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 2013  agosto 09 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LE PENSIONI D’ORO E L’INTERVENTO DI BERLUSCONI SULL’IMU


CORRIERE.IT
«L’Imu sulla prima casa e sui terreni e fabbricati funzionali alle attività agricole non si deve più pagare. Dal 2013 e per tutti gli anni a venire». Lo afferma Silvio Berlusconi in una nota lanciando di fatto un ultimatum alla maggioranza: «E’ un impegno che abbiamo preso nell’ultima campagna elettorale, lo stesso che è alla base del governo di larghe intese». La puntualizzazione del leader del Pdl arriva all’indomani della diffusione dei dati del ministero del Tesoro, che parlano di iniquità dall’eliminazione totale dell’imposta sugli immobili. E dopo che in mattinata, a margine della conferenza stampa per l’approvazione definitiva del decreto del Fare, il premier Enrico Letta aveva rimandato alla fine di agosto la soluzione di tutti gli interrogativi ancora aperti sulla questione Imu.
MAGGIORANZA SPACCATA - E mentre il fronte del Pdl - da Capezzone alla Santanché, dal ministro Di Gerolamo a Maurizio Gasparri e altri ancora - si unisce compatto all’appello berlusconiano a favore dell’abolizione totale dell’imposta, dalle altre componenti del governo si mettono le mani avanti. Lo fa, ad esempio, il viceministro all’Economia, Stefano Fassina: «Come può il Pdl continuare a insistere per cancellare l’Imu per tutte le prima abitazioni? Adempiere alla promessa berlusconiana vuol dire, nell’Italia 2013, costretta nei vincoli di bilancio pubblico, rassegnarsi all’aumento dell’Iva, pagata anche dai disoccupati e dai pensionati al minimo; oppure lasciare senza indennità di disoccupazione centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici; o ancora abbandonare a loro stessi decine di migliaia di esodati». E lo fa anche la vicepresidente del Senato, Linda Lanzillotta, di Scelta Civica, secondo cui «Brunetta e gli esponenti del Pdl non accettano di confrontarsi con la realtà: i dati puramente tecnici pubblicati sul sito del Tesoro dimostrano che la cancellazione totale dell’imu che vuole il Pdl soddisfa la propaganda elettorale ma è profondamente iniqua perchè sarà a vantaggio delle famiglie più abbienti e non di quelle che oggi soffrono la crisi».
«BATTAGLIA DI LIBERTA’» - «La nostra battaglia sull’Imu è una battaglia di libertà - sottolinea in ogni caso il Cavaliere -. L’80% delle famiglie italiane sono proprietarie della casa in cui abitano e sulla casa fondano la certezza del loro futuro. Già nel 2008 il nostro governo cancellò l’Ici e l’impegno che abbiamo preso nell’ultima campagna elettorale, quello stesso impegno che è alla base dell’accordo che ha portato alla formazione del governo di larghe intese, è chiaro: l’Imu sulla prima casa e sui terreni e fabbricati funzionali alle attività agricole non si deve più pagare. Dal 2013 e per tutti gli anni a venire». E ancora: «L’Italia non deve avere paura del proprio futuro. Per questo non verremo mai meno al nostro impegno sull’Imu. È un impegno di fondo dell’accordo di governo con il presidente Letta, ma è anche e soprattutto lo stimolo fondamentale per far ripartire la nostra economia».
I NUMERI DELL’EDILIZIA - Berlusconi a sostegno della propria tesi cita la crisi del settore edilizio. «Per gli scettici dell’Imu - evidenzia sottolineiamo che nel 2011 gli occupati nel settore delle costruzioni erano 1.847.000, crollati a 1.694.000 a fine 2012, per effetto dell’introduzione dell’Imu da parte del governo Monti. Si sono persi 150.000 posti di lavoro solo nel settore delle costruzioni, senza considerare l’indotto. Quanto è avvenuto, di negativo, nel 2012 ci porta a sostenere, a contrariis, che nel 2013 l’eliminazione dell’Imu consentirà di rilanciare il settore immobiliare. La ragione è semplice: gli investimenti in edilizia hanno il più alto coefficiente di rilancio sull’economia. Stimolando l’edilizia si cambia il corso della politica economica, innescando un circolo virtuoso di crescita. Liberare adesso 4 miliardi, attraverso l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa, permette di aumentare il reddito disponibile delle famiglie che quindi, in un clima di rinnovata fiducia, saranno portate a spendere di più, piuttosto che a risparmiare come avviene quando si ha incertezza o paura del futuro».

