Tonia Mastrobuoni, La Stampa 14/8/2013, 14 agosto 2013
SPREAD, QUEL TERMINE TECNICO DIVENTATO UNA MALEDIZIONE
C’era una volta un mondo senza spread. In questo paradiso perduto, in Grecia si erano scordati di contare gli Statali, la Spagna si era buttata su una furiosa cementificazione senza soldi, l’Irlanda aveva trasformato le banche in casinò e l’Italia stava seduta su un himalaya di debito. Ma a nessuno importava un granché. Da noi «spread» era solo una parola straniera e sui mercati internazionali, speculatori e investitori ci lusingavano facendoci assomigliare alla Germania. Fino allo scoppiare della Grande crisi del 2007, lo spread era quasi nullo, e i nostri oneri sul debito bassissimi, come quelli tedeschi. La convinzione generale era che l’euro, questa moneta senza testa, nata per unire l’Europa ma orfana di una guida politica, avesse cementato l’intero continente. Nel caso di un’emergenza qualsiasi, qualcuno avrebbe pagato per tutti (la Germania, tipo).
Quando nel 2010 la Grecia andò in crisi, quella Merkel dall’aria così bonaria sfoderò invece la faccia feroce dei “nein” e si dimostrò la leader riluttante che è. Ottenere aiuti europei divenne un olimpiade. Il mercato si svegliò e spazzò una tempesta su quei Paesi che avevano nascosto per anni i loro giganteschi deficit e debiti, i loro pachidermici settori statali e i loro sistemi bancari disastrati. Lo spread si impennò. E noi, in Italia, imparammo a contare. Cento uguale paradiso perduto. Duecentoottantasette uguale livello Monti. Cinquecentosettantacinque uguale zona sirtaki. Seicento: arriva la Bce.
Il primo scossone serio giunse nell’estate del 2011. Il governo Berlusconi quater si stava occupando di vicende fondamentali per il destino del Paese come aprire quattro ministeri a Monza e approvare il processo lungo. Ad agosto piombò, come un macigno, la lettera della Bce. Gli spread italiano e spagnolo erano da anticamera della bancarotta, e in quella lettera c’era una lista di cose da fare. Il messaggio tra le righe era: se volete che la Bce compri titoli di Stato per raffreddare lo spread, dovete fare le riforme e mettere a posto i conti. Ma niente, l’esecutivo andò avanti come se niente fosse, occupandosi di amene vicende giudiziarie, godendosi l’azione calmierante della Bce e facendo cucù ai vertici. Finché lo spread, tra ottobre e novembre, cominciò di nuovo a salire verso vette stellari e il 24 ottobre, al termine di un vertice europeo, a Merkel e Sarkozy scappò la famosa risatina che umiliò il Paese. Il Quirinale prese in mano la situazione e il 12 novembre 2011 Berlusconi fu accompagnato alla porta da uno spread a 575 punti, e da un Paese a un passo dall’impossibilità di pagare il debito, a un passo dal default.
Con Mario Monti, arrivò il governo dei tecnici, che presto divenne una parolaccia. Era il governo-voluto-dalla-Merkel, dello spread, di Bilderberg, dei complotti massonici e dei banchieri, ma soprattutto, delle lacrime della Fornero. A poche settimane dall’insediamento, nel dicembre del 2011, presentando la prima misura massacrante che inaugurò la moda idiota dei decreti col titolo, il «Salva-Italia», la ministra del Lavoro si ricordò dei sacrifici del padre e innaffiò un’ importante riforma delle pensioni con un pianto che fece il giro del mondo.
Lo spread, pochi giorni dopo, ripiegò su quota 360, e quando riprese a salire, a gennaio del 2012, lo fece per ragioni non più italiane, ma continentali. Si stava annunciando l’anno nero per l’euro, quello che rischiò di essere l’ultimo, per la moneta unica. I mercati avevano deciso che non potesse reggere, tenendo insieme Paesi così diversi. Lo spread divenne una costante della vita politica, e ci costò altre manovre lacrime e sangue, dai titoli sempre più demenziali (indimenticato, il «Cresci-Italia»). A fine anno, in uno dei tanti tentativi di auto-umanizzazione, Monti raccontò che all’asilo chiamavano il nipote «spread». Ma ormai la moneta unica era salva. E il 2012 si chiuse come l’anno dei “super-Mario”. Monti, certo, ma soprattutto, Draghi. In ogni caso, con lo spread al sicuro, la politica rialzò la testa e si riprese la scena, facendo cadere il governo tecnico.
Se a fine 2012 lo spread era tornato sotto quota 400, fu soprattutto merito di tre date. Il 29 giugno, quando la Ue promise un’Unione bancaria unica. Il 26 luglio, a Londra, quando Draghi pronunciò la fatidica frase «faremo tutto il necessario per difendere l’euro. E, - pausa teatrale credetemi, sarà abbastanza». Fu allora che i mercati cominciarono a battere in ritirata. E la ciliegina arrivò il 6 settembre, con l’annuncio della Bce che lo scudo anti-spread era pronto e che poteva essere usato in qualsiasi momento per proteggere i Paesi in difficoltà. Ma, memore delle promesse a vuoto di Berlusconi nell’estate 2011, la Bce decise il suo “vedere tappeto, comprare cammello”. Prima di accedere allo scudo, qualsiasi Paese dovrà impegnarsi nero su bianco,che farà le riforme. Da allora, lo spread ha cominciato a uscire dal nostro vocabolario. Ma se la crisi politica permanente continuerà a spingere sullo sfondo le riforme più urgenti, qualcuno giura che tornerà. Più brutale che mai.