Oxford Union Society e cambia città ogni tre giorni. Non vede la moglie e le figlie da aprile. Ogni volta che il suo aereo decolla o atterra, si sente stanco e più vecchio. «Non ho paura di volare, ma ora è diventato davvero troppo», commenta un po’ irritato.
Oggi insiste nel dire che sta ancora vivendo il suo sogno «ogni settimana», anche se riesce a stento a prestare attenzione alle mie domande. In occasione di questo viaggio a Londra, mi conferma di aver vissuto i sogni «numero 1 e numero 2». Scopro che gli piace numerare i sogni-desideri. Il primo si è realizzato questa mattina, quando ha incontrato Brian May (il chitarrista dei Queen), perché sono stati proprio i Queen a dargli il sogno di diventare cantante: aveva 12 anni e scoprì un video di Freddie Mercury al Wembley Stadium. Il secondo sogno era suonare a Wembley, e si è avverato a luglio, quando ha partecipato a un grande concerto durante il quale Robbie Williams è andato nel suo camerino e gli ha chiesto se gli andasse di fare qualcosa insieme. I sogni numero 3 e 4 riguardavano invece una collaborazione con Madonna e una performance con MC Hammer. E si sono avverati l’anno scorso. Dopo la sua apparizione a Wembley, afferma di avere ottenuto tutto quello che voleva, compreso un secondo singolo, Gentleman, che vanta già 500 milioni di visualizzazioni su YouTube. Gentleman assomiglia a Gangnam Style, ma è meno sofisticato. Se il primo tormentone ironizzava sull’abbigliamento e sulle abitudini di Gangnam, un distretto di Seoul simile a Beverly Hills, Gentleman è invece la satira del tipico «carogna». Nel video Psy è un «gentiluomo» per nulla galante con le donne. Il fatto che non si capisca se sia un bravo o un cattivo ragazzo «rende Psy molto più accattivante come prodotto», afferma l’artista stesso, strascicando un po’ le parole. Ho l’impressione che capisca solo la metà di quello che gli chiedo. «Il suo inglese è...», cerca di intromettersi il manager. L’anno scorso, in un talk show, l’intervistatore ha dovuto spiegargli perché qualcuno avesse definito la sua canzone una sorta di «herpes musicale». «A volte qualcosa gli sfugge», si affretta a spiegare il manager. I ragazzi nella stanza annuiscono. C’è il manager, un traduttore, un cameraman, una ragazza per il trucco e parrucco e un’enorme borsa piena di inspiegabili rotoli di nastro adesivo di carta. In un angolo, uno stand pieno di abiti. Il tema è «disco gay». Ci sono scarpe borchiate e smoking con paillettes. Mi dicono che il team considera Psy un vero artista.
«Non farà nulla di bizzarro», spiega il manager al fotografo. Psy se ne sta stravaccato sul sofà, con due chiazze di fondotinta sulle tempie. I suoi incredibili capelli corvini formano un’ onda su un lato.
DODICI ANNI FA, PER INSEGUIRE IL SOGNO di diventare una pop star, il cantante ha rifiutato di entrare nella «noiosa» azienda di semiconduttori del padre. In effetti, su di lui sembra aleggiare un’aria da manager fallito. Parla un inglese imparato su Twitter è strano sentire un trentacinquenne che parla di «hater» (termine dei rapper, ndr). Ed è evidente che nell’ultimo anno non ha sostenuto una conversazione articolata per oltre due minuti.
«Ma che domande complicate!», esclama con una risata sguaiata. Parla delle sue canzoni con struggente trasporto, e mi racconta di come si sia commosso fino alle lacrime durante un concerto a Seoul, quando è planato sul World Cup Stadium attaccato a una fune mentre cantava una canzone d’amore. «Ero al settimo cielo e cantavo. Nessuno prima d’ora ha mai provato cosa vuoi dire volare sul World Cup Stadium». Mentre parla, ha tutta l’aria di un cantante da crociera frustrato che, per un caso della vita, si è esibito davanti a circa duecentomila persone e che, ogni volta che arriva da qualche parte, si porta dietro una fama tale da venire subito presentato al coreano più famoso del posto. In Inghilterra lo si è visto in compagnia di Park Ji-Sung, centrocampista dei Queens Park Rangers. In America, è apparso assieme a Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, che si è detto «geloso» di Psy perché, prima della sua scalata alle classifiche, era lui «il coreano più famoso al mondo». «Lei è fantastico», ha commentato poi il segretario durante quell’incontro.
