Emanuele Trevi, Corriere della Sera 13/8/2013, 13 agosto 2013
QUANDO ASCOLTAVAMO LE CASSETTE (E L’AUTORADIO MANGIAVA IL NASTRO)
Festeggiare i cinquant’anni di un oggetto che in pratica non esiste più, può istigare facilmente alla nostalgia, che è un sentimento vischioso, raramente alleato all’intelligenza, e del tutto inutile. Avendo più o meno la stessa età delle prime audiocassette messe in vendita dalla Philips (era l’estate del 1963), vorrei ricordare quelle compagne di vita col dovuto affetto, ma senza dimenticarne i bizzarri difetti che hanno finito per decretarne la sorte.
Il fatto è che esattamente come le specie viventi, gli oggetti sono sottoposti a ferrei e imperturbabili meccanismi di selezione darwiniana. Il fondamentale tallone d’Achille delle cassette non era tanto in loro, ma negli apparecchi che dovevano farle suonare. Sia negli stereo da casa che in quelli delle macchine, il sottile nastro magnetico doveva affrontare, srotolandosi da un capo all’altro come una clessidra sonora, le famigerate testine. Non ho mai capito che forma avessero queste testine, ma le immaginavo come due streghe accovacciate da qualche parte nell’apparecchio, in attesa del momento giusto per vendicarsi della musica, che evidentemente consideravano un sopruso personale. Non c’era cassetta così vecchia e sperimentata da considerarsi al riparo di un attentato. Bastava cambiare stereo, per esempio portandosela dietro per un viaggio sulla macchina di un amico. Per qualche minuto le cose filavano lisce: le note dei Led Zeppelin o di Bob Marley facevano tutt’uno con la strada che scorreva e con la luce dell’estate. Un futuro meraviglioso era lì, dopo la prossima curva, vicino e inafferrabile. Ed ecco che, senza nessun preavviso, la musica si trasformava in un orrendo borborigmo. Ma lo spettacolo più penoso non era quello riservato all’udito, bensì alla vista. Ecco che l’apparecchio iniziava ad espellere il nastro, attorto come le spire dei serpenti sulla testa di Medusa, o come le viscere di un povero animaletto colpito dalla freccia di un cacciatore. Iniziava, allora, un lavoro impegnativo, eseguito con una pazienza proporzionale al valore assegnato alla cassetta ferita. Mentre nella macchina regnava il malumore e si diffondeva ogni specie di leggenda sulle maledette testine, qualcuno si incaricava di raddrizzare il nastro, evitando di romperlo, per poi riarrotolarlo con pazienza, facendo ruotare una penna, o il dito mignolo, in uno dei buchi dentati della cassetta. Ma a quel punto, la fiducia si era irreparabilmente rotta, e nessuno si sarebbe sognato di ridare in pasto quel nastro strapazzato alle due malvage streghe gongolanti nell’ombra.
Così vennero interrotte innumerevoli estasi musicali della nostra gioventù. In confronto, un graffio sui solchi di un vinile era qualcosa di conosciuto, delimitato nel tempo e nello spazio. Dopo la prima volta, non riservava più nessuna sorpresa. E c’era un’altra piccola soddisfazione: il fatto che almeno fosse colpa tua. Perché, come diceva sempre mio padre, se uno un disco lo tiene bene, non si graffia da solo. Invece le catastrofi da cassetta erano imprevedibili. In alcuni periodi si realizzavano spesso; in altri mai. Ma non bisognava fare conto sulla redenzione delle testine.
Ne ricavammo, forse, un insegnamento prezioso. Nessuna invenzione umana è stata in grado, come le cassette, di farci toccare con mano l’intima fragilità del piacere, il suo asservimento al caso e alle contingenze. E quel nastro vomitato dalla fessura dello stereo, oggi che non esiste più il problema, mi sembra una bellissima allegoria dell’arte, che mastica se stessa e da se stessa si espelle come una matassa ingarbugliata, un labirinto privo di architetto, una rete di terminazioni nervose che custodisce al suo interno il Nulla.