Adriano Sofri, l’Espresso 15/8/2013, 15 agosto 2013
IN ESILIO CON NICCOLO’
Se arrivate dall’autostrada o dal centro di Firenze, all’uscita dell’Impruneta (prima si chiamava Certosa) prendete la Cassia e dopo 3 chilometri voltate a destra per una via che si chiama degli Scopeti, dal nome dell’erica, che qui si chiama scopa. È una strada poco trafficata e dall’andamento romantico. Di notte, se non il "lione", s’incontra spesso la volpe. La casa di Machiavelli, a Sant’Andrea in Percussina, è dopo altri tre chilometri. Se arrivate da San Casciano, è a un paio di minuti. Di fronte c’è l’Albergaccio, trattoria e rivendita di vini. Raccontare il luogo in cui fu scritto, nell’inverno di cinque secoli fa, l’"opuscolo" di Niccolò Machiavelli, è la cosa più facile e insieme più difficile, perché lo raccontò lui stesso, il 10 dicembre del 1510, scrivendo a Francesco Vettori, "oratore", cioè ambasciatore, di Firenze a Roma, e suo amico. Machiavelli vi annuncia di aver scritto il suo «ghiribizzo» sui principati. La lettera viene di norma ammannita agli scolari, che poi ne conservano almeno i tratti più pittoreschi (Machiavelli che gioca a trichetrac e s’ingaglioffa di là dalla strada, rientra e si riveste dei panni curiali degni del suo Tito Livio eccetera). È in verità uno dei brani più belli dell’intera letteratura, sicché la prima cosa da fare è sospendere la lettura di questo articolo e andare a rileggerla. È così bella che il mio colpo di dadi, in una circostanza affollata come il cinquecentenario, sta nell’usare, più che la lettera per introdurre "Il Principe", "Il Principe" per illustrare la lettera. L’occasione è venuta dal suo corrispondente, il quale gli ha descritto una sua giornata tipo nella Roma papale, per sottolinearne monotonia e sobrietà. La risposta di Machiavelli è quasi una ritorsione: se è noiosa la tua giornata romana, sta’ a sentire com’è la mia. Il madornale fraintendimento – anzi non uno: mille - che di Machiavelli il mondo ha fatto non sarebbe stato possibile se i suoi lettori precoci, specialmente fuori d’Italia, avessero conosciuto anche soltanto questa lettera. Che (se non sbaglio) fu pubblicata solo nel 1813, tre secoli dopo. Innocent Gentillet, che pubblicò nel 1576 il primo "Anti-Machiavelli" – un filone destinato a larga fortuna - non aveva idea della vita e delle opere dell’autore, se non che fosse "florentin", aggettivo che da allora definì la scaltrezza politica, fino a Mitterrand, che però la invidiava. Machiavelli passò per il demonio in persona o per un suo inviato speciale, lui che aveva fatto di Belfagor un povero arcidiavolo ansioso di fuggire terra e moglie per tornarsene al quieto vivere infernale. Gli inglesi chiamarono presto da lui il diavolo Old Nick, e però anche i villani di Sant’Andrea in Percussina, alla fine dell’Ottocento, racconta il biografo Tommasini, dicevano che nella casa abitava il diavolo, e nessun cristiano ci voleva stare.