IN COREA, INVECE, PSY NON LO SI VEDE IN GIRO, non può uscire di casa se non vuole essere braccato dai fan «anche solo per un abbraccio». Se fosse per lui, la cosa sarebbe grandiosa, perché ama il «contatto umano». Adora saltare le transenne dopo i concerti. «Batto il cinque ai miei ammiratori, adoro queste cose», ammette. Da sempre è «alla disperata ricerca di attenzione» o almeno è «felice quando gli altri sono felici», si affretta a rettificare, spiegando di aver scoperto a scuola, nelle vesti di cheerleader, che la folla lo inebriava. Per farla breve, non è che un esibizionista, Ma fuoriclasse.
La fama di Psy si ripercuote, nel bene e nel male, anche sui suoi sosia. Tre mesi fa, a Cannes, uno di loro, Denis, è stato assalito dalla folla quando ha cominciato a farsi vedere alle feste. È stato fotografato accanto a guardie del corpo e attrici, e persino con coppe di champagne abilmente scroccate ai vari eventi. L’unico a scoprire l’inganno è stato lo stesso Psy, dopo aver ricevuto un messaggio dall’attore e produttore americano David Hasselhoff in posa accanto al sosia. L’episodio lo ha divertito, ma quando gli chiedo se gli piacerebbe incontrare questo sosia, mi blocca subito. «Perché dovrei? Ho un sacco di amici, non ne ho bisogno di altri. Odio gli sconosciuti». Odia gli sconosciuti?, ripeto. Il manager si intromette: «Quello che vuol dire è che ha un numero sufficiente di amici maschi».
Il problema è che Psy è così «entusiasmante» e «divertente» che deve tenere i fan a debita distanza. E che mi dice delle groupie? Le donne vogliono venire a letto con lei? «Groupie?», chiede inarcando un sopracciglio. Per fortuna interviene il manager. «Se dopo un concerto c’è qualche ragazza che vuole,..».
«Oh! Una domanda importante! Ai concerti ci sono tantissime belle ragazze, io canto per loro e loro mi fanno il cuoricino con le dita», spiega miniando il gesto. «Anch’io le amo», esclama bofonchiando, affrettandosi a specificare che si tratta di un sentimento «ufficiale» e non «privato».
Spesso Psy parla di sé in terza persona o con toni adatti all’eloquio dell’imperatore del Giappone. Il fatto che non possa avere avventure sentimentali è per lui una «tragedia, ma la questione si chiude qui», perché è sposato con Yoo Hye-yeon, ex violoncellista, con la quale ha due gemelle di cinque anni. Yoo sta a Psy come Melinda sta a Tom Jones: la prima cosa che uno pensa quando apprende la notizia dell’esistenza di una signora Psy è «ma Psy ha davvero una moglie?».
«LA LONTANANZA È UN PROBLEMA. Da padre, vorrei stare con le mie figlie più tempo possibile, ma come artista devo seguire le emozioni e vivere come se fossi single». Forse questa battuta potrebbe spiegare le chiacchiere sulla possibile relazione con la co-protagonista del video di Gangnam Style, la ventiduenne YoonA. Che ha smentito e, il giorno dopo l’uscita della notizia, ha salutato i fotografi che l’attendevano ali’aeroporto con un’interpretazione del balletto-cavalcata, a dimostrazione di quanto, nell’ultimo anno, il tormentone è la risposta a quasi tutto.
Il sindaco di Londra Boris Johnson ha confessato di averlo ballato con David Cameron a Cherques, la residenza di campagna del primo ministro britannico. Michelle Obama ha ammesso che anche Barack ci ha provato.

PSY HA LAVORATO un MESE con i coreografi per creare questo balletto. «Abbiamo provato con ogni animale possibile. Poi qualcuno ha acceso la Tv e abbiamo visto un cavallo al galoppo dentro un recinto».
