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 2013  agosto 09 Venerdì calendario

CARLO, UN PICCOLO PRINCIPE CHE CI HA MESSO UNA VITA PER NON ESSERE BACIATO DALLA FORTUNA


Si fece la mezza. Stop, pausa. La troupe spense microfoni e riflettori. Chi si stirò i muscoli, contratti da una mattinata di riprese. Chi si buttò sulle poltrone, una certa fame. Nel palazzo dei Windsor, si stava girando una lunga intervista a Sua altezza Charles Arthur Philip e l’ora autorizzava ad aspettarsi da mangiare. Magari non un pranzo da re, trattandosi del principe ereditario, ma che almeno arrivasse qualcosa dalle sterminate cucine del castello. L’attesa della pappa reale fu lunga. C’erano un sacco di buon cibo e di camerieri, là dentro, ma nessuno che si degnasse di servire un cestino. I cameraman cominciarono a innervosirsi. Il regista, a brontolare. Finché Alistair Cooke, il giornalista, non osò chiedere spiegazioni a un valletto. Sentendosi rispondere, I’m so sorry, che in quel bel castello solo la Regina Elisabetta aveva il potere d’ordinare qualcosa, qualsiasi cosa, al personale. E che invece a Carlo Principe di Galles, Duca di Cornovaglia, Conte di Carrick, Barone di Renfren, Signore delle Isole, Duca di Rothesay, Gran Camerlengo di Scozia, futuro monarca del Regno Unito e di sedici Stati del Commonwealth, Canada e Australia compresi, gratificato di sedici titoli che includono pure l’Ordine del Bagno e l’Ordine della Giarrettiera, all’intervistato non era riconosciuto nemmeno il diritto di comandare il cuoco: « Se proprio volete, possiamo farvi portare dei sandwich di pollo da un chiosco qui vicino…».

Last call. Dio sazi la regina. A Londra c’è un uomo digiuno di vero potere che vorrebbe farsi re d’un reame che dura suppergiù da 1.200 anni e una decina di dinastie. Chissà se lo sarà mai. «Un ritardato», lo definì una volta il feroce Sunday Mirror. «Un disastro senza speranza», diceva di lui la prima moglie Diana Spencer, Lady D, riferendo il parere della suocera. Di sicuro un ritardatario disastrato dagli scandali, logorato prima dall’impopolarità e poi dall’indifferenza dei sudditi, ormai così incanutito nella passione per gli acquerelli e per le filosofie orientali, l’ascolto di Wagner e il piacere del brandy, da farsene quasi una ragione. Carlo aspetta la corona da 61 anni. E con una nonna che visse fino a 101, con una mamma che per durata è seconda solo a Rama IX di Thailandia e rimane «un bastione in un’epoca di sconvolgimenti morali e sociali» (parole dello storico John Grigg), con un figlio che l’annulla in popolarità, col nipotino ultimo arrivato che ora gli gattona sotto il trono, l’erede reale più longevo della storia britannica è diventato l’aspirante per sempre. Il simbolo d’una generazione esodata e perciò incapace di grandi leadership. La mammola ornamentale che non viene mai colta. Quando nacque, neanche fosse il Re dei re, lo battezzarono con l’acqua del Giordano e colorarono di blu le fontane di Trafalgar Square. Oggi, Carlo tira a campare nella palude dei re travicelli, bersagliato di tanto in tanto da quel po’ di discredito che non gli è mai stato risparmiato. L’ultima sassata dal Parlamento, qualche giorno fa: l’imbarazzante accusa d’aver goduto d’un “privilegio medievale” e d’essersi comportato come una qualsiasi multinazionale yankee, insomma di non aver pagato le tasse sull’antica rendita trecentesca della Cornovaglia, dove l’erede possiede 540 chilometri quadrati di terreni, varie aziende, alberghi, supermercati, un patrimonio da 880 milioni di euro.