A Sant’Andrea Machiavelli e la brigata famigliare (la sua Marietta gli diede sette figli, lui fu affezionato a loro e a lei, e la tradì ogni volta che poté) si trovano perché lui, cacciato dall’incarico, tenuto per 14 anni, di segretario della repubblica fiorentina (cancelliere di uno degli organi di governo, un impiegato, senz’altro di concetto) è confinato dai Medici nella casa e nei poderi di famiglia, per un anno. E gli è andata bene, perché era stato incolpato di aver preso parte a una congiura antimedicea, incarcerato e torturato con sei tratti di corda. I veri congiurati, che lo scagionarono, finirono giustiziati, lui liberato da un’amnistia per l’elezione del nuovo papa, Giovanni dei Medici, Leone X. Dell’esperienza di prigioniero scriverà laconicamente, ma non tanto che non se ne senta l’offesa e però l’orgoglio: «Questi miei affanni gli ho portati tanto francamente, che io stesso me ne voglio bene, et parmi essere da più che non credetti». «È piuttosto miracolo che io sia vivo, perché mi è suto tolto l’uffitio, et sono stato per perdere la vita…». «Questo resto della vita», lo chiama, «che me la pare sognare». È in questo tempo supplementare che, costretto a starsene con le mani in mano, inutile perfino a «voltolare un sasso», Machiavelli scrive "Il Principe" e guarda la città da lontano. La Casa, quando ci andrete, è su un poggio, e se ne scorge la cupola di Brunelleschi e il campanile di Giotto: chissà se un esilio dal quale si scorgano a ogni passo le cime della propria città sia meno doloroso di uno che la tolga agli occhi. La proprietà di Machiavelli risaliva al Duecento, non era ricca e lui la lasciò indebitata: poi sarebbe passata ai Serristori, che raddoppiarono la casa, diedero lustro al vino, dilapidarono quasi tutto, e oggi è del Consorzio italiano vini, il quale porta rispetto alla gloria machiavellesca, e ne ricava un riflesso. Ha appena varato un rosso etichettato "Il Principe". Dei Serristori d’oggi, uno abita ancora a San Casciano, al Poggiale, e racconta con buonumore della nonna ultima reggente della casa di Machiavelli, che la dotò di arredi e memorie, e vi torna da fantasma. Sotto la casa ci sono le cantine, che passano sotto la strada e portano da una valle all’altra, dal versante verso Cerbaia a quello verso Impruneta e Greve. L’altitudine del crinale è di 255 metri, 200 sopra Firenze. Quando vi fermerete a guardare dalla strada la cupola, come la guardava Niccolò, rileggete il brano che quasi conclude la dedica del Principe: «Né voglio sia imputata prosunzione (che sia accusato di presunzione) se uno uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare (esaminare e dettar regole) e’ governi de’ principi; perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ luoghi bassi si pongono alto sopr’a’ monti, similmente a cognoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe e a conoscere bene quella de’ principi conviene essere populare (del popolo»». Immagine ardita, che è stata accostata all’orgoglio per la scoperta quattrocentesca della prospettiva lineare, o alla fama di Leonardo, cartografo e pittore di pesaggi (la celebre mappa di Imola è al centro del giallo texano intitolato "La congiura Machiavelli"): noi, più terra terra, l’accosteremo all’esperienza del confinato che guarda dall’alto in basso la sua città proibita, è forzato a «prenderne le distanze», e si decide a svelare la natura dei principi che ha guardato per tanti anni dal basso in alto, ma da vicino.