Studiare la coreografia di Gentleman è stato un bello stress per Psy. Ne ha provate più di cinquanta prima di scegliere quella definitiva, anche se. a dirla tutta, il risultato è molto simile a Gangnam Style.
Psy ha iniziato a ballare e a combinare guai quando aveva appena dieci anni. Nato in una ricca famiglia nel distretto di Gangnam (la madre è proprietaria di numerosi ristoranti), unico figlio maschio, è stato più volte invitato a entrare nell’azienda di famiglia. Lui però odia la matematica e non sopporta che gli altri decidano il suo futuro. Il padre ha tentato di persuaderlo, anche con le botte. «Mi picchiava sempre. Non se ne faceva una ragione. Non capiva come mai suo figlio fosse così poco pratico e così negato per gli studi accademici, e avesse come unico interesse quello di attirare l’attenzione delle ragazze. Credo si sentisse molto frustrato».
Il «vecchio Psy», come viene chiamato il padre, era «molto severo», anche secondo gli standard coreani, e non ha smesso di picchiarlo nemmeno quando è diventato adulto. Finché, nel 2006, Psy ha scritto una canzone sulla «solitudine» del padre e «sull’enorme barriera» che li divideva. Ed è venuto a sapere dalla madre che il papà, dopo aver sentito la canzone, aveva deciso di provare a recuperare il rapporto. «Wow, mi sono detto, il potere della musica!», confessa il cantante. Ora la canzone è disponibile come suoneria per cellulari. Il manager interviene per dirmi di non prestare attenzione alla questione delle botte. «Non è una cosa seria. Si tratta (solo) di punizioni corporali. È molto comune».
«NON SONO UN TIPO QUADRATO», sussurra Psy. Nonostante ciò, i genitori fanno un ultimo tentativo di salvare la carriera accademica del figlio. Lo mandano alla Boston University nel 1996, ma lui non riesce a ottenere una laurea. Non ce la fa neppure al Berklee College of Music, dove si era iscritto di nascosto, usando il denaro che il padre gli aveva dato per l’università.
I genitori erano «davvero arrabbiati» quando scoprirono che, dopo quattro anni, il figlio non era nemmeno riuscito a imparare un buon inglese. Tuttavia continuò a seguire le sue passioni, componendo musica al computer e mandando in giro le demo. Nel 2000, arrivò in Tv un balletto in cui Psy urlava «guardami» a uno dei produttori, che fece chiamare la sicurezza. L’anno successivo pubblicò il suo primo album chiamato Psy From the Psycho World, che è la combinazione del suo soprannome «Sai» e «psycho». Il debutto fu così bizzarro che non si sa se definirlo un comico, un rapper, un cantante o un molestatore. I produttori della sua etichetta si aspettavano un «tipo alto un metro e ottanta, elegante e raffinato», ma quando se lo trovarono davanti, convocarono una riunione d’emergenza per discutere come migliorare la sua immagine. Alcuni proposero una «maschera», altri dei «ritocchini». Il direttore generale si lasciò sfuggire che qualche ritocco non sarebbe stato sufficiente. Per contro, Psy rifiutò qualsiasi tipo di intervento estetico. Ora è orgoglioso di poter dire di essere diventato famoso con il corpo che si ritrova. «La maggior parte delle celebrity è molto più magra o molto più alta di me, ha il viso più piccolo o occhi più grandi». Cambierebbe qualcosa del proprio corpo? «È troppo tardi», ripete tra un sospiro e l’altro.
TUTTAVIA CI SONO STATI MOMENTI in cui era sul punto di gettare la spugna. «Desideravo essere una persona migliore rispetto a mio padre. Ci ho provato davvero. Volevo potergli dire un giorno che il suo modo di pensare non era l’unica strada». Il conflitto con il padre è il motivo per cui cercherà di non avere figli maschi. Pensando all’esempio ricevuto dai genitori, si convince che non riuscirebbe a cavarsela con un ragazzino. Ogni sua impresa precedente si è infranta in un clamoroso fallimento. È stato multato per i testi sessualmente espliciti del suo secondo album ed è stato arrestato per possesso di droga nel 2001. «Avevo 23 anni, facevo l’artista da uno. Sono stato in prigione per 25, 26 giorni».
