Roberto Giardina, ItaliaOggi 14/8/2013, 14 agosto 2013
I TEDESCHI CE L’HANNO CON TAJANI
La Germania ancora contro il resto d’Europa, anzi soprattutto contro l’Italia. Bruxelles mette in pericolo l’etichetta «Made in Germany», simbolo del successo economico tedesco. Uno dei due firmatari dell’iniziativa, che ha fatto infuriare Eric Schweitzer, capo della Deutsche Industrie und Handelskammer, la camera industria e commercio, è il nostro Antonio Tajani, insieme con il maltese Tonio Borg.
Quando si può sostenere che un prodotto è fabbricato in un paese membro, sia la Germania o l’Italia? Una domanda che viene rivolta ai nostri produttori di capi d’abbigliamento, magari ideati a Milano o altrove, ma tessuti, cuciti, tagliati in India.
E sono tedesche o italiane le auto che escono dalle catene di montaggio in Turchia o in Polonia. Non basta: il maglione è Made in Italy, anche se la lana arriva dal Pakistan? E sempre più le case automobilistiche si limitano al montaggio di pezzi fabbricati altrove, assemblano e non producono. L’auto o un altro prodotto è stato ideato a Monaco o a Firenze, e il suo montaggio o rifinitura avviene sotto il controllo di esperti tedeschi o italiani, ma in questo caso non sarebbe meglio scrivere «Made by Germany» o «by Italy»? Oggi in media circa il 30 o 40% di una vettura Volkswagen è veramente prodotto in Germania.
Per i tedeschi si tratta di una rivalsa di concorrenti invidiosi. Berlino, a torto o a ragione, non gode in questi tempi di buona stampa. La Germania è accusata di sfruttare l’euro: solo le imprese tedesche sono avvantaggiate dalla moneta unica, che danneggia invece la concorrenza europea. Non sarà che l’euro favorisce i migliori? E che colpa hanno i tedeschi se sono i primi della classe?
La dicitura «Made in Germany» sta per compiere 126 anni, e furono i britannici a pretenderla il 23 agosto del 1887, un anno prima che Jack the Ripper entrasse in attività, per difendere i propri prodotti. Ed era un sinonimo di «cattiva qualità a basso prezzo». I tedeschi nell’Ottocento erano come i giapponesi di oggi, andavano in giro a copiare i prodotti degli altri, in particolare l’acciaio inglese. Sinonimo di garanzia era «Made in Sheffield» contro i prodotti provenienti dalla Ruhr, che con i loro acciai di cattiva qualità ma economici avevano provocato il fallimento di diverse imprese britanniche. All’epoca, gli Stati tedeschi, esportavano generi alimentari, come patate e bietole, o orologi a cucu, le macchine utensili erano britanniche. Dopo la nascita del Reich, grazie a Bismarck, la concorrenza tedesca diventò troppo pericolosa, e si cercò di arginarla con un marchio di cattiva qualità.
In Germania i produttori si ribellarono, ma le loro preoccupazioni e le speranze dei britannici, si rivelarono infondate: si continuò a esportare sempre più, i prezzi rimanevano concorrenziali mentre la qualità migliorava. Solo la prima guerra mondiale impedì che la Germania superasse la Gran Bretagna come primo esportatore mondiale. E la guerra fu provocata anche da questo successo. Il Made in Germany divenne anche sinonimo del miracolo economico seguito all’ultima guerra. Una lavatrice o una Tv prodotte nella Repubblica Federale, sia pure, più care garantivano un funzionamento migliore e una durata più lunga. Se ne approfittavano anche gli «altri» tedeschi quelli della Germania Comunista. Dato che la Ddr non era stata riconosciuta, potevano legittimamente vendere come Made in Germany quanto veniva prodotto a Lipsia o a Rostock. E alcuni ad ovest modificarono la scritta in «Made in West Germany», il che però secondo il diritto internazionale poteva risultare insidioso, perché ammetteva implicitamente che ci potesse essere un’altra Germania.