Angiola Codacci-Pisanelli, l’Espresso 15/8/2013, 15 agosto 2013
UN VULCANO DI NOME ELISA
Sul lungomare di Grado una giovane donna spinge un passeggino a due posti. Ha lunghi capelli neri dal taglio irregolare, indossa un prendisole bianco, niente trucco né gioielli. Nessuno si volta a guardarla, nessuno la riconosce. Eppure è una popstar di prima grandezza, ha venduto 3 milioni di dischi, ha vinto Sanremo, è arrivata alla selezione degli Oscar con una canzone scritta con Ennio Morricone. Ma Elisa è così: è una cantante inconfondibile ma una persona che non si fa notare. Con il compagno e i due figli si gode gli ultimi giorni di tranquillità prima di una serie di impegni: il lancio del nuovo disco, il debutto nel mondo delle colonne sonore con di "L’ultima ruota del carro" di Giovanni Veronesi, a novembre, e un tour che inizierà in marzo. Un tour «all’insegna della sobrietà, dove la sfida è portare nella panciona di balena dei palasport quel contatto fisico che si ha più facilmente nei teatri e quei dettagli che con il rimbombo rischiano di perdersi». "L’anima vola" (Sugar) esce a metà ottobre ma il singolo omonimo sarà in radio tra due settimane. L’album contiene duetti con Tiziano Ferro e Giuliano Sangiorgi, una canzone di Luciano Ligabue e la versione definitiva di "Ancora qui", da "Django Unchained" di Quentin Tarantino. E segna una tappa importante: è il primo cd in italiano di una cantautrice che finora preferiva l’inglese. Una svolta che Elisa racconta a "l’Espresso" in questa intervista.
Dal debutto con "Sleeping in your hand" al Nastro d’argento con "Love is requited" l’anno scorso, la sua carriera è stata principalmente in inglese. Perché ora un disco in italiano?
«Fin dall’inizio i miei produttori mi avevano chiesto di scrivere in italiano, ma io proprio non ci riuscivo. C’è voluto un lungo lavoro di introspezione per andare a ricercare una mia identità in italiano. La mia identità musicale era inglese: mi sono formata ascoltando solo dischi stranieri. Gli italiani che ascoltavo erano modelli irraggiungibili: Mina, il Battisti dell’epoca Mogol. Per trovare il coraggio di scrivere in italiano c’è voluto del tempo, e persone speciali che mi hanno incoraggiata. Alla fine il momento è arrivato, ma ci sono voluti sedici anni. Era un appuntamento che non potevo mancare. Ma non è definitivo: non potrei smettere di cantare in inglese»
Cos’è così difficile: seguire il ritmo pop o mettersi a nudo nella lingua di tutti i giorni?
«L’inglese mi viene naturale. Nella mia esperienza di vita per quanto riguarda la musica avevo più inglese che italiano, e mi sentivo troppo fragile per usare l’italiano. Anche perché in italiano io ho uno stile diverso: in inglese uso più metafore, tendo a non essere chiarissima. Ero così anche nelle mie prime canzoni in italiano (in sedici anni ne ho scritte sei o sette): come in "Luce": «Parlami come il vento tra gli alberi come il cielo con la sua terra»... Negli anni ho notato che a ogni nuova canzone in italiano si andava a togliere uno strato, poi un altro: erano man mano più dirette, più facili da comprendere. E alla fine questo album si è dimostrato il terreno in cui è venuto fuori un linguaggio nuovo, ho avuto modo di conoscermi meglio e il risultato è un linguaggio più diretto. Uso sempre le metafore, ma mi sembra di andare più dritta al punto rispetto a quando scrivo in inglese».
In questo disco il ritmo è spesso trascinante, le melodie sono orecchiabili, ma i testi richiedono più attenzione. Come se ci fossero due livelli d’ascolto.
«È probabile che ogni canzone abbia più strati perché io sono fatta così, mi ci riconosco. E ogni strato è soggettivo, ognuno lo sente a suo modo. Credo che la musica sia così: è un’arte che va per evocazioni, per sensazioni, non è materica, è tutta di pancia... Comunque per me una canzone è qualcosa che dovrebbe rimanere sempre un po’ inspiegabile».