LE NOVE IPOTESI DI SACCOMANNI

Dall’abolizione totale dell’Imu sulla prima casa alla cancellazione solo della prima rata, dall’aumento della detrazione di base da 200 a 500 euro alla deducibilità per le imprese fino all’introduzione della service tax. Sono queste le 9 ipotesi di riforma della tassazione sugli immobili indicate dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni.
Nel dettaglio le ipotesi e i relativi costi:

- ABOLIZIONE TOTALE IMU PRIMA CASA
Costa 4 miliardi, ha «scarsa» efficienza e impatto regressivo rispetto al reddito.

- AUMENTO DETRAZIONE DA 200 A 500 EURO
Costa da 1,31 a 2,72 miliardi, ha «media» efficienza e impatto progressivo rispetto al reddito.

- RIMODULAZIONE SELETTIVA ESENZIONE IMU SU PRIMA CASA
Diversi i parametri: in funzione dell’immobile, in funzione della condizione economica del proprietario, in funzione della condizione economica del nucleo familiare, misurata attraverso l’Isee, a favore dei soggetti in condizione di disagio economico, individuato attraverso l’Isee, applicazione dei valori Omi per la determinazione della base imponibile Imu. A seconda dei parametri costa da 1 a 2,3 miliardi, efficienza «media».

- SERVICE TAX
Diverse ipotesi (esenzione dall’Imu per l’abitazione principale con contestuale eliminazione/riduzione della deducibilità ai fini Irpef delle rendite abitazione principale e reintroduzione totale/parziale in Irpef dei redditi degli immobili non locati; rimborso dell’Imu sull’abitazione (integrale o parziale) attraverso l’attribuzione di un credito di imposta (o una detrazione) Irpef; esenzione dall’Imu per l’abitazione principale e contestuale rimodulazione della Tares relativa ai servizi indivisibili). Si ipotizza un recupero di gettito da 2 a 4,3 miliardi.

- DEDUCIBILITÀ DELL’IMU PER LE IMPRESE
Costa 1,25 miliardi, ha efficienza media e presenta criticità per le imprese incapienti.

- RESTITUZIONE AI COMUNI GETTITO DA IMMOBILI A USO PRODUTTIVO CLASSIFICATI NEL GRUPPO CATASTALE D
Costa 4,66 miliardi, i profili di efficienza dell’imposta non cambiano per il contribuente.

- ABOLIZIONE ADDIZIONALE COMUNALE IRPEF E AUMENTO IRPEF
Costa 3,4 miliardi, i profili di efficienza netti sono complessi da determinare in misura puntuale così come gli effetti redistributivi complessi.

- SCELTA AI COMUNI
Si ipotizzano risorse aggiuntive pari a 2 miliardi, efficienza Imu e profili redistributivi invariati.

- ABOLIZIONE PRIMA RATA
Costa 2,43 miliardi, l’intervento proposto non affronta i problemi strutturali del prelievo immobiliare. (fonte Agi)