Rospo forever. Fit to run United Kingdom? Quest’uomo è adatto a regnare? Principe di Galles e di gaffes, Carlo ci ha messo un’intera vita a non essere baciato dalla fortuna e a non trasformarsi nel principe del popolo che tutti s’aspettavano. Per la transizione che presto o tardi bisognerà affrontare, l’Economist lo vede in ogni caso come «l’uomo che sarà utile». La maggioranza degli inglesi (76 per cento) vorrebbe abdicasse, quel che fece Edoardo VIII nel 1936, e preferirebbe dare la corona direttamente al primogenito William, pur di non vedere lui sul trono. Perché le biografie malevole descrivono il Principe sempre con gli stessi aggettivi – introverso, insicuro, permaloso, sarcastico – e citando i medesimi episodi. Quella volta che non gli bastò dire no a una segretaria che voleva far carriera: le spiegò pure che la colpa era della scuola e della famiglia, perché le avevano nascosto d’essere una fallita. Quella vacanza in Toscana con incontro stampa sul panfilo reale, dove a ditino alzato corresse pubblicamente l’inglese d’una giornalista che aveva detto “on the boat”: «Si dice “in the boat”, signora…». E quel soldato con la giovane moglie che gli confidavano a cuore aperto la difficoltà d’avere figli, «incrociamo sempre le dita», liquidati con una battutaccia: «Non v’ha spiegato nessuno che non è incrociando le dita che si fanno i bambini?». Too bad to be true, troppa cattiva stampa. In realtà nelle monarchie, che molti non capiscono per quale motivo debbano ancora esistere e costare, la sostanza è tutta nello stile, nel fascino globale che possono trasmettere. Conta come s’esercita un potere, non il perché. E in questo lo stile di vita di Carlo è stato un perfetto specchio delle debolezze, dei compromessi, delle virtù borghesi di fine Novecento: adultero, divorziato, religioso eppure costretto a risposarsi con rito civile recitando l’atto di penitenza «per i nostri peccati», e poi l’infanzia infelice, le crudeltà matrimoniali, la fatica del padre vedovo, le tribolazioni per il figliolo Harry che quando non si traveste da nazista si denuda e s’ubriaca… Le comari di Windsor, più pettegole che allegre, tagliano e cuciono da una vita. E molta stoffa, non sempre di prima scelta, ce l’hanno messa i tabloid dell’arcinemico magnate Rupert Murdoch, australiano e perdipiù repubblicano: «Quando nel ’69 comprò il Sun», spiega Sinead Fitzgibbon, blogger esperta di corte, «Murdoch cambiò la stampa inglese e diede ai suoi un mandato: vivisezionare la Royal Family come qualsiasi altro potere. Carlo fu la vittima predestinata. E il lavoro è stato eseguito alla perfezione». Trent’anni di paparazzi e titoli senza sconti. Querele e censure. Intercettazioni, memoriali, satira. Ricatti, anche. Una rappresentazione spesso vera, talvolta caricaturale, di solito ingenerosa. Chi conosce Carlo, e l’allure regale, non si spiega tanta acidità: «Un giorno», racconta lo stilista fiorentino Ermanno Scervino, «il principe vide alla Cnn un servizio su un mio ricamificio nell’oasi di Siwa, in Egitto, e mi fece contattare dall’ambasciata: voleva visitarlo con Camilla. Laggiù, noi diamo lavoro a 400 ragazze berbere, bravissime nel ricamo, spesso non sposate, un modello per l’economia locale. Carlo ne era rimasto colpito. Due mesi di preparativi, misure di sicurezza che al telefono c’imponevano di non fare nemmeno il suo nome: dovevamo chiamarlo solo “lui”. Alla fine, venne per tre giorni. E devo dire che raramente ho visto una coppia tanto garbata, educata. Con le premure vere di chi sta insieme per amore: lui che non la perdeva mai d’occhio, anche se era seduta lontana, e scattava per aiutarla ad alzarsi dalla sedia; lei che in mezzo al deserto s’ostinava a tenere le calze, per non venir meno ai suoi doveri. Andavano a cavallo, si sentivano vicini. Aristocratici, in tutti i sensi».