Che cosa la ispira? Ci sono delle storie dietro alle sue canzoni?
«Quasi sempre parto da cose che ho vissuto io o persone che mi sono vicine. Ma non sono narrativa, sono evocativa. Mi piace sapere di cosa sto parlando ma non voglio necessariamente farlo sapere a chi ascolta. Una gran parte di sogno deve rimanere anche se non deve mai diventare più importante del messaggio. Mi piace trovare un equilibrio in cui nella canzone non vince l’estetica ma il messaggio: quello per me si deve capire sempre e mi piace che sia un messaggio positivo, un messaggio che celebra le cose di cui canto».
E quando invece canta un testo di altri? Il duetto con Ferro per esempio lo ha scritto lui...
«Sì, io ho scritto la musica. Mi ha raccontato che aveva visto un documentario sulla tournée per un disco precedente, "Ivy", che abbiamo fatto quando Emma era piccolissima. È stato molto colpito da quelle immagini e ha dedicato la canzone me e a lei».
C’è un’altra canzone che sembra chiarissima: ecco, Elisa dedica una canzone a sua figlia, ho pensato. Poi ho visto che l’ha scritta Ligabue!
«Sì, è lui che la dedica a sua figlia, e le sue parole sono chiarissime, lui è così. Non sono io, ovvio. Per me è al limite dell’incantabile: è troppo commovente, arrivare in fondo all’incisione è stata un’impresa. Ma il gioco tra me e Luciano è un po’ questo. Di nuovo, dopo "Gli ostacoli del cuore", canto cose che vorrei dire, ma non saprei come: lui trova il modo per me».
Dopo aver saputo che era di Ligabue ho avuto l’impressione di sentire che in quelle parole c’era una sensibilità da padre, non da madre.
«In alcuni tratti lo sento anche io. Ma il mio non è un giudizio obiettivo perché io non ho avuto entrambi i genitori nella mia vita: sono cresciuta con una mamma-papà. Quindi forse non ho un vero punto di vista materno, ho un punto di vista "mixed"».
Tornando alla lingua, i produttori temevano che l’inglese danneggiasse il mercato italiano?
«A volte ho scritto in italiano ma non erano cose abbastanza forti e ho apprezzato molto Caterina Caselli e la Sugar che mi hanno consigliato di non far uscire nulla. Il fatto è che l’italiano è una lingua enorme, gigante, pesante rispetto all’inglese, e interferiva con gli altri strati della canzone».
Ma con il suo pubblico cosa funziona meglio?
«L’italiano all’estero funziona benissimo, ma per me questo non vale. Io canto in inglese, faccio un genere non facile da etichettare e che di certo non è nella tradizione italiana, ma ho successo soprattutto nel mio Paese. Fuori, soprattutto in America, ho un pubblico di nicchia che adora le cose che ho fatto in inglese. Apprezzano anche le mie canzoni in italiano ma non lo vogliono per forza: non sono italiani o italoamericani che cercano la tradizione del bel canto alla Modugno, sono americani e ascoltano musica americana o "globale". Io non appartengo affatto al filone italiano classico ma neanche al filone settoriale: non faccio "progressive" o "metal", per dire. Faccio pop, che è la musica più imbastardita che puoi fare, non ho radici».
Lei ha detto che la sua musica è meticcia perché viene da una zona, il Friuli "basso", in cui nessuno è un italiano "puro".
«Sì, è una zona di confine, fatta di gente con sangue misto, sloveni, croati., austriaci francesi o anche italiani del Sud. Come me: ho una nonna pugliese e una istriana, un nonno veneto e uno francese. Mi sono accorta delle differenze rispetto al resto d’Italia quando ho partecipato a "Ellis Island" di Giovanni Sollima, che parlava della condizione degli emigrati di ieri e di oggi. È stata un’esperienza forte perché era un tuffo dentro un mondo sconosciuto. Noi da queste parti sentiamo ancora molto la Grande Guerra, che si è combattuta sull’Isonzo, o abbiamo il ricordo dei nonni partigiani portati nei campi di concentramento: quelle sono storie che ci appartengono, ma l’immigrazione no. E invece c’erano storie pazzesche riprese dalle lettere degli archivi di Ellis Island. E il secondo tempo era ambientato ai giorni nostri, ho anche cantato in curdo, una lingua di una difficoltà mortale...».