PEZZI DI SENSINI E BACCARO SUL CORRIERE DI STAMATTINA

SENSINI
ROMA — Il ministro dell’Economia scopre le carte. A sorpresa, ieri, Fabrizio Saccomanni ha deciso di rendere pubblico il dossier sulle ipotesi di riforma dell’Imu. Lo ha fatto, come spiega in una lettera, per «offrire un contributo al dibattito in corso, al chiarimento delle implicazioni concrete delle varie proposte, nella consapevolezza che le scelte politiche debbono basarsi su adeguati approfondimenti tecnici», anche se i partiti di maggioranza queste carte le avevano in mano già da una decina di giorni.
La miccia la incendia Renato Brunetta quando, nel primo pomeriggio, accusa Saccomanni di non aver fatto pervenire ai partiti «alcuna bozza di testo organico. Nulla di nulla!» e ribadisce che l’unica proposta in linea col discorso programmatico del premier è l’abolizione totale dell’Imu sulla prima casa. Gli replica il viceministro del Pd, Stefano Fassina, chiarendo che Letta non ha fatto alcuna promessa simile. E si andrebbe avanti se Saccomanni non decidesse di mettere on line il dossier delle proposte: cifre e valutazioni tecniche sulla fattibilità di ogni specifica ipotesi emersa nel corso del confronto con la maggioranza. Nove per la precisione, otto delle quali riguardano la riforma complessiva dell’imposizione sugli immobili dal 2014, ed una l’abolizione della prima rata del 2013. Un quadro dal quale emerge la netta contrarietà del ministero all’abolizione completa della tassa sulle prime case, la sua preferenza per una riforma che oltre all’Imu abbracci anche la nuova Tares e, se possibile, per una soluzione del nodo Imu 2013 affidata esclusivamente ai comuni.
La cancellazione dell’Imu sulla prima casa costerebbe 4 miliardi, ma avrebbe «un impatto regressivo rispetto al reddito». Ovvero, farebbe più male ai poveri che ai ricchi. Da escludere, quindi, per ragioni di equità. Così come, per gli stessi motivi, la semplice conferma della cancellazione per tutti della prima rata di giugno, che costerebbe 2,43 miliardi. Il Tesoro considera anche l’ipotesi di un aumento generalizzato delle detrazioni attuali, con un costo compreso tra 1,3 e 2,7 miliardi di euro. Ma non è un meccanismo selettivo, e dunque potrebbe di nuovo avvantaggiare i più ricchi. Un po’ meglio andrebbe se le detrazioni fossero legate, come intensità, al valore dell’immobile dato dalla rendita catastale, e meglio ancora se fossero parametrate al reddito. Neanche questa sarebbe tuttavia, secondo il Tesoro, una soluzione ottimale, se non altro perché con il riferimento al reddito dichiarato si rischia di premiare gli evasori.
Agganciare le detrazioni o l’esenzione prima casa al reddito misurato dall’Isee, annullando i benefici per chi dichiara oltre 70 mila euro l’anno, costerebbe tra 500 milioni e 2 miliardi, ma ci sarebbero complicazioni amministrative non indifferenti. Così come se la tassa venisse agganciata non più alle rendite catastali ma ai valori degli immobili indicati dall’Osservatorio dell’Agenzia delle Entrate, che però non hanno valenza legale.
Un’ipotesi completamente diversa, e che addirittura comporta un maggior incasso per lo Stato, prevede l’esenzione Imu sulla prima casa per tutti, compensandone però i costi riportando a tassazione Irpef i redditi delle case sfitte e «con la totale abrogazione della deducibilità ai fini Irpef della rendita dell’abitazione principale». Salterebbero fuori 1,8 miliardi: i 3,3 di minor gettito dovuti alla cancellazione dell’Imu sulla prima casa sarebbero più che compensati dalla maggior Irpef sulle case sfitte (1,9 miliardi) e dalla indeducibilità dell’Imu sulla prima casa dall’Irpef (3,2 miliardi).
Tra le possibilità esaminate dal Tesoro, anche la riforma che abbracci la Tares, articolata secondo varie graduazioni, anche contemplando l’eliminazione sulla prima casa, e che potrebbe risultare neutrale dal punto dei vista dei conti pubblici, come anche produrre un maggior gettito, in funzione delle aliquote.
Tra le scelte considerate c’è anche la deducibilità dell’Imu dall’Ires per le imprese. Che è più che un’ipotesi, visto che l’indeducibilità attuale corre il rischio di essere censurata dalla Corte Costituzionale. L’operazione costerebbe 1,25 miliardi, ma eviterebbe il rischio di un contenzioso enorme. Nel suo dossier Saccomanni considera anche l’idea di «derubricare» la questione Imu a problema di finanza locale. Si diano un po’ di soldi ai Comuni, un paio di miliardi, e poi decidano loro cosa fare. Per il Tesoro sarebbe forse la soluzione migliore.
Mario Sensini