LA GALERA È STATA UN’ESPERIENZA «Orribile». I genitori si rifiutarono di pagare la cauzione e il padre si limitò a scuotere la testa e a invitarlo a sfruttare l’occasione per smettere di fumare. Ancora oggi non capisce il motivo dell’arresto. «Stare in prigione non è stato bello, soprattutto visto il rispetto di cui gode la mia famiglia. Ma, come artista, ogni esperienza contribuisce al miglioramento del processo creativo. Io penso positivo. Se capita una disgrazia del genere, ci sarà un motivo, magari ti porta a raggiungere un altro tipo di felicità». Gli chiedo se in carcere è stato picchiato, e il manager si intromette ancora una volta. «Non c’è nulla da dire al riguardo», taglia corto, mentre Psy alza le mani, quasi volesse arrendersi. «E va bene», dice, lei è la prima persona a cui ho parlato del mio arresto. Ma lei vuole anche i dettagli, e ammetto che è un bruttissimo ricordo. Persino mia moglie mi chiederà perché mai le ho parlato di quel periodo», aggiunge accendendo l’ennesima sigaretta. «Non ci sono prigioni belle (in Corea), non so se mi spiego». Tuttavia, sostiene di aver elaborato quella esperienza come artista e di aver scritto un’altra hit, il cui titolo rispecchia la sua tipica modestia. «Champions!», esclama con aria soddisfatta. Parte della condanna prevedeva l’obbligo di completare il servizio militare, che lui aveva tentato di schivare chiedendo allo zio di convincere il capo di una software house ad assumerlo per ottenere l’esenzione dalla leva. Però le autorità cominciarono a insospettirsi quando lo videro esibirsi in cinquantadue concerti e svariate apparizioni televisive, mentre avrebbe dovuto programmare computer. Lo trascinarono in tribunale dove Psy fu condannato ad assolvere gli obblighi di leva nel 2009.
Suscitò scalpore la sua partecipazione a una serie di concerti anti-americani dopo l’uccisione di due scolare coreane da parte di un convoglio militare americano nel 2002. Sul palco sfasciò un modellino di carro armato. Due anni dopo, partecipò a un altro spettacolo anti-americano in risposta alla morte di un traduttore coreano, rapito e decapitato in Iraq durante la guerra. È ancora viva la controversia sulla traduzione esatta di una canzone (pare si trattasse di Dear America dei N.E.X.T, ndr), ma sembra che venga detto «maledetti yankee» almeno una volta. Lo scorso dicembre Psy si è scusato ufficialmente per aver usato parole inopportune. «Alcuni miei hater sostengono che l’ho fatto solo perché ora guadagno montagne di dollari», spiega con un sospiro. «Posso solo dire che ho scritto quella canzone otto anni fa e in otto anni sono cambiato moltissimo. Sono diventato padre e ho fatto il servizio militare. Ero contro la guerra, non contro l’America. Le ho già detto che la mia carriera è stata tutta un ù saliscendi. Ma posso ritenermi molto fortunato: come artista e come uomo la mia vita è eccezionale».
La cosa più «eccezionale» è che sembra non aver ancora ricevuto i soldi delle vendite mondiali di Gangnam Style. «Sto aspettando», conferma con ansia. «La cosa dovrebbe sbloccarsi entro Panno». Ma avergli ricordato il problema economico porta un clima di depressione sul set fotografico, allestito in un’altra suite. I truccatori ritoccano il make-up, lo stylist gli fa indossare una giacca rosa fluo, e lui si lascia cadere in una posa languida sul letto, mentre fissa lo sguardo sullo specchio del bagno, come se fosse una Marlene Dietrich esausta, dividendosi tra il controllo degli scatti del fotografo, altri ritocchi al trucco, altre pose.
Presto volerà a Toronto, poi a Shanghai, quindi sarà la volta dell’Indonesia, e poi dovrà pensare al prossimo album, che conterrà «canzoni serie». E poi, e poi, e poi... Quando finirà tutto questo?, gli chiedo. «Non lo so», risponde con un sussurro.


(Traduzione di Scado Bianco)