Fumo di Londra. Da vicino o da lontano, re nudo a modo suo. Nobile e ignobile. Sangue blu e sanguinaccio. The King’s two bodies, per citare lo studioso dei re Ernst Kantorowicz, due corpi diversi in un solo sovrano. Venuto al mondo – e già questo è il segno del comando o del cadetto, nell’infanzia d’un capo – con un cognome non suo: furono Churchill e una complicata ragion di Stato a imporgli Windsor, quello della mamma. E pure con un nome che non può appartenergli: Carlo I finì decapitato, Carlo II ebbe vita dissipata e dimenticabile, cosicché non potrà più esserci un re Carlo III, dicono gli esperti d’araldica, e nel caso sarà meglio trovare qualcosa di meglio. Erede mal destinato, Carlo, bastava guardarlo da piccolo: è cresciuto con le tate, fu quasi tolto alla madre dai sei mesi ai tre anni e poi ancora dai cinque agli otto, secondo una regola di corte che imponeva a Elisabetta di viaggiare.
S’è nutrito del sarcasmo di papà Filippo che s’autodefiniva «semplice donatore di seme» («io, un Mountbatten, sono l’unico uomo inglese che non può trasmettere il cognome!»), considerava quel primogenito la fine del suo amore coniugale, non mancava di rinfacciargli la timidezza e la scarsa mascolinità («tua sorella Anna è molto più re di te!»). Primo rampollo reale mandato all’asilo con altri bambini, narrano tornasse a casa sempre col mal di pancia, poco abituato com’era ai cibi plebei. E quando i compagni ricevevano giocattoli in regalo, lui poteva averne, ma più piccoli e meno costosi, per non ingenerare invidia. Durante una gita a Sandringham, al piccolo Carlo capitò di perdere il guinzaglio d’un cane: mamma Elisabetta, detta in casa Lilibeth, già famosa per avere impiegato un intero battaglione militare nella ricerca d’un orologio smarrito mentre cavalcava, lo mandò a ritrovarlo nei boschi perché, «figliolo, i guinzagli costano soldi!». L’infelicità vera fu la Gordonstown High School, in Scozia, dove si dormiva a finestre aperte in camerate di quattordici e, ovvio, era lui il bersaglio di botte e sfottò. Soffriva il mal di mare? Gradi di capitano, fu spedito su un cacciatorpediniere nelle burrasche del Baltico. Studiava sodo per diventare governatore generale d’Australia? Nemmeno quello gli fu concesso: da Canberra dissero che la carica doveva andare a un australiano, e lui si ritirò amareggiato. Anche l’unico affetto familiare, il prozio Lord Mountbatten, lo lasciò orfano e disperato: «La mia vita non sarà più la stessa», annotò Carlo quando l’ex viceré delle Indie fu assassinato dall’Ira, «per me lui è stato un nonno, un padre, un fratello, un amico». Qualche allegra complicità gli rimase solo con zia Maggie, la madrina, la matta di famiglia: durante le noiose parate ufficiali, tutta la Royal Family schierata al balcone, Carlo spesso le si metteva davanti per proteggerla dalle telecamere e, di nascosto, permetterle di fumare. «Da giovane dovevo nuotare o affogare», avrebbe raccontato un giorno, «e pochi sembrano capirlo. Dovevo fare quelle “cose normali” e nessuno s’aspettava che, dopo averle fatte, rimanessi legato a ciò che amavo davvero».

Principe di cuori. Le donne, of course. L’unica cosa che fa parlare di lui. Principe di Galles e talvolta di gaffes, Carlo è naturalmente un conservatore e ama tranciare giudizi. Famose le sue lettere di richiamo che tanto irritavano Tony Blair, o la difesa della caccia alla volpe («se me l’impediranno, espatrierò nel mio chalet svizzero di Kloster e scierò a vita»). Ha fatto grandi sforzi per rovesciare Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe, e a un party si lasciò andare su Berlusconi («da noi, uno così non potrebbe mai diventare premier»). Ha attaccato multinazionali Ogm e case farmaceutiche, prendendosela pure con la lobby degli architetti britannici quando fu restaurata la National Gallery («un mostruoso brufolo»). Da quarant’anni è la più grande macchina benefica del Regno Unito, ogni anno va a meditare in un convento greco-ortodosso, sa d’arte e d’antropologia, di letteratura e di psicoanalisi junghiana, presiede un centro di studi islamici ed è ambasciatore per il dialogo interreligioso, è patrono di 400 organizzazioni umanitarie, il suo Prince’s Trust assiste migliaia di disoccupati, credeva nell’agricoltura biologica quando tutti gli davano del pazzo, guida Aston Martin a etanolo, rinuncia ai jet per non inquinare… Eppure, che cosa si ricorda sempre e soltanto di Carlo? Diana, Camilla e le altre.
Le altre no, anzi. Amanda che lo rifiutò come sposo, l’attrice Susan George, la principessa Maria Astrid del Lussemburgo, Sarah che era la sorella maggiore di Lady D, e poi Lucia, Anna, Helga, Janet, Sabrina… Tutte spazzate via da quell’irripetibile feuilleton del Camillagate, con l’amore segreto e parallelo nato nelle stalle di Ascot e portato alle stelle d’un matrimonium ad morganaticum (Diana un giorno incontrò la rivale: «So tutto di voi». E l’altra: «Hai tutto, che altro vuoi?»). Col principe Filippo che continuava a non capire quel figlio («ma come fai a preferire Camilla?»), col dovere codificato di far l’amore almeno una volta ogni 20 giorni, con l’invidia per la popolarità di Lady D. E tutte quelle telefonate pubblicate dai tabloid, «vorrei essere il tuo tampax», «strizzolina ti amo». E l’Annus Horribilis, la guerra delle interviste, William che nei corridoi del palazzo inseguiva papà, «ti odio, perché fai sempre piangere la mamma?», Harry che somigliava troppo all’amante stalliere e quasi non fu preso in braccio («ha pure i capelli rossi!», urlò il Principe, scappando dall’ospedale). E la principessa triste, passata dalle prime nozze mondovisione a una visione da bulimica depressa («Carlo ha reso la mia vita una vera tortura»), la separazione, i risicati alimenti da 600mila dollari l’anno, Dodi e l’estate assassina nel tunnel dell’Alma, i misteri dello schianto a 200 all’ora, il lutto mondiale, Elisabetta quasi in fuga a Balmoral, Camilla che si beve la vodka prima d’essere introdotta a corte…
Stop, pausa. Polvere di memorie. Oggi Diana riposa in pace e Carlo sembra pacificato, vicino all’unica complice d’una vita. Un giorno gli hanno chiesto: Sua altezza, è innamorato? «Qualunque cosa significhi essere innamorato…», ha risposto al solito, ironico. E Camilla? «Siamo una coppia che s’è sposata alla mezz’età». «Per le sue vicende sentimentali, Carlo è stato il principale obbiettivo della pubblica rabbia», dice la biografa Jessica Jayne, «ma questo almeno gli è servito a due cose: da vedovo è diventato un padre migliore, liberato da una moglie che sentiva estranea, e con l’età ha capito finalmente l’importanza d’esporsi in modo genuino, parlando alla vita della gente. Proprio come faceva Diana».

