Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  agosto 11 Domenica calendario

I NUOVI PADRONI DELL’ARTE

Nel 2006 il Louvre stipula un accordo con l’Emirato di Abu Dhabi: autorizza la cessione, a titolo oneroso, di parte della sua collezione, che sarebbe stata esposta in un nuovo museo (da inaugurarsi in Medio Oriente). Da quel momento, «Louvre» diventa un brand.
Intervenendo su questo episodio, Jean Clair pubblica un appassionato e indignato pamphlet, La crisi dei musei, in cui sostiene che è inaccettabile l’ipotesi di ridurre il «luminoso prestigio di un nome al rango di griffe»: i beni culturali non possono essere sfruttati a scopi mercantili, nella logica spietata del marketing. In questo orizzonte, la Grande Arte è usata come «una semplice mercanzia, suscettibile di essere alienata, scambiata, data a nolo e un domani venduta». Jean Clair invita a una resistenza «umanistica». Parole alte, di straordinaria tensione etica. Che, tuttavia, oggi, sembrano assumere un tono addirittura archeologico. Provate a guardarvi intorno. I neo-barbari ci assediano. A loro si deve quella radicale ridefinizione dell’identità geopolitica dell’arte che è in atto.
Stiamo assistendo all’emergere di una nuova aristocrazia, i cui protagonisti principali spesso non sono stati ancora catalogati nell’annuale classifica dei potenti dell’arte pubblicata dal sito Art News: ad alcuni di loro «Le Figaro» ha recentemente dedicato un ampio servizio. I neo-barbari sono Budi Tek, Bernardo Paz, Luba Mikhailova, Joseph Lau, Saud al-Thani, Wang Wei e Liu Yiqian, Liu Lan, Zhang Rui, Victor Pinchuk, Toni Salamé, Pearl Lam, Pierre Chen Frank Huang, Kim Chang-Il.
Innanzitutto, Mayassa al-Thani. Che, presidente dell’amministrazione dei musei del Qatar e sorella del nuovo emiro, ha studiato alla Sorbonne di Parigi. Secondo «The Economist», è «la donna più potente del mondo dell’arte». Annualmente dispone di un budget di circa un miliardo di dollari. Dal 2006 si è aggiudicata opere di Bacon, di Warhol e di Lichtenstein. Tre i suoi gioielli: il Centro bianco di Rothko (70 milioni di dollari); l’armadietto con medicinali di Hirst (20 milioni di dollari); e I giocatori di carte di Cézanne (250 milioni di dollari). Cifre da capogiro, che hanno alterato le regole su cui si fondano le aste internazionali.
Il Qatar sta diventando il nuovo centro dell’arte. L’emiro di questo piccolo Paese del Golfo Persico, in pochi anni, si è «impossessato» di opere di assoluto rilievo: dal Rothko di Rockefeller (54 milioni di euro) alla collezione di Claude Berri (50 milioni di dollari), a l’Enfant à la colombe di Picasso (63,7 milioni di euro).
Qatar, ma non solo. L’Indonesia, dove risiede Budi Tek. Di origine cinese, diventato ricco commerciando uova e allevando polli, formatosi nei Paesi anglosassoni, Tek, dal 2007, è tra le star delle fiere internazionali. Approfittando della recessione del 2008, ha puntato su alcuni tra i protagonisti della scena cinese: Ai Weiwei, Chen Zen, Huang Yong. Poi, si è spostato su Abdessemed, Ousler, Cattelan, Gormley, Kusama e Kiefer.
Dall’Indonesia alla Cina: dove agiscono magnati come Joseph Lau, Wang Wei e Liu Yiqian, Liu Lan, Dai Zhikang, Zhang Rui e Pearl Lam, accomunati dalla scelta di collezionare quasi esclusivamente l’arte cinese contemporanea. Per arrivare alla Corea del Sud: dove si muovono Kim Chang-Il e Ahae. E a Taiwan: con Pierre Chen e Frank Huang. Passiamo, poi, ai Paesi dell’ex Urss: in Russia, regnano i coniugi Abramovic, i quali, a Mosca, a Gorky Park, hanno aperto una dinamica kunsthalle, Garage; mentre, in Ucraina, operano Luba Mikhailova, proprietaria di una fabbrica, e Victor Pinchuk, facoltoso imprenditore di oleodotti e di industrie metallurgiche, che investe sulle celebrities (Hirst, Koons, Eliasson, i fratelli Chapman).
In questa geografia, dobbiamo inserire anche il Libano: dove si destreggia con disinvoltura Tony Salamé. E il Brasile: dove il proprietario di miniere Bernardo Paz ha realizzato Inhotim, un meraviglioso parco per l’arte (2.000 ettari). Altri sintomi di questo terremoto. Le Biennali d’Oriente: come quella di Shariah. Le Fiere: quella di New Delhi e quella di Dubai, che è animata da un’artista «senza velo», la sceicca Hoor. Le gallerie: come il Alriwaq di Doha, in Qatar, dove, nel prossimo autunno, sarà organizzata un’ampia antologica di Hirst. E i musei: in Cina, nel 2012, ne sono nati addirittura 360 (tra i più importanti, il Dragon Art di Liu Yiqian, l’Himalaya’s Art di Dai Zhikang e il Minshen Bank); ad Abu Dabi è stata inaugurata la succursale del Guggenheim (progettata da Gehry), in attesa del Louvre Abu Dhabi (disegnato da Nouvel).