Arriverà al dialetto? Da tempo i dialetti del nord vanno alla riscossa, dal comasco di Van Des Froos al friulano di Giulia Daici...
«Ho cantato in dialetto, da ragazzina, e ho anche vinto un festival, una vera gloria! Il mio dialetto però non è il friulano ma il bisiacco, che ha un suono a metà tra veneto e spagnolo, e non mi piace granché...».
La sua voce è molto particolare. Come si coltiva una voce così?
«Finora ho solo cantato tanto, senza nessuna disciplina. Per natura non sono una che si rovina la salute ma ho sempre fumato molto, fin da ragazzina. Soprattutto quando scrivevo: la mia parte da scrittrice sentiva il bisogno della sigaretta. Allora come una scema facevo esercizi per "pulire la voce" e poter continuare a fumare. Poi con i figli ho quasi smesso, ora fumo una sigaretta la sera. E da poco ho iniziato a studiare. Nel 2007 ho avuto un edema a una corda vocale e ho inziato a fare logopedia, a capire come funziona la voce. Da un anno studio canto con un maestro perché mi interessa poter continuare a cantare anche le note più alte. Dopo i trent’anni, per questioni fisiologiche e muscolari, se canti come me, usando tutto il range di note e sfruttando così tanto le corde vocali, non studiare è quasi impossibile: se vuoi cantare ancora a settant’anni devi studiare. E quindi sto studiando».
Beh, è strano pensare che una cantante prima "diventa" Elisa e poi inizia a studiare!
«Ma è così: cantare nel modo giusto mi sembra difficile, mentre cantare d’istinto è facilissimo. Però ti uccidi, ti rovini le corde».
Cosa pensa dei talent show? So che il suo successo americano è legato a un talent che ha usato alcune sue canzoni...
«Sì, un talent show di danza. Ed è una cosa buffa perchè io ho iniziato prima a ballare, da piccola. Il mio sogno era fare tutto, cantare, recitare, ballare: come Barbra Streisand o Michael Jackson. Il talent è un’arma a doppio taglio. Ci devi andare solo se pensi di avere tutte le carte in regola per sfruttarlo e non farti sfruttare. Quando ho iniziato io ti lasciavano essere com’eri, era forse anche di moda essere se stessi, non avere uno stile perfetto: e per una donna poi oggi è anche peggio. Ma sono cose ingannevoli: con tutto lo stile che c’è adesso, il risultato è che si appiattisce tutto, tutti sono uguali. Zero personalità, zero riconoscibilità. Di te resta poco, e se resta così poco di te, perché lo dovresti fare? Per ragioni economiche? Perchè diventi famoso? Ma attenzione: perchè chi diventa famoso non sei tu ma quella cosa che ti impacchettano addosso. Quindi quello che direi a mia figlia è: vacci se sei abbastanza forte da far sì che quello che ti appiccicano addosso ti assomigli, se no lascia stare».
I suoi dischi sono molto diversi a seconda del produttori. Ma la canzone è un lavoro personale o di gruppo?
«Va a fasi, ma io faccio moltissimo da sola. La prima è lunghissima e in assoluta solitudine. Scrivo testo e musica insieme: a volte nasce una strofa e il ritornello, li registro, li fermo per ricordarli, poi li riascolto all’infinito e mentre li ascolto completo il testo. Quando ho fatto il demo con gli arrangiamenti di base, le colonne portanti e i riff principali di chitarra o pianoforte, lo condivido con il produttore, se c’è, e con i musicisti, e allora inizia il lavoro di gruppo che prende le energie di tutti. In questo album però ho curato da sola la produzione perché volevo che restasse un po’ selvatico. È un disco molto personale e volevo che rimanesse così come sono io: non volevo che si mettesse il vestitino della domenica».
