Gilberto Corbellini, Il Sole 24 Ore 11/8/2013, 11 agosto 2013
IMMOBILIZZATI DALL’EFFETTO PLANCK
L’età anagrafica del Presidente del Consiglio, Enrico Letta, è forse uno dei pochi segnali positivi della difficile fase politica che l’Italia sta attraversando. Perché ci allinea ai paesi nordeuropei e anglosassoni, che tendenzialmente mettono nelle mani degli adulti, e non degli anziani, il governo politico-economico di società sempre più fondate sulla conoscenza. Cioè che richiedono un’apertura mentale alla, e una ricerca delle novità, per favorire lo sviluppo economico e civile. Intuitivamente lo si sa da sempre, ed è anche scientificamente provato: con l’avanzare dell’età si riduce la suscettibilità al cambiamento. Nel senso che si diventa più conservatori o incapaci di aprirsi alle novità. Del resto, il cervello perde naturalmente di plasticità. Non è però una legge di natura. La suscettibilità al cambiamento, anche da anziani, ha una base genetica individuale, nonché è favorita da una buona intelligenza cristallizzata, cioè da un solido e ampio bagaglio conoscitivo, di esperienze o abilità.
Gli anziani sono tradizionalmente al potere nei regimi illiberali: dittature e teocrazie. Lo dice anche il totalitario Platone: «all’anziano spetta di governare, e al più giovane di sottomettersi». Non è insensato ritenere che l’eccessivo numero di anziani in posizioni di governo istituzionale, di leadership politica, imprenditoriale o accademica, sia un fattore che concorre in modo significativo al declino civile e culturale dell’Italia. Non sono "ageista" (come dicono gli anglosassoni per definire chi ha dei pregiudizi verso i vecchi). So bene che gli anziani svolgono una funzione cruciale per l’equilibrio morale e cognitivo di qualunque società. Sto solo constatando un disequilibrio demografico nelle posizioni decisionali, che in Italia sta impedendo da decenni la formazione e il rinnovamento di nuove élite all’altezza delle sfide globali e locali.
La questione della resistenza degli anziani al cambiamento è un tema che sottende anche un’annosa e ancora aperta discussione nell’ambito della storiografia della scienza, nota come "effetto Max Plack" o anche "principio di Planck". Il fondatore della fisica contemporanea non ci ha, infatti, lasciato solo il valore della costante che porta il suo nome, e che spiega la natura della radiazione da corpo nero assumendo la forma quantizzata per l’energia elettromagnetica; ma anche la descrizione di un fenomeno sociale e culturale, un passaggio stracitato dell’autobiografia. «Una nuova verità scientifica – scriveva – non trionfa convincendo e illuminando gli oppositori, ma piuttosto perché questi di fatto muoiono, e la nuova generazione cresce familiarizzando con la novità». Meno conosciuto, ma più esplicito, è il seguente passaggio: «un’importante novità scientifica raramente si fa strada prevalendo gradualmente su, o convincendo gli oppositori: raramente accade che Saulo divenga Paolo. Quel che accade è che gli oppositori progressivamente muoiono, e che la generazione che sta crescendo ha familiarizzato dall’inizio con la nuova idea: un altro esempio del fatto che il futuro sta nella gioventù».
L’effetto Planck ha ispirato a Thomas Kuhn l’ipotesi dell’incommensurabilità tra paradigmi scientifici cronologicamente successivi e alternativi, cioè la tesi che gli scienziati che ragionano all’interno di un precedente paradigma, e che sono normalmente più anziani, resistono alle novità. Per cui l’affermarsi del nuove paradigma richiede che muoiano i difensori di quello vecchio. Ma quanto è generalizzabile l’effetto Planck? E in che misura gli scienziati, che da giovani o in quanto innovatori, lo hanno provato sulla loro pelle, quando invecchiano sono più suscettibili a cambiare idea?
Planck fu il primo a non applicare il principio da lui così enfaticamente teorizzato. Infatti, egli morì senza aver mai accettato l’impianto post-newtoniano della fisica che aveva fondato. Stessa sorte toccò a William Whewell, che enunciò già nel 1851 il principio reso famoso da Planck: «la vecchia opinione se ne va con la vecchia generazione: la nuova teoria si sviluppa nel suo pieno vigore quando i discepoli congeniti diventano maestri; Joan Bernoulli rimane cartesiano fino all’ultimo; Daniel, suo figlio, è un newtoniano dall’inizio». Whewell non fece tesoro dalla scoperta, perché rimase creazionista e si oppose alle idee di Darwin fino all’ultimo.
Anche Darwin si lamentava del fatto che la generazione dei naturalisti con cui aveva a che fare erano "teste dure", che non riuscivano a capire la novità della teoria della selezione naturale. E il filosofo della scienza David Hull, che ha negato l’esistenza di un effetto Planck, ha dimostrato empiricamente una stringente correlazione tra l’età dei naturalisti coevi di Darwin e la loro opposizione alle idee selezioniste. In ogni caso, la ragione per cui Hull nega valore all’effetto Planck è perché considera la resistenza al cambiamento un fattore di fatto funzionale alla selezione di teorie scientifiche davvero valide. Non tutte le idee nuove, anzi pochissime, fanno avanzare la conoscenza. O beneficiano la società. Compito degli anziani è proprio di criticare le novità e costringere i giovani a fondare le loro posizioni e innovazioni su solide prove. Allo stesso tempo un sano sistema politico-istituzionale dovrebbe contrastare la tendenza degli anziani a organizzarsi per difendere egoisticamente e ottusamente (o mafiosamente) le posizioni di potere acquisite.
Se la suscettibilità al cambiamento ha una variabilità individuale, il principio ha delle eccezioni. Per esempio, la teoria del flogisto fu rapidamente abbandonata nell’ultimo decennio del Settecento, a fronte della confutazione di Lavoisier. Nondimeno Joseph Priestley morì nel 1804 credendo nell’esistenza del flogisto. Comunque, la retorica newtoniana che le novità si vedono salendo sulle "spalle dei giganti" rimane discutibile: lo stesso Newton attese che Robert Hooke, contrario alle sue idee sull’ottica e che aveva avversato le prime pubblicazioni di Newton del 1672, morisse. Quindi, nel 1704, le ripubblicò.
La difficoltà, anche per una mente innovatrice, di affrontare il declino biologico della suscettibilità al cambiamento è magistralmente illustrata da Richard Feyman, quando ricorda che gli anziani non capivano e si opponevano ottusamente alle sue idee e ai suoi metodi. E che persino Einstein criticava la meccanica quantistica con argomenti sbagliati. Tuttavia da anziano, Feyman, insieme ad altri coetanei, trovava insensata la teoria delle superstringhe. «Io so – scriveva – che altri vecchi sono stati dei matti a dire questo che una nuova teoria è sbagliata, e quindi sarei pazzo ad affermare che si tratta di un’insensatezza. Ma sarò molto pazzo, perché sento fortemente che è insensata! Non posso farci niente, anche se sono cosciente del rischio che corro assumendo questa posizione».
Nella scienza, alla lunga e quando gli scienziati possono lavorare in società aperte, le novità che intercettano il modo in cui stanno le cose hanno una elevata probabilità di affermarsi. In politica questo accade meno. Ma se non si cerca di farlo accadere, e si lasciano le cose troppo nelle mani degli anziani, ne va della libertà. Quindi anche della possibilità che la scienza si sviluppi e faccia progredire la società. Di fatto, l’eccessivo potere nelle mani degli anziani italiani potrebbe spiegare anche perché ricerca e innovazione in Italia non sono mai riuscite a decollare.