Antonio Gnoli, la Repubblica 15/8/2013, 15 agosto 2013
IL DIO DEGLI SCACCHI
Fu Bobby Fischer a sostenere che gli scacchi sono una guerra. Non ci voleva una fantasia spregiudicata. Ma dirlo nel contesto di uno scontro con il sovietico Boris Spassky, era un modo per dichiararla. E Fischer di solito non faceva prigionieri. Della guerra, si sa, gli scacchi ricordano gli schieramenti e le gerarchie: strategie di attacco e di difesa. C’è la carne da macello, i pedoni; e ci sono i nobili e la Regina che si raccolgono in difesa del Re. Fischer era un predatore, con qualche risvolto mistico. Prima di lui l’America aveva avuto solo un altro grande, immenso giocatore: Paul Morphy.
Devastante e devastato, nella mente.
Ernest Jones, allievo e biografo di Freud, colse i tratti inconfondibili della paranoia. Individuò il sentiero di una malattia sul quale Morphy camminò con sospetto e dolore. E che in parte Paolo Maurensig ripercorre nel suo nuovo romanzo L’arcangelo degli scacchi (Mondadori).
Maurensig esordì con La variante di Lüneburg, anche quella una storia di scacchi, molto mitteleuropea. Poi lasciò trascorrere un lungo tempo prima di tornare a raccontare storie scacchistiche. «Più di vent’anni, sono passati», mi dice. «Ho ripreso con un racconto lungo, L’ultima traversa, cheè la storia di Daniel Harrwitz la cui tomba è nel cimitero ebraico di Bolzano e quella di Paul Morphy». Maurensig è un signore tranquillo. Ha un aspetto solido, ordinato, diretto. Se fosse un pezzo della scacchiera sarebbe la torre. Vive, in una bella casa, con la moglie in un paesino non distante da Udine. Proviamo a ripercorrere insieme una partita che fu esemplare per Murphy. La giocò in Europa contro Louis Paulsen: «Morphy gestiva i neri.
Per conservare, dopo una serie di mosse, un’apparente parità sacrificarono i quattro cavalli. A quel punto Paulsen minacciò con la torre l’alfiere di Morphy. La situazione si fece incerta.
Seguirono alcune mosse comprensibili ma complicate. Paulsen provò uno scambio di donne che alleggerisse la pressione verso il centro. Se Morphy avesse accettato, la partita si sarebbe rimessa sul piano della parità. Ma qui scattò il colpo di genio dell’americano che sacrificò la propria donna contro l’alfiere. Fu una mossa azzardata che avrebbe potuto condurlo dritto alla sconfitta. Il tedesco era incerto. Fiutò il pericolo. Ci pensò due ore prima di decidersi e alla fine mangiò la Regina.
Il resto divenne una sequenza di mosse forzate. L’illusione di un vantaggio si risolse con una caccia al Re da parte di Morphy. Fu una delle partite più belle delle 500 che giocò in Europa».
Mentre sulla scacchiera Maurensing ricostruisce le mosse, penso che al posto di Morphy non avrei mai avuto il coraggio di sacrificare la regina.
Avrebbe agito in me l’istinto di conservazione contro un gesto apparentemente suicida. Ma uno scacchista di talento è come un mistico che annulla il peso della materia e le sue conseguenze. Quando giunge il momento fa ciò che deve senza sapere esattamente perché: «Quello che distingue un grande scacchista da un buon giocatore, che ha imparato sui libri, è uno speciale intuito. Egli non sa fino in fondo perché esegue una certa mossa, ma nel farla va dritto alla vittoria. Cheè poi l’annullamento dell’avversario».
Ho sempre pensato che negli scacchi non si annettono i nemici: si distruggono. Un Re alla fine muore, o patta. Ma nel "pattare" non c’è la riconoscenza della forza dell’altro, ma solo la propria impotenza a non essere riuscito a dare il colpo di grazia. Mi chiedo se per giocare a scacchi bisogna essere dei mostri. «Lo si è in molti modi. La crudeltà, l’efferatezza, il cinismo, l’ira possono toccare vette inaudite. Ma lo scacchista deve essere anche un mostro di intelligenza e di astuzia: un calco dell’infinito, della sua potenza, della sua immaginazione».