BACCARO
ROMA — Sono dieci giorni che Renato Brunetta (come gli altri componenti della «cabina di regia») conosce il dossier sull’Imu del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. Lì nero su bianco c’era già scritto tutto quello che il Pdl non ha intenzione di sentirsi dire e cioè che «la proposta di esenzione totale dall’Imu per l’abitazione principale non sembra pienamente giustificabile sul piano dell’equità ed efficienza del tributo». Una valutazione chiara cui Saccomanni non aveva fatto ancora seguire alcuna scelta, perché la linea del governo Letta sull’Imu è sempre stata quella di offrire un contributo tecnico al dibattito politico, senza entrarci direttamente. Ma lavorandoci dietro le quinte: ad esempio facendo emergere, mercoledì scorso, una sintonia con i sindaci dell’Anci sull’ipotesi di un trasferimento ai Comuni dell’autonomia di decidere se e come tagliare l’Imu.
Il Pdl finora aveva nicchiato. Dopo la consegna del dossier di Saccomanni, contenente le nove proposte elaborate dal Tesoro, c’era stata l’ennesima riunione con i tecnici, tenutasi su richiesta dello stesso Brunetta che in realtà anelava a un confronto diretto con il ministro. In quell’occasione il capogruppo del Pdl aveva detto al Corriere : «Oggi ho ascoltato ipotesi risolutive indecenti e al di fuori del programma di Letta». Risolutive? Quali? «Per ora preferisco non entrare nel merito, sennò...» rispondeva evasivo Brunetta che, subito dopo, consegnava alle agenzie una dichiarazione furibonda: «In vista della prossima cabina di regia sulla riforma della tassazione sugli immobili, che speriamo, sollecitando, possa essere convocata quanto prima, chiediamo al presidente del Consiglio, Enrico Letta, di intervenire sul ministro dell’Economia affinché gli accordi che hanno portato alla formazione del governo, più volte ribaditi, siano rispettati».
Cosa ha spinto dunque ieri Brunetta a uscire allo scoperto attaccando direttamente il ministro Saccomanni accusato di attendismo? La questione sembra tutt’altro che tecnica: le carte sul tavolo c’erano già, se il Pdl avesse voluto entrare nel merito delle scelte avrebbe trovato materiale per farlo già nel dossier di Saccomanni, così apertamente schierato per una soluzione selettiva sull’esenzione dell’Imu sulla prima casa.
Il fatto è che il tempo stringe e, dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna di Silvio Berlusconi, una parte del Pdl, cui Brunetta pare appartenere, sembra avere già deciso che il governo Letta ha i giorni contati e che alle urne ci si debba andare al più presto. Magari preparando il terreno della prossima campagna elettorale: Silvio Berlusconi ne ha già vinta una nel 2006 promettendo l’abolizione dell’Ici, perché dunque non puntare sull’Imu?
A Letta il disegno non deve essere sfuggito: sono giorni che in effetti si attende la convocazione della cabina di regia che avrebbe dovuto portare all’accordo politico sull’Imu. Fassina qualche giorno fa aveva promesso che si sarebbe svolta prima della pausa estiva. Ma siamo già quasi a Ferragosto e niente è successo. Nel frattempo il governo ha però portato a casa il decreto Fare e quello Lavoro, e oggi anche alcune accidentate nomine in società pubbliche.
La strategia del rinvio, elaborata da Letta per evitare scontri, ieri è stata intercettata da quella parte del Pdl che ogni giorno gli scontri li cerca, e che non vorrebbe aspettare per fare cadere il governo. Ieri Brunetta è stato durissimo: «E’ ormai il tempo delle proposte: chiare politicamente, responsabili finanziariamente e utili per l’economia del nostro Paese. Ci auguriamo che arrivino quanto prima». E, quanto alla relazione di Saccomanni, «apprezziamo molto le 105 pagine. Certamente un ottimo lavoro da ufficio studi, delle cui valutazioni di natura quantitativa e qualitativa terremo assolutamente conto...». Dichiarazioni che avrebbero potuto passare per la sfuriata giornaliera di un Brunetta sempre molto critico nei confronti del ministro, se non fossero state seguite da quelle di Renato Schifani.
Letta ieri ha provato a sminare il terreno, ad esempio facendo sapere che la pubblicazione del dossier ieri non era un atto provocatorio nei confronti del Pdl, ma «un esercizio di trasparenza», e assicurando che la decisione sull’Imu sarà presa entro il mese. Troppo tardi: l’Imu da ieri è uscita definitivamente dal dossier tecnico per diventare il titolo di copertina di quello politico.
Antonella Baccaro