Cosa sta accadendo? Richiamiamoci al mondo del calcio. Dagli inizi del 2000, potenti emiri hanno acquistato celebri club europei come il Manchester City e il Paris Saint-Germain e hanno reclutato allenatori e calciatori di successo. La medesima strategia è adottata dai Neo-Paperoni dell’arte, che si stanno impegnando per accaparrarsi alcune tra le più significative opere moderne e contemporanee. La loro tattica: inviano emissari alle aste internazionali, dove per cifre astronomiche acquisiscono capolavori storicizzati o installazioni d’avanguardia. Vogliono impossessarsi di ciò che non hanno. Inseguono il prestigio culturale. A tal fine, ricorrono a due strumenti: la determinazione e il denaro.
Hanno poco in comune con Saatchi, Pinault, Abramovic, Arnault o Prada, i quali, pur con sensibilità diverse, si comportano, per dirla con il critico americano Jerry Saltz, come «showmen che fanno parte dello spettacolo». Piuttosto, somigliano ai macellai autodidatti che, guidati da abili consiglieri, forti di importanti risorse, nel XIX secolo costruirono dal niente le prime collezioni museali statunitensi.
Figure come Mayassa tendono a non assecondare i riti della mondanità. Difficilmente le si trova nelle vesti dei vip o su sontuosi yacht. Non frequentano le star del cinema o della moda. Non si recano alle case d’aste. Spesso sono invisibili: prediligono il low profile, il soft power. Nella maggior parte dei casi, non sono sorrette da conoscenze specifiche e da autentiche passioni.
Forse proprio grazie a questo dilettantismo, i nuovi ricchi sono riusciti a cogliere il lato più cinico e liberista del mercato dell’arte. Che era stato lucidamente descritto da Guido Rossi in un articolo apparso su «Il Giornale dell’Arte» nel 1983. Siamo dinanzi, aveva detto Rossi, a un luogo trasparente, dominato da manipolazioni: uno spazio di mero commercio, privo di norme certe, non governato da una disciplina tesa a tutelare l’interesse generale.
Personaggi come Mayassa e Budi Tek hanno rivelato la natura meno nobile di questo sistema commerciale. Che, adesso, è apparso per quello che effettivamente è: un organismo al servizio di se stesso, una «miscela di economia, storia, psicologia, spettacolarità e stili di vita, un territorio commerciale non regolamentato in cui regnano desiderio, fortuna, stupidità, cupidigia, conoscenze personali, competenza, insicurezza» (Saltz).
Per un emiro, un magnate russo o un imprenditore cinese o indonesiano aggiudicarsi una tela di Cézanne, di Rothko o di Kiefer, sbaragliando la concorrenza europea o statunitense, è un gesto che tiene in sé varie componenti. Innanzitutto, mostra narcisismo. E, poi, gusto per il rischio. Amore per il lusso. Ostentazione sfrenata del potere. Ma anche intelligenza finanziaria: acquistare opere d’arte è un modo per non pagare le tasse e per riciclare denaro in maniera «elegante». Qualcuno ha detto: «In Russia non si guarda da dove viene il denaro, ma ciò che esso realizza».
Proprio per questo, i Neo-Paperoni tendono a non dedicarsi allo scouting: non vogliono scoprire nuove voci. Senza seguire una rigorosa logica di selezione, si limitano ad assemblare «bellezze». Puntano su nomi certi, che non subiranno oscillazioni o svalutazioni. Con l’eccezione dei cinesi, non si affidano a una politica autarchica: non mirano a valorizzare il «prodotto interno». Investono su opere dotate di una sicura tenuta economica e simbolica. Ma, per loro, collezionare arte significa soprattutto altro. È un modo per accrescere fama e status sociale. Un mezzo di comunicazione. Per imporsi ai media. E per ribaltare antichi luoghi comuni: «Mio padre dice spesso che, affinché ci sia la pace, dobbiamo in primo luogo rispettare le culture altrui. I popoli in Occidente non comprendono il Medio Oriente. In mente hanno soltanto Bin Laden», ha affermato per esempio Mayassa.
Talvolta, però, sulle orme di Pinault e di Prada, i Neo-Paperoni avvertono il desiderio di portarsi al di là di una logica individualista, per abbracciare una filosofia più istituzionale. Molti tra di loro, infatti, si stanno impegnando per creare musei ad personam. Come ha fatto Budi Tek, che ha radunato la sua raccolta in due spazi pubblici (a Giacarta e a Shanghai). E come intende fare Mayassa, la cui ambizione sta nell’ordinare dal niente una collezione di arte contemporanea di qualità. Un nuovo Moma? Un nuovo Pompidou?
Di fronte a questi scenari, cosa fare? Resistere? O cambiare prospettiva?
Azzardiamo una profezia. Il turista culturale di domani dovrà aggiungere alle sue mete obbligate il Qatar, l’Ucraina, l’Indonesia, la Corea del Sud e la Cina. Benefico allargamento delle geografie dell’arte? O trionfo dei neo-barbari?