Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  agosto 13 Martedì calendario

I MERCATI SCOMMETTONO SULLA GENEROSITÀ DI DRAGHI

ROMA — Forse perché in molti si sono concentrati su anniversari più vicini - la lettera della Bce all’Italia due anni fa, la svolta di Mario Draghi che impedì un collasso dell’euro nel 2012 - un’altra ricorrenza è passata in silenzio: sei anni fa esplodeva la crisi dei mutui americani. Il mondo occidentale entrava in uno stato di minaccia permanente al suo standard di vita, che in molti Paesi non si è ancora dissolta.
Se resta una lezione da quei giorni dei subprime, oggi che i tassi sul debito diventano meno pesanti, è che l’Italia è oggetto di forze di mercato che la superano di molto. Lo stesso andamento degli ultimi mesi lo conferma. La differenza nei tassi tra Bund e Btp decennali, lo spread, è certo ai minimi da due anni; non così però i dati che davvero contano per la capacità di un Paese di pagare gli interessi e il capitale a scadenza per il suo debito: il rendimento sui Btp a dieci anni è di quasi mezzo punto sopra i livelli minimi dell’ultimo anno, toccato nel momento di maggiore caos politico seguito alle elezioni. Oggi quel valore è al 4,19%, allora era sceso fino al 3,76%.
In quelle settimane si assistette a un paradosso che resta attuale: mentre il sistema politico sembrava paralizzato e il parlamento bocciava un candidato al Quirinale dopo l’altro, i mercati avevano l’aria di voler festeggiare. Naturalmente non era così. Più dell’incertezza nelle istituzioni italiane, allora contò la garanzia che la Banca del Giappone avrebbe inondato di liquidità i mercati.
Poi il ciclo si è invertito. Con un governo finalmente al lavoro, gli investitori avrebbero dovuto continuare a puntare sull’Italia; invece l’hanno venduta e i rendimenti dei Btp a dieci anni sono saliti per due mesi (di più dell’1%) fino a fine giugno, una deriva potenzialmente pericolosa. Ma ancora una volta, più della relativa stabilità italiana, contarono i segnali della Federal Reserve sul fatto che presto rallenterà i suoi acquisti di titoli. I mercati, dipendenti dall’enorme liquidità delle banche centrali, reagirono abbandonando le posizioni considerate più a rischio. Fra queste, l’Italia.
Da circa un anno i valori dei titoli di Stato sono dominati più che mai dalle grandi banche centrali; per questo risultano fuori tempo rispetto ai riti della politica italiana. Reagiscono bene quando il sistema sembra quasi ingovernabile, male quando un governo inizia a lavorare.
Anche in queste settimane il principale motore che trascina verso il basso spread e rendimenti è quello di una banca centrale, la Bce di Mario Draghi. Gli investitori dei fondi pensione, delle assicurazioni e dei grandi fondi di investimento che stanno comprando Btp con scadenza fra 5 e dieci anni, lo fanno sulla base di un’ipotesi: scommettono che l’Eurotower, passate le elezioni tedesche del 22 settembre, taglierà i tassi e lancerà una nuova maxi-offerta di liquidità a lunga scadenza a favore delle banche. La Bce del resto è l’ultimo fra i grandi istituti centrali che ha ancora spazio per agire.
Contano certo anche altri fattori: domani Eurostat potrebbe diffondere i dati che certificano l’uscita dell’area euro dalla recessione, dopo oltre un anno e mezzo. Anche l’Italia avverte piccoli germogli di ripresa. Ma nel frattempo il debito sale, forse già al 132% del Pil quest’anno, e cambia natura in un modo che aiuta a spiegare la relativa stabilità degli spread. All’inizio della crisi, circa metà dei titoli del debito pubblico italiano erano detenuti all’estero presso investitori pronti a lasciare alle prime spie di pericolo. Oggi la quota in mano ai non residenti è appena al 20%, se si tiene conto che molti fondi targati Lussemburgo sono in realtà italiani. Circa il 75% è detenuto da italiani, in gran parte banche e assicurazioni che non possono vendere e far crollare le quotazioni, senza autoinfliggersi gravi perdite. Anche in questo l’Italia somiglia un po’ di più al Giappone, senza però avere la sua capacità di generare risparmio attraverso l’export e con questo finanziare il debito.
Si va lentamente verso il lieto fine, dunque? Non se l’Italia crescerà nella media dell’ultimo ventennio, allo 0,6% l’anno. Per ora gli investitori continuano a pensare che prima o poi il paese affronterà i problemi che lo zavorrano da una generazione. Ma il mercato ha sempre ragione solo fino a quando inizia a pensare che forse si sbagliava.