PEZZO DI RIZZO SUL CORRIERE DI STAMATTINA

«L’Italia è il Paese che amo…» erano le prime parole che Silvio Berlusconi pronunciava nel videomessaggio registrato che il pomeriggio del 26 gennaio 1994 annunciava la sua «discesa in campo». Nello stesso Paese, in quelle stesse ore, mentre in Parlamento suonava la campanella del «liberi tutti», sulla Gazzetta Ufficiale compariva una leggina di dieci righe, approvata dal Parlamento il giorno prima a tempo di record e a tempo di record pubblicata. Si sparse subito la voce che era stata fatta apposta per Biagio Agnes, l’ex direttore generale della Rai che da qualche anno aveva traslocato alla Stet, la finanziaria telefonica pubblica. Non era una malignità infondata. Quella leggina favoriva il passaggio al fondo dei telefonici presso l’Inps di chi godeva già di una pensione di una gestione diversa, magari di un altro fondo dello stesso istituto di previdenza. Fu così che Biagio Agnes, pensionato dal 1983, riuscì a decuplicare il suo assegno: da 4 milioni di lire a 40 milioni 493.164 lire al mese. Decorrenza, marzo 1994. Un mese dopo l’approvazione della legge.
La cosa non passa inosservata. I Cobas del pubblico impiego diramano un comunicato al fulmicotone, rivelando che la ricongiunzione costerà alla Stet, cioè allo Stato (nel 1994 i telefoni sono ancora pubblici) e ai risparmiatori che hanno comprato il titolo in borsa, qualcosa come 5,8 miliardi di lire. Oggi sarebbero più di quattro milioni e mezzo di euro.
Qualche giorno dopo che quelle dieci righe hanno tagliato in Senato l’ultimo traguardo, Dino Vaiano spiega sul Corriere com’è andata. Cominciando dagli autori. Il primo a correre in soccorso dell’irpino Agnes è il lucano Romualdo Coviello, deputato di Avigliano, in provincia di Potenza. Democristiano di sinistra come Biagione, non tradirà mai la causa. Dalla Dc ai popolari, alla Margherita. Racconta Vaiano: «Sono giorni caldi, le commissioni lavorano come slot machine, strizzando l’occhio alle lobby e alle categorie che potrebbero garantire voti. Le leggi decollano, fedeli all’equazione degli anni ruggenti della partitocrazia: spesa pubblica uguale voti. Perfino gli attenti funzionari parlamentari ammettono di non averci capito quasi nulla. Ma la rapidità è da record. La leggina sulle pensioni d’oro corre come Speedy Gonzales…»
Il primato di velocità è tuttora imbattuto. Non così l’assegno. Abbiamo infatti scoperto che nel 2013 c’è chi, l’ex manager della Telecom inventore della «carta prepagata» Mauro Sentinelli, porta a casa 91.337 euro al mese. Il triplo di quanto varrebbe oggi la pensione di Agnes, che allora sembrava stratosferica. E il doppio di quella, addirittura extraterrestre, cui ha diritto dal 1999, quando aveva 55 anni, il suo ex capo Vito Gamberale: partiva da 75 milioni e 600 mila lire al mese.
La leggina di cui stiamo parlando, in realtà, non fece che aggiungere un altro privilegio a quello monumentale già riservato al fondo Inps dei telefonici. Al quale non si applicava il tetto massimo dei 200 milioni di lire l’anno. La ragione? Semplice: nessuno dei dipendenti arrivava a quella cifra. Soltanto che a quel fondo si erano iscritti anche i manager. Tutti, anche se in teoria avrebbero dovuto versare i contributi all’Inpdai. Ma dato che all’Istituto previdenziale dei dirigenti d’azienda alle pensioni d’oro era in vigore appunto quel limite, avevano evidentemente preferito confondersi con gli operai e gli impiegati nel fondo dei telefonici. E quando gli stipendi hanno cominciato a lievitare come la panna montata, l’ondata di piena è stata terrificante. Anche perché le regole del contributivo garantivano pensioni praticamente identiche all’ultimo stipendio. Il capo della Sip Paolo Benzoni andò via con 39,2 milioni di lire al mese. Ernesto Pascale con 42. Francesco Chirichigno con 36. Umberto Silvestri con 38,5. Francesco Silvano con 37,3. L’elenco delle superpensioni telefoniche è sterminato, ed è arrivato fino a noi. Senza offrire risposta alla domanda più banale: perché in tanti anni non sono mai state cambiate le regole? Difficile dire.
Certo, però, nel Bengodi pensionistico made in Italy i telefonici sono sempre stati in buona compagnia. Tetto o non tetto. Basterebbe ricordare i sontuosi trattamenti previdenziali dei dirigenti dell’Enel, che potevano aggirare il limite dei 200 milioni annui grazie a un faraonico fondo integrativo aziendale pagato dagli utenti con le bollette. Memorabili alcune pensioni, come quelle dei due direttori generali che si sono succeduti prima della trasformazione in spa, Alberto Negroni e Alfonso Limbruno, che si ritirarono entrambi con assegni da 37 milioni (di lire) al mese.
Somme certamente enormi. Che fanno però sorridere al confronto di certe pensioni garantite, secondo regole che nessuno ha mai voluto mettere davvero in discussione, dallo Stato. L’ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini, ex sottosegretario alla presidenza con Mario Monti, ha dichiarato di percepire una pensione di 519 mila euro lordi l’anno. Somma alla quale si deve aggiungere ora lo stipendio da Consigliere di stato. Perché le pensioni d’oro, da noi, hanno una particolarità: spesso chi le incassa continua a lavorare, talvolta ricoprendo incarichi pubblici altrettanto dorati.
Per non parlare di altre micidiali stravaganze. La nomina a capo dell’Agenzia siciliana dei rifiuti, l’avvocato Felice Crosta, dirigente della Regione, fu accompagnata da un emendamento approvato anch’esso in un baleno dall’assemblea regionale grazie al quale gli venne riconosciuta di lì a poco una pensione di 460 mila euro. Dopo un’estenuante battaglia legale quell’assurdità è stata cancellata. Ma la storia la dice lunga su come funziona ancora l’Italia: tutto sommato, non è poi così diversa da quella della leggina che favorì Agnes e forse pochi altri.
Ed è per questo che nel Paese dove le persone normali la pensione se la sognano, mentre le pensioni d’oro si accompagnano di regola a una retribuzione sontuosa, sarebbe forse il caso di prenderla seriamente in considerazione, la proposta avanzata da Bruno Tabacci, Angelo Rughetti, Andrea Romano e Fabio Melilli in una lettera al Corriere: i pensionati d’oro che intascano stipendi (pubblici) d’oro scelgano fra la pensione e lo stipendio. È una richiesta così scandalosa?
Sergio Rizzo