Per visitare casa e cantine occorre telefonare al Comune o a Lucia Migliorini (0577 998511-518-519) che è gentile e appassionata, e arriva anche a soccorrere visitatori smarriti nel contado: l’ultimo un coreano che non smetteva di scusarsi dell’emozione di trovarsi davvero nello studio di Machiavelli, e ora manda lettere grate ed edizioni coreane del Principe – devono averne fatte letture assai diverse, a Seul e a Pyongyang. In effetti, quando siete nello studio in cui si suppone che Machiavelli scrivesse, col grande camino e lo stemma dei chiodi, i «mali clavelli», vi prende, anche se siete vecchi e smaliziati, un impulso infantile di sedervi allo scrittoio, quando Lucia non guarda, e mettervi su i gomiti, e vedere se non vi venga qualche idea sulla politica e la malignità dei tempi. Niente di male: nell’immaginarsi nei panni altrui, se non si insiste più di tanto (allora si diventa pazzi o impostori, o tutt’e due), c’è anzi del buono. E di tutti i misteri supposti di Machiavelli questo è il più chiaro: che quell’uomo di genio smanioso di fare, non toccando a lui una parte di primattore, in politica come in amore, si fece consigliere del principe e dell’amante, di un Valentino, come nel trattato, o di un Callimaco, come nella "Mandragola". E non si preoccupava di nasconderlo. La caduta di Cesare Borgia è assegnata nel Principe a una «estraordinaria e estrema malignità di fortuna» e nella dedica Machiavelli parla di sé pressoché con le stesse parole: «Quanto io indegnamente (cioè senza colpa) sopporti una grande e continua malignità di fortuna». E in un’altra lettera al Vettori sulla situazione politica e i compiti del papa: «Mi sono messo nella persona del papa...», «se io fussi il pontefice…». Nel proemio dei "Discorsi" lo dichiara, quasi ingenuamente: «Gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu (cioè lui, Machiavelli) non hai potuto operare, insegnarlo ad altri…». Strepitosa rivendicazione, d’esser uomo buono, e maestro altrui del bene che avrebbe potuto fare lui, se non si fosse messa di traverso la fortuna – «che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere»- e i tempi avversi. E in amore, nella "Mandragola", dietro il Ligurio che assicura a Callimaco che gli farà conquistare Lucrezia, c’è un Machiavelli-Cyrano: «Non dubitare della fede mia, ché, quando non ci fussi l’utile, ci è che ‘l tuo sangue si affà col mio, e desidero che tu adempia questo tuo desiderio presso a quanto tu».
Benedetto Varchi, di una generazione più giovane, deplorò la vita leggera di Machiavelli: «Se all’intelligenza che in lui era de’ governi degli Stati, e alla pratica delle cose del mondo, avesse la gravità della vita aggiunta, si poteva agli ingegni antichi paragonare». È curioso come il giudizio somigli a quello che Machiavelli aveva dato di Lorenzo il Magnifico, signore splendido, benché «nelle cose veneree maravigliosamente involto» (e lui poteva capirlo) e in giochi puerili, tanto che «molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e figliuole, intra i loro trastulli mescolarsi». Sicché, «a considerare in lui la vita voluttuosa e la grave, si vedeva essere in lui due persone diverse». Di questa duplicità Machiavelli stesso era un campione consapevole: la sua vita in villa divisa fra il giorno leggero e la notte grave; e il suo principe doveva avere dell’uomo e della bestia, come il centauro; e della bestia doveva tenere «del lione e della golpe», e così via. In un’altra bellissima lettera al Vettori lo dice così, di sé e del suo corrispondente: «Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti vòlti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia». Del resto, come attenersi alla gravità, usciti dalla notte divisa con Tito Livio e Senofonte, che prescrive al Principe di «stare sempre in su le cacce», per andare carico di gabbiette a uccellare tordi nel boschetto di casa? E comunque pensateci due volte prima di dire che per Machiavelli la politica è tutto: «Standomi in villa, io ho riscontro in una creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile che io non potrei né tanto laudarla, né tanto amarla, che la non meritasse più. Harei a dire i principii di questo amore, con che reti mi prese, dove le tese, di che qualità furno; et vedresti che le furono reti d’oro, tese tra fiori, tessute da Venere, tanto soavi et gentili, che benché un cuor villano le havesse potute rompere, nondimeno io non volli, et un pezzo mi vi godei dentro, tanto che le fila tenere sono diventate dure, et incavicchiate con nodi irresolubili… Bastivi che, già vicino a cinquanta anni né questi soli mi offendono, né le vie aspre mi straccano, né le obscurità delle notti mi sbigottiscano. Et benché mi paia essere entrato in gran travaglio, tamen io ci sento dentro tanta dolcezza che per cosa del mondo, possendomi liberare, non vorrei. Ho lasciato dunque i pensieri delle cose grandi et gravi; non mi diletta più leggere le cose antiche, né ragionare delle moderne; tutte si sono converse in ragionamenti dolci; di che ringrazio Venere et tutta Cipri».