Ho letto che la versione di "Ancora qui" usata nel film era il demo: nel disco infatti è diversa.
«Sì. Tarantino ha preferito il demo alla versione principale, e lo capisco. Perché quella versione selvatica era la cosa giusta per lui. C’erano solo la chitarra acustica e il basso: che era il mio vecchio basso punk, che ho pagato 250 mila lire a 16 anni e che usavo per suonare con il mio trio punk. Forse non gli ho neanche mai cambiato le corde. E poi suonato da me, malissimo: perché io sono e resto una bassista punk, quindi suono a modo mio. Però Tarantino lo ha capito, infatti ha voluto quello».
La versione del disco invece inizia con "Per Elisa" di Beethoven.
«È stata un’idea del maestro Morricone. Nel demo che mi ha mandato è lui a suonarlo. Una dedica incredibile: adesso posso anche morire...»
Sua figlia Emma è nata quattro anni fa, quando è uscito "Heart". Ora nuovo disco e nuovo figlio, Sebastian: pensa di continuare così?
«No no, non è un’abitudine, ma non è neanche detto che mi fermi. È stato un caso. Avevo quasi finito il disco, ero alle fasi finali dei mix, e non mi sentivo bene, pensavo di avere l’influenza. In realtà ero incinta di due mesi. Quindi abbiamo dovuto posticipare tutto, abbiamo ibernato il disco per un po’. E per fortuna in quel periodo ho fatto la colonna sonora per il film di Veronesi, se no impazzivo».
Come lavora con il cinema?
«Lo adoro, mi piace fare musica strumentale evocativa. Non avevo mai fatto una colonna sonora intera, e per orchestra, per di più! È stato emozionante scrivere per trenta elementi e poi arrangiare tutto a Roma, con l’ochestrona. Una vera sfida».
E la prossima sfida? Scriverà mai un libro?
«Me lo hanno chiesto ma finora, se riuscivo a scrivere qualcosa in italiano, la prima cosa da fare era un album, non un libro. Però un’idea ce l’ho, un storia articolata, di fantascienza, lunghissima. Ma mi dovrei fermare un anno per scriverla. Spero di farlo un giorno perché mi dispiacerebbe lasciarlo lì, è dal 2000 che ce l’ho in testa».
Quali autori sono stati importanti per lei?
«Più musica che libri: di sicuro Jim Morrison, che era anche un poeta. E poi Blake, Baudelaire, Rimbaud, Pessoa. E tantissima Emily Dickinson».
E quali canzoni?
«Sicuramente "Sitting on the dock of the bay", la versione dei Pearl Jam. Avevo 14 anni, e per ascoltarla avevo tutto un rito. La mettevo in loop, mi sedevo sulla mia finestra con le ginocchia in su, con i jeans tutti rotti, e fumavo. La potevo ascoltare solo così: se no, niente. Poi, sempre in quel periodo, "Bad" di Michael Jackson, "True blue" di Madonna. E dopo altre cose, da "Grace" di Jeff Buckley a "Ok computer" dei Radiohead, "Jagged little pill" di Alanis Morrisette e "Zombie" dei Cranberries: Dolores ‘O Riordan ha molto influenzato il mio modo di cantare. E quando ho visto Ben Harper da Red Ronnie che suonava "Waiting on an angel" è stato davvero un momento mistico».
Nella canzone scritta da Ligabue lei canta «io nel mio piccolo cerco di cambiare il mondo". Ci crede davvero? Joan Baez ha raccontato che la sua storia con Bob Dylan finì perché «io pensavo di poter cambiare il mondo e lui era convinto che nessuno potesse cambiarlo...»
«Beh, tra i due credo siano state più le canzoni di Dylan a cambiare il mondo, rispetto all’impegno di Joan Baez, anche se la adoro. Però no, non credo che le canzoni cambino il mondo. Perché non puoi essere allo stesso tempo quello che sogna e quello che fa sognare. Nel momento in cui inizi a lottare per realizzare il tuo sogno non stai più sognando: ma servono sempre tutte e due le cose, c’è spazio per tutti».