L’intelligenza di Morphy toccava il sublime. Era in grado di giocare alla cieca una decina di partite. «Non era questo l’aspetto più rilevante. Ci sono stati giocatori, dalla mente prodigiosa, come Alexander Alechin, che hanno gestito contemporaneamente 40 partite. Avevano la scacchiera non fuori ma dentro di loro. Ma dopotutto quelle simultanee erano solo delle esibizioni». Non sono gli scacchi anche una teatralizzazione del mondo? Maurensing sostiene che la prima cosa che un profano apprezza del gioco è la sua epica nascosta e il tono favolistico: c’era una volta un Re e una Regina, i cavalieri e i castelli. Ma è un contado strano. Senza popolo, senza veri rituali sociali: «La favola si trasforma rapidamente nello scontro acceso tra due intelligenze sovrane che duellano all’ultimo sangue. Kasparov disse che gli scacchi erano lo sport più violento che lui conosceva. Una violenza, mi verrebbe da aggiungere, che si rivolge anche verso se stessi».
Cosa sarebbe in fondo questo gioco senza l’idea del sacrificio? Privo di quella disposizione a perdere pezzi in vista di uno scopo superiore? Maurensing sostiene che gli scacchi sono una delle prove più alte dell’abilità del dolore e della mutilazione: «Quelle statuine di legno o di avorio in realtà siamo noi. Perdere un pezzo è come sacrificare una parte di sé. Ciò rende gli scacchi una forma insolita di tortura che tormenta la nostra umana debolezza». Penso sia vero. Aggressività, conflitto, cattiveria devono fare i conti con le paure che ci portiamo dentro. Fischer provò a sconfiggerle moltiplicando l’immagine del nemico, aggredendolo con le sue manie, le sue ossessioni: «Era psichicamente un instabile, condizione che non gli giovò sempre negli incontri. Ma il fatto stesso che da solo combatté contro la grande tradizione sovietica e la sconfisse ne fanno un giocatore straordinario».
Cos’è lo straordinario, in questo caso, se non un richiamo all’assoluto? A quel bisogno di potenza infinita che nella sequenza di mosse precipita nella morte e trasfigurazione dell’avversario? «Ogni grande scacchista vorrebbe giocare con Dio o con la morte, come intuì Bergman nel Settimo sigillo. Wilhelm Steinitz affermò che avrebbe dato un pedone di vantaggio a Dio e lo avrebbe battuto. Akiba Rubinstein abbandonò il Talmud per gli scacchi. E giocava in maniera eccelsa.
Chi c’era dietro: la mano di Dio o del folle? Ogni storia è un’impossibile. Ed è il motivo per cui la letteratura si è così spesso occupata di scacchi».
Morphy, Fischer, Rubinstein e tanti altri furono avvolti dal vento della follia. Quell’energia incontrollabile e misteriosa tuonava dentro loro come una musica imperiosa. E quando le note smisero di suonare i loro corpi si arresero come marionette. Maurensig coglie nel momento dell’abbandono l’enigma più grande: «È come se la purezza del gioco fosse sporcata dai riflessi della vita. Perché Fischer, all’apice del successo, mollò tutto? Perché Morphy a 21 anni chiuse definitivamente con gli scacchi? La paura di perdere, il confronto delirante con la figura paterna, aver sfiorato quell’assoluto che avevano sfidato? Ogni spiegazione non scioglie il mistero del grande scacchista. Egli è un genio: sofferente o felice, ingenuo o malizioso, cattivo o generoso. In ogni caso condannato alla prigione di quelle 64 caselle». Questo eroe dell’ostinazione impossibile sembra vivere nell’esilio dal mondo. Fuori da ogni salvezza. I credenti ne idolatrano le gesta. Ma ne temono l’imprevedibilità. Noi ammiriamo in lui il modo obliquo di prendere la vita. Come quei cani randagi che sulla strada non andranno mai dritti.
Tutto quello che fa è folle, ma logico; azzardato ma preciso. Non è un caso che la sua ultima parola sia “matto”.