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 2013  agosto 11 Domenica calendario

L’ALTRO PETROLIO CHE DA’ GAS AGLI USA

Se gli Stati Uniti resteranno per tutto il XXI secolo l’indiscussa superpotenza planetaria lo dovranno anche al figlio di un pastore greco di capre, trapiantato nei primi decenni del Novecento a Galveston, sulla costa del Texas. George Mitchell, morto pochi giorni fa da petroliere miliardario (239esimo nella classifica di «Forbes 500»), è l’uomo alla cui testardaggine si deve la rivoluzione nell’energia che sta sospingendo gli Usa fuori dalla crisi, proiettandoli verso un nuovo «secolo americano». Da produttore indipendente il petroliere greco-texano ha buttato al vento diversi milioni di dollari, ma alla fine, come da copione di una vera storia americana, ha avuto successo: negli anni Novanta ha reso fattibile il fracking, la tecnologia di «fratturazione idraulica» che insieme alla «perforazione orizzontale» ha permesso alle società petrolifere a stelle e strisce di estrarre petrolio e gas in quantità mai viste. Metri cubi e barili di shale gas e di shale oil ottenuti rompendo le dense formazioni rocciose del sottosuolo (lo shale appunto) con l’iniezione di acqua ad alta pressione, frammenti di ceramica, sabbia e composti chimici.
Un nuovo modo di produrre che ha effetti ambientali discutibili: richiede grandi quantità d’acqua e un viavai di mezzi pesanti per il trasporto; se mal gestito può causare perdite di fluidi; l’acqua di scarto con le sostanze chimiche deve essere trattata prima di essere rilasciata. E infine, anche se i petrolieri tremano di sdegno al sentirlo affermare, la fratturazione può dar luogo a piccoli terremoti, come ha ammesso l’Us Geological Survey.
Una tecnologia non facile, insomma. E infatti all’inizio del decennio scorso era difficile prevederne un successo così clamoroso. Grazie al fracking la produzione di shale gas made in Usa copre invece oggi più del 40 per cento di quella nazionale, che soddisfa ormai quasi totalmente la domanda interna. Nel gas il Paese è ormai autosufficiente e sta valutando la possibilità di esportare grandi quantità di gas naturale liquefatto (Lng).