FEDERICO DE ROSA SULLA PENSIONE DI SENTINELLI
È la rendita di una lunga e fortunata carriera iniziata nel 1974 alla Sip e terminata nel 2004 con i gradi di direttore generale di Telecom Italia. Grazie ai contributi versati e alle generose regole di calcolo dell’ex fondo pensione telefonici (poi confluito nell’Inps), Mauro Sentinelli è riuscito ad assicurarsi per tutta la vita l’ultimo stipendio. Percepiva circa 1 milione di euro da direttore generale (esclusi benefit, bonus e stock option) e oggi incassa grosso modo lo stesso. In realtà da Telecom ha ricevuto molto di più: 3,7 milioni nel 2003 e 4,2 milioni l’ultimo anno, escluso il patto di non concorrenza per il quale si dice abbia percepito circa 5 milioni. Pagati extra dall’azienda perché non passasse con il nemico. Più che giustificato. Laurea in Ingegneria elettronica, master al Politecnico di Torino, Mba all’Insead e alla Kellogg University — simpatie per i socialisti, ma nel curriculum non c’è —, dieci anni fa in Italia nessuno sapeva di telefonia quanto Sentinelli. È stato uno dei padri del Gsm. Ancora oggi ha un posto nel consiglio di Telecom (190 mila euro l’anno). Romano, due figli, una passione per la campagna toscana — ha casa con vigneto a Montepulciano — Sentinelli è l’inventore della carta prepagata, con cui Tim ha guadagnato miliardi. Si racconta che l’idea gli venne prima di una vacanza della figlia negli Usa. Cercava un modo per limitarle la bolletta. Un successo mondiale. Che in Tim gli creò però qualche nemico. Il suo capo di allora, Vito Gamberale (altro pensionato d’oro), lo spedì negli Usa a seguire il progetto Iridium, il telefono satellitare, con Motorola. Si farà notare anche lì. La rivincita arriverà due anni dopo, nel 1999, quando Roberto Colaninno lo richiama in Tim a fianco di Marco De Benedetti. Resterà anche con Marco Tronchetti Provera, ma per poco. Il tempo di vedere sparire Tim dentro Telecom, con una fusione guidata da una logica industriale, ma che rispondeva soprattutto a esigenze finanziarie. Sentinelli lasciò il giorno dopo. A 57 anni. Con una liquidazione milionaria. E 91 mila euro al mese per sempre. Forse.
Federico De Rosa