Corriere della Sera 12/8/2013, 12 agosto 2013
GIUSTIZIA I NODI DELLA RIFORMA
La discussione aperta da Angelo Panebianco (Corriere, 6 agosto) merita un approfondimento, se non altro per replicare a quanto affermato da Michele Vietti (7 agosto). La premessa ci trova tutti d’accordo: riforma difficile quella della giustizia, e non solo perché la politica è debole (qui da noi ma non solo) mentre la giustizia, meglio la magistratura, è forte, ma soprattutto perché la politica, quando si parla di giustizia, ha da molto tempo abdicato al suo compito proprio, che è quello di fare le leggi immaginando il futuro senza rimanere impiccata al presente. Per questo, mentre da almeno quaranta anni le aule di giustizia sono diventate i luoghi — impropri — di regolazione di conflitti sociali e politici, almeno dal medesimo tempo la politica si è arresa alla pretesa di intoccabilità della magistratura. È vero che, come dice Vietti, tra il «2006 e il 2007 due diversi governi sorretti da due diverse maggioranze» hanno riformato l’ordinamento giudiziario, il problema, però, è che in entrambi i casi si sono dovuti scontrare con la opposizione durissima della magistratura, disposta solo ad «autoriformarsi» ma non a essere riformala, e il risultato è stato condizionato da questo vero è proprio veto che per 60 anni ha impedito di attuare la VII disposizione transitoria della Costituzione. Vicenda non nuova, visto che identiche imposizioni c’erano state anche all’epoca delle Commissioni Bozzi e de Mita, mentre è agli alti del Parlamento un fax spedito da settanta procuratori della Repubblica che «ammonivano» la Bicamerale a non toccare la Costituzione dove regola la magistratura. E il veto è solo ed esclusivamente della magistratura, poiché, a differenza di quel che sostiene il vicepresidente del Csm, non è affatto vero che l’accademia e il foro abbiano posizioni divise su alcune questioni di fondo; la separazione delle carriere, è ampiamente condivisa dalle istituzioni dell’avvocatura, Cnf in testa e associazioni forensi — senza distinzioni — a seguire e anche, ufficialmente da qualche anno, dalla prestigiosa associazione degli studiosi del processo penale. Anche sulla necessità di una riforma del Csm, oppure di una diversa regolazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, nel mondo giuridico la riflessione è molto più avanzata di quanto non si dica. Il problema vero è che di questi temi non si riesce a parlare se non all’indomani di questa o quella vicenda processuale, immiserendo la questione — che invece è di fondamentale importanza in tema di rapporti tra lo Stato e i cittadini — con contese da cortile nelle quali si contrappongono scomposte istanze di rivalsa, da una parte, e l’appiattimento conformista e utilitarista sulle posizioni dei magistrati — ben descritto da Panebianco — dall’altra. Una situazione che vede non solo la paralisi delle riforme, ma anche il mutamento genetico del ruolo sociale della giurisdizione, come dimostra la vicenda emblematica di queste ultime ore riguardante l’intervista del presidente Esposito, le cui dichiarazioni — al di là della loro inopportunità, cosa su cui l’universo mondo concorda e non occorre soffermarsi — sono rivelatrici di come la Corte di cassazione, quando vuole, sconfini nelle valutazioni di merito molto più di quanto non le sia consentito. E allora la questione è quella di aprire un dibattito realmente costituente in tema di giustizia, come la politica, ma soprattutto il riflesso condizionato della magistratura e di molti suoi acritici supporter, impediscono, ma come potrebbe fare una informazione libera e consapevole. Anche per questo, con i Radicali, abbiamo promosso cinque referendum su questioni fondamentali (separazione delle carriere, custodia cautelare, ergastolo, magistrati fuori ruolo, responsabilità civile dei magistrati) per parlare dei grandi problemi, quelli di tutti non di uno solo.
Valerio SpigareIli
Presidente
Unione Camere Penali Italiane