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 2013  agosto 09 Venerdì calendario

LA TRISTEZZA DEL MERLO MASCHIO

Resta Merlo maschio, dove vai? Via con sospetta fretta, quasi come Rino Gaetano, in un giorno d’estate, all’incrocio della malinconia, dei passati bruciati al sole e del vigliacco voltare le spalle di chi fino a ieri ti aveva acclamato. Degli anziani si sente l’odore. Gli si manca di rispetto in coincidenza di una debolezza. E quelli come Lando Buzzanca, cresciuti scaricando mobili nella Roma di inizio anni 50, venuti su servendo pietanze in divisa da cameriere e risposte con la stessa brusca, rispettosa verità di chi la donna l’ha sempre chiamata femmina, non sono abituati ad obbedir tacendo. Sopportano l’affronto con sofferenza. E rispondono. Magari in silenzio, in un’alba umida, prendendo in prestito un verso di Donatella Rettore, affidandosi a un taglio netto, lo stesso (una scrittura d’attore a lungo desiderata e non concessa) che sarebbe stato all’origine del tentato suicidio di una delle nostre icone “andropologiche”. Comunque la si veda, “O macho italiano” come le ragazze gli gridavano entusiaste sul lungomare di Rio de Janeiro nell’età in cui i capelli già denunciavano i primi bagliori di bianco, è stato male. Nella versione fornita dalla famiglia (che nega qualsiasi pulsione nichilista), un colpo di calore, lo stress, un malore passeggero, un’amarezza legata al repentino cambio di qualche battuta sul copione. Una recita, anche nell’abisso, a cui si deve comunque il rispetto della tradizione. Non si svela ai bambini la maschera di Santa Claus solo perché Babbo Natale non esiste. Non si mette a nudo una debolezza intima al solo scopo di riempire gli annoiati pomeriggi balneari degli italiani. Non si scalfisce un mito machista perché Maciste, all’inferno, finisce solo al “cinematografo”.
BUON RIPOSO e pronta guarigione a Buzzanca. Sia che la si veda come il conterraneo Pietrangelo Buttafuoco, devoto adoratore del dio Lando: “grandissimo attore, come sosteneva Carmelo Bene e sommo lettore di Dante, infinitamente più abile di Benigni” e pudico e spiritoso, nonostante la delicatezza dell’assunto, sul resto: “Ciò che non si può dire bisogna tacere. Su questa storia è meglio, mi dia retta. E se la frase sembra un inno all’omertà o un celebre motto di Don Vito Corleone, sappia che qui parliamo di Wittgenstein”. Sia che si voglia planare sul destino di una formazione di piccoli indiani che quando il cinema era un’industria, all’epoca dei nostri incassi più gloriosi, erano riveriti e più tardi, senza un grazie o un perché, sono stati eliminati. Lando Buzzanca, partito con Germi, Petri, Pietrangeli e Lattuada a descrivere vizi privati e misere virtù degli onorevoli sedotti da uno svolazzar di gonna e poi precipitato a destra, accanto a Fini, per rifarsi finalmente, marciando in prima fila , dei tanti snob che al suo nome si davano di gomito, lavorerà ancora. Con o senza Berlusconi, di cui apprezza il vitalismo: “Se è vero che ogni tanto dà un colpo di minchia un po’ qua e là, mi fa un piacere immenso”, ricordando, magari nel tedio della convalescenza, tutti gli altri che a un certo punto, anche se non si chiamavano Hemingway o Romain Gary, per una passione tradita, un mancato ingaggio o la scomparsa improvvisa dell’amato (Buzzanca ha perso recentemente sua moglie) non hanno più visto luce davanti a sé. Era una generazione forte, di seduttori e buffoni, caratteristi e protagonisti tramontati, fanciulle meravigliose e commissari di ferro.
QUERCE abbattute dal cuore sul campo da tennis come Maurizio Merli, da anni dimenticato dopo essere stato sfruttato da mane a sera nel ruolo del poliziotto scomodo o maliziose ragazze come Laura Antonelli che conobbe Buzzanca sul set de Il magnifico cornuto e molto prima di lui, così meno forte di lui, si lasciò andare tra polveri, ricoveri, miserabili agguati a mezzo stampa e trucchi alla Dorian Gray che restituirono solo la decadenza di un’estetica. I nostri attori di un tempo. Sempre in scena o ai margini, maledetti per indole come Franco Califano. Zattere liberate in mare tra gli anni 30 e i 40 del secolo scorso e poi naufragate alla deriva perché come disse Alvaro Vitali: “Un giorno, senza ragioni apparenti, il telefono smise di squillare” . Il mestiere di chi ha vissuto tutta la vita in una dimensione parallela, sempre al di qua della realtà, in una terra di mezzo dai confini confusi, elastici, flessibili e nella realtà annaspa. Disse addio in clinica romana premendo il grilletto contro se stesso a 47 anni il grande Alighiero Noschese e cadde un’infinità di volte provando disperatamente a rialzarsi, un delicato fiore calpestato senza ritegno anche dai relativi scrupoli dei “professionisti” del porno, Lilli Carati. A certe latitudini, Buzzanca non viaggiò: “Mi proposero Adamo ed Eva, io e la Fenech dovevamo stare sulla scena nudi con una foglia di fico davanti: era davvero troppo, dissi di no”. La pagò. Forse meno del conto preteso da certi compromessi, da certe operazioni “alimentari”, da certi sì per cui non basta il pentimento. Dagli inganni etilici degli attori viscontiani, diventati pasto nudo per le battute di Nanni Moretti in escursione a Panarea: “Helmut Berger ha promesso che viene direttamente in mutande”, alle illusioni collodiane, una vertigine, quasi una spirale hitchcockiana per Francesco Nuti alle prese con Pinocchio. Nel paradiso delle bugie, tutto viene graziato tranne l’insuccesso. Per una patente d’eternità, se c’è tempesta, non bastano quindici palle. Al limite ti danno un vitalizio. Una “Bacchelli”. Ma devi tacere. Meglio se per sempre. Fellini giurava che il cinema fosse il modo più diretto per entrare in competizione con dio. Dimenticava di dire che Dio perdona raramente e la pietà, sotto le luci, è un sentimento in svendita.