Danilo Taino, Corriere della Sera 15/8/2013, 15 agosto 2013
UN LENTO (E STANCO) MIGLIORAMENTO RESTIAMO POCO COMPETITIVI
Non riesce a essere sorprendente. L’economia italiana è stanca. Nei dati riferiti al periodo aprile-giugno del 2013 pubblicati ieri dall’Eurostat, alcuni Paesi hanno mostrato qualcosa di inatteso: l’anemica Francia è cresciuta dello 0,5% rispetto al trimestre precedente, il prostrato Portogallo dell’1,1%, nella Spagna dei disoccupati il Prodotto interno lordo (Pil) è sceso meno di quanto si pensasse, lo 0,1%. Persino la devastata Grecia ha sì registrato un calo del 4,6% annuo, sullo stesso periodo del 2012, ma in netto miglioramento rispetto al 5,6% del trimestre scorso. L’Italia no: conferma le aspettative, migliora rispetto ai mesi precedenti ma continua la sua recessione — che dura da due anni, la più lunga del Dopoguerra — senza stupire in positivo.
In un mondo in cui la psicologia e le aspettative sono importantissime, rimanere con la testa per metà sott’acqua non manda buoni messaggi. Nelle settimane scorse, il presidente del Consiglio Enrico Letta e il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni hanno dunque cercato di supplire: tra luglio e settembre — hanno previsto — la crescita, per quanto modesta, dovrebbe tornare anche da noi, si interromperà il ciclo dei segni meno che dura da otto trimestri. Hanno fatto bene: l’ottimismo produce Pil. Se è però accompagnato da due corollari: non deve essere una scusa per non fare le riforme che tutti conoscono e non deve, perché non può, essere un sostitutivo per le certezze di cui hanno bisogno coloro che devono investire. Per dire la stessa cosa in termini brutali, l’ottimismo sulla piccola ripresa che forse arriverà non deve essere una conferma del Paradigma Merkel: certi Paesi fanno le riforme solo quando sono sull’orlo del precipizio; quando lo spread cala o l’emergenza si allenta lasciano perdere.
Anche con le lenti rosa, insomma, occorre avere gli occhi asciutti. Allora si può notare che l’economia italiana continua a perdere competitività e che su questo versante anche i Paesi europei del Mediterraneo durante la crisi hanno fatto più di noi, sono un po’ cambiati mentre l’Italia stava ferma o peggiorava. L’indice nominale del costo del lavoro (che non calcola solo i salari ma il costo complessivo), fatto cento nel 2005, nel 2012 è salito a 106 in Spagna e a 104 in Portogallo (fonte Eurostat): in Italia è volato a oltre 118. Ciò ha contribuito a peggiorare significativamente il tasso di cambio reale effettivo delle merci e dei servizi italiani sui mercati internazionali. L’indice Reer dell’Eurostat calcola la competitività di prezzo (o di costo) di un Paese nei confronti dei suoi concorrenti principali: fatto salvo che il tasso di cambio della valuta è lo stesso per tutta l’area dell’euro, ciò che conta sono i costi interni che determinano i prezzi con i quali un Paese va poi sui mercati. Bene: fatto sempre cento il 2005, nel 2012 il Reer della Germania è stato 93, quello del Portogallo 92, della Spagna 95,5, della Grecia 88,4. Tutti hanno guadagnato in competitività di prezzo. L’Italia no, è salita a 101,5, come la Francia.
Non stupisce che — pur tenendo conto della forza sempre maggiore dei Paesi emergenti nel commercio — l’Italia perda quote di mercato nell’export mondiale più dei partner europei. Nei cinque anni terminati nel 2012, la quota italiana è scesa del 23,4%. Solo la Grecia ha fatto peggio, meno 27%. La Francia ha perso il 14,1%, la Germania il 12,7, la Spagna il 14,2, il Portogallo il 15,5%. Stiamo insomma uscendo dalla Grande Crisi peggio non solo dei tedeschi e dei francesi ma anche di chi è considerato in grande difficoltà, degli spagnoli e dei portoghesi che, nella lunga recessione, sono riusciti a diventare un po’ più competitivi. Se osserviamo il mercato interno, invece, gli indici di Eurostat dicono che gli italiani sono un poco più fiduciosi degli altri mediterranei ma meno dei tedeschi e dei francesi: a fine luglio, in Italia, su cento persone, quelle che non intendono comprare un’automobile nei prossimi 12 mesi sono 86; in Germania 68 e in Francia 75. Su cento, gli italiani che non pensano di poter migliorare la loro abitazione nel prossimo anno sono 81, i tedeschi 45, i francesi 61(gli spagnoli 88, i greci 93).
L’eurozona, dunque, racconta che la svolta è forse in arrivo. E nel mondo si inizia a pensare che la Grande Crisi potrebbe essere finita. L’Italia è però rimasta indietro: per tornare a sorprendere, qualche riforma la deve fare.