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 2013  agosto 14 Mercoledì calendario

CON LO SGUARDO DEL PICCOLO PRICO’ NASCE IL NEOREALISMO

Luigi Freddi, milanese, ras fascista del cinema italiano, quando vide De Sica dietro una macchina da presa, provò a sfotterlo: «Offelé, fa il tô mesté (pasticciere, fa il tuo mestiere)». Battuta sprecata: fin dal primo film da regista, Rose rosse nel 1940, l’attore più brillante del regime, l’incarnazione stessa delle commedie amorose e spumeggianti di Mario Camerini – Ma non è una cosa seria , Il signor Max, Gli uomini, che mascalzoni – aveva messo in mostra un talento che sfidava quello del maestro. Rose rosse ha lo stile e la storia tipici dei «telefoni bianchi», e il De Sica regista vi dirige un De Sica attore come sempre spiritoso e affascinante. Incassi ottimi, e lui non perde tempo. Di seguito gira Maddalena zero in condotta, poi Teresa Venerdì, poi Un garibaldino in convento. «Successo crescente – scrive la moglie – nessuno dubita più delle capacità professionali di Vittorio come regista».
«Pensai: adesso ho il credito sufficiente per fare un film serio – ricorderà anni dopo in un articolo intitolato Gli anni più belli della mia vita –. So benissimo, e lo sapevo anche allora, che I bambini ci guardano era un compromesso tra la vecchia e la nuova formula. Fu comunque, per Zavattini e per me, un’esperienza decisiva».
Il film è del 1943, ma Cesare Zavattini, che poi diventerà il suo «alter ego», De Sica l’aveva incontrato nel 1935, sceneggiatore d’una pellicola di Mario Camerini, appunto, Darò un milione. Entrambi, però, aspiravano ad altro: «Avevamo capito in fretta che le nostre idee camminavano insieme». In che direzione? «Fuori dagli stabilimenti, all’aria aperta, ovunque fosse la vita vera degli uomini».
Dei due film che nell’anno del crollo mussoliniano segnano la nascita del neorealismo – secondo una convenzione storica tutto sommato ben motivata –, Ossessione di Luchino Visconti e I bambini ci guardano dell’accoppiata De Sica-Zavattini, è quest’ultimo il più in ombra, liquidato con una certa frettolosità anche dall’autore, come abbiamo visto. Eppure, a distanza, è il melodramma viscontiano ad apparire più scontato. Se non logorato, almeno consumato da prevedibili associazioni-sovrapposizioni: sulla canottiera del vagabondo Gino di Massimo Girotti s’accampa nella memoria la canottiera del brutale Kowalski di Marlon Brando – il film è Un tram chiamato desiderio – e non a caso Bernardo Bertolucci metterà i due attori invecchiati a confronto nel suo Ultimo tango.
Lo «sconvolgente» film di De Sica, invece, «cupa foto di gruppo borghese» (Claudio Carabba in Il cinema del ventennio nero), ancor oggi mantiene un’originalità e un pathos incomparabili. De Sica, attraverso gli occhi del bambino Tricò che vede e soffre la disgregazione del matrimonio dei genitori, mostra la crudeltà di codici sociali che impediscono ai genitori di comunicare fra loro e col figlio (il regista ha compassione per tutti, il bambino, la madre che lo abbandona, il padre debole che si suicida, perfino l’amante di lei, prigionieri della freddezza, la piccineria, l’egoismo crudele di un ambiente asfittico), mostra il lato oscuro, inconfessato della commedia da salotto che ha drogato i piccoli borghesi del Ventennio.
«Per De Sica è un film autocritico – ha scritto Guido Aristarco – ribalta l’impianto comico-sentimentale del logoro triangolo “lui, lei e l’altro” imperante nel cinema dei “telefoni bianchi”». Tanto intensa, «sconvolgente», appunto, la foto di gruppo borghese, da arrivare fino a oggi intatta, critica sociale senza stilemi ideologici, indagine psicologica straziante.
Storie di adulteri, sia Ossessione sia I bambini ci guardano, cupe e senza finali consolatori, e fa davvero impressione, e dà l’idea della dissoluzione del regime, che tutt’e due passassero comunque la censura, ottenessero nella primavera del ’43 l’imprimatur romano alla distribuzione, che poi praticamente non avvenne, nel caos dei mesi successivi. Entrambi i film rispuntarono l’anno dopo. Quello di Visconti per essere immediatamente sequestrato, nella Milano occupata dai tedeschi, per via delle reazioni furibonde dei fascisti e della Chiesa, quello di De Sica per affondare nell’indifferenza del pubblico, che disertò le proiezioni.
La tenacia con cui il pubblico italiano evitò i film «seri» di De Sica è pari solo all’ostinazione del regista a girarli. Il leggendario Sciuscià, il suo primo film neorealista «ufficiale», fu, ricorda lui stesso, «una sciagura dal punto di vista economico… Era costato meno di un milione di lire, ma in Italia praticamente non lo vide nessuno». Per Ladri di biciclette, il film successivo, dopo un inutile giro di tutti i produttori, trova finalmente tre amici disposti a finanziarlo. Sono quattro soldi, e il mercato estero li ripagherà ampiamente. In Italia, invece, gli spettatori scappano. Alla prima del film, al Metropolitan di Roma, De Sica s’aggira all’ingresso. Chiede al direttore, che conosce, come reagisce il pubblico. Prima che quello risponda, ecco uscire dalla sala a passo di carica un operaio con moglie e quattro figli: «Vide il direttore, disse: “Aridateci li sordi e avvertite sul cartellone le famiglie numerose quanno er film è una fregatura”».
Ladri di biciclette, uscito nel 1948, girato nella Roma postbellica povera e devastata, appartiene ai «bei tempi» in cui, ricorda Zavattini in Straparole , «si presumeva di cambiare il mondo o il governo mediante una dozzina di film, slogan che uscivano dal petto con la determinazione di una pallottola: il neorealismo è la coscienza del cinema, il neorealismo è utile o non è, affrontare l’accadendo e non l’accaduto…». Ladri di biciclette è un capolavoro, diritto al cuore e inequivocabile proprio come gli slogan che lo propiziarono, e struggente come solo un’opera d’arte sa essere. Ma non aiuta ad evadere dalle pene quotidiane, sotto questo aspetto è davvero una «fregatura». Una «fregatura» poetica come tutto il neorealismo, cominciato col film di un signore, Vittorio De Sica, che dell’evasione era il re. Finché decise di scoprire le carte e diventare «serio», guardando il mondo con gli occhi di un bambino. Per provare a cambiarlo.