Quanto al petrolio, nel 2017 gli Stati Uniti potrebbero riavvicinarsi al record toccato nel 1970 (10,9 milioni di barili al giorno). Solo pochi mesi fa, poi, l’International Energy Agency è stata chiara: prima della fine del decennio gli Stati Uniti saranno il primo produttore mondiale, superando l’Arabia Saudita e la Russia, e inizieranno ad esportare gas a basso prezzo. Ma, soprattutto, saranno «energeticamente indipendenti» entro il 2035.
Un colpo di scena che realizzerebbe il mito politico articolato per la prima volta da Richard Nixon nel novembre 1973. Poche settimane prima gli Stati Uniti avevano dovuto fronteggiare l’embargo dei Paesi arabi seguito alla guerra del Kippur. Uno shock, tutto sommato, più psicologico che reale. Ma percepito come una minaccia capitale alla sicurezza, che ha orientato, da quel momento in poi, la politica estera del gendarme America. Quarant’anni dopo, invece, gli scenari stanno cambiando. Come? L’autosufficienza, intanto, ha effetti sull’economia. Secondo la banca d’affari Citi l’azzeramento delle importazioni di petrolio farebbe scendere il deficit delle partite correnti (gli Usa importano più beni e servizi di quanti ne esportino), riducendo la vulnerabilità soprattutto nei confronti della Cina, che ha in tasca la quota maggiore di debito pubblico americano. E in generale prezzi contenuti (negli Usa il gas costa tre volte meno che in Europa e cinque volte meno che in Asia) costituiscono un potente vantaggio competitivo. Ma le implicazioni più rilevanti restano quelle geopolitiche, e qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Pochi sanno, ad esempio, che il Venezuela esporta ogni giorno un milione di barili di greggio verso gli Usa. Senza i dollari americani dove troverà il regime chavista il denaro per mantenere la stabilità del Paese? Per il Canada, da cui provengono tre milioni di barili al giorno, il problema di dove rivendere il greggio destinato agli Usa sarebbe forse risolvibile: il Paese si sta dotando delle infrastrutture di trasporto per convogliarlo nella British Columbia e esportarlo in Asia, dove però entrerebbe in competizione con la Russia e le produzioni mediorientali. In questo gioco al ribasso anche l’Arabia Saudita (un milione di barili esportati negli Usa) potrebbe rientrare nella casella dei perdenti, e con essa l’Opec, compresa la popolosa e turbolenta Nigeria (un altro milione di barili verso gli Usa).
Diversamente dal passato, sarebbero le economie asiatiche (Cina, India e Giappone) a diventare il mercato di sbocco per il cartello. Ma anche qui l’Opec si troverebbe a giocare una partita sempre più difficile, quella che lo obbliga a mantenere elevati i prezzi e le quantità vendute per soddisfare le esigenze di bilancio dei suoi membri, e evitare il proprio sfaldamento. Non è un mistero che, sotto il livello di 100 dollari al barile, parecchi Paesi esportatori non riuscirebbero a finanziare la propria spesa pubblica e a mantenere sotto controllo le loro popolazioni, già scosse dalle varie «primavere arabe».
Si può proseguire: quando, negli anni a venire, gli Usa esporteranno gas (Lng) verso l’Europa, che cosa accadrà? Qualche posizione consolidata è a rischio: la Russia, che fino a poco tempo fa considerava lo shale gas americano una «bolla» («impossibile produrre gas e venderlo a prezzi così bassi», dicevano a Gazprom), vedrebbe in pericolo la sua posizione di gigante energetico continentale, e con essa la politica di potenza putiniana basata sulla dipendenza dell’Occidente. Ma non solo: nell’Europa dell’Est c’è anche chi spera di trovare shale gas sul proprio territorio e di smarcarsi dall’orso russo. L’Ucraina ha avviato un programma di ricerca con la Shell. La Polonia ha concesso più di cento licenze esplorative, ma le sue ambizioni, a tutt’oggi, sono state frustrate da scarsi risultati e le compagnie americane e canadesi (Exxon, Marathon e Talisman) hanno gettato la spugna. Insomma, come sostiene Robert Kaplan (il capo degli analisti geopolitici di Stratfor), se il mondo tenderà a dividersi, non sarà in base alle ideologie, ma secondo il possesso o meno di vantaggi reali, come lo shale gas o lo shale oil.

Non necessariamente, con l’autosufficienza, gli Stati Uniti torneranno però a un politica estera isolazionista. Semplicemente, in caso di una crisi internazionale, potranno sospendere le loro esportazioni energetiche in nome della sicurezza nazionale, lasciandosi aperte più alternative rispetto alle situazioni «bloccate» del passato. Una strategia che la Cina, a causa della sua crescente dipendenza energetica dal Medio Oriente e dall’Australia, non potrà adottare.
Restano, comunque, un paio di domande cruciali: è sostenibile un modello energetico come quello degli Stati Uniti? Ed è replicabile? Bacini come quello americano sono presenti in Sudamerica, in Cina, in Russia, in Sudafrica, in Messico, persino in Gran Bretagna e in Francia (non pare in Italia, per la consolazione di chi teme qualche problema in più). Ma a fare la differenza (come sostiene Leonardo Maugeri nel suo The Shale Oil Boom) è la drilling intensity, l’intensità di perforazione che solo gli Usa sono oggi in grado di sostenere: senza perforare in continuazione nuovi pozzi la produzione shale non può salire, anzi è destinata a scendere. E negli Stati Uniti, lo scorso giugno, erano in funzione 1.761 impianti, più del 50 per cento del totale mondiale, quasi tutti equipaggiati per la «perforazione orizzontale». Nel Medio Oriente, sempre lo scorso giugno, erano 389, in Europa 138. La «superpotenza» si vede anche da questo.