Principe di denari. Se Lady D è diventata un’icona pop del Novecento, lui ci ha messo l’oro per dipingerla. Il principe non ha mai disdegnato la vil pecunia. Ben sapendo che l’eredità non consiste esclusivamente nel conquistare lo scettro dell’unica monarchia ammessa al G8 e al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma pure in un tesoro familiare, il più ricco del mondo, che conta nove miliardi d’euro, otto residenze reali, 500 dipendenti solo a Buckingham Palace, parchi e ippodromi, miniere d’oro e d’argento, i mari della Gran Bretagna fino a 12 miglia dalla costa, 145mila ettari di terreni, interi isolati a Regent Street, una collezione di 47mila dipinti (Leonardo, Raffaello, Canaletto…) e chilometri di libri antichi, yacht e scuderie, le collezioni d’auto e di gioielli più grandi del mondo… «Lavora un giorno e mezzo alla settimana», scrisse di lui la stampa inglese, «e in quel giorno e mezzo guadagna per un anno». Non è del tutto vero: nessuno dei Windsor trotta così tanto e, più di 660 volte all’anno, Carlo rappresenta nelle occasioni ufficiali The Firm, l’azienda, come nonno Giorgio chiamava la Royal Family. È indubbio, questo sì, che se la passi bene. Impietoso fu l’Independent, nel raccontarne la giornata tipo: tra Highgrove e Clarence House, Carlo ha 85 servitori, quattro valletti, quattro cuochi, dieci giardinieri; quand’è in trasferta, solo il suo staff occupa sette suite d’albergo. Non si sveglia mai prima delle 9, per indossare una vestaglia di seta ricamata Turnbull&Asser, alternare bagno caldo a doccia gelata, bere un succo d’arancia, farsi spalmare con una speciale paletta d’oro il dentifricio sullo spazzolino da uno dei tre maggiordomi, trovare preparati gli abiti di Savile Row, le camicie su misura, le scarpe fatte a mano… I paparazzi giurano che con l’età sia diventato molto parsimonioso, o taccagno, e ultimamente lo fotografano perfino con le giacche rattoppate. Raccontano che a un party Sua altezza incontrò Francis King, il romanziere, e gli guardò le scarpe con invidia: le avevano uguali, ma l’altro le aveva pagate un terzo a una svendita di Russell&Bromley.

Viva il non Re. «Carlo è una delle migliori ragioni per diventare repubblicani», ha sentenziato una volta un deputato, nonostante un giornale di sinistra come il Guardian abbia riconosciuto che «il Regno Unito non è per la rivoluzione dai tempi di Oliver Cromwell» e che, «diciamolo chiaramente, l’elezione d’un presidente della Repubblica magari costerebbe meno, ma di sicuro renderebbe molto meno». Gli Edinburghs pesano sull’erario per un miliardo l’anno, ma da soli attirano a Londra almeno 30 milioni di turisti. Il Giubileo di Diamante è stato un imprevisto successo di tazze coi ritratti d’Elisabetta e paccottiglia stravenduta a Piccadilly. Business e incanto, questa monarchia, come ammise Obama assistendo alle ultime nozze reali. La stessa Lady D, quando ricevette l’anello di fidanzamento e contemporaneamente scoprì di condividerlo con l’altra, pure lei si sentì dire dalla sorella Jane che «non si può tornare indietro, ormai la tua faccia è su tutte le tovaglie da tè». Diceva De Gaulle: noi francesi ghigliottinammo il nostro re, però stendiamo i tappeti rossi ogni volta che vediamo una testa coronata. «La monarchia resta un totem e i repubblicani nel Regno Unito sono guardati un po’ come quelli che vogliono introdurre l’esperanto», osserva lo storico Andrew Roberts: «Ci sarà un motivo se ottanta milioni d’americani, nel 2011, si sono alzati all’alba per vedere in tv il matrimonio di William con Kate, mentre non l’avrebbero mai fatto per quello d’un principe belga o danese. Nel 2002, ad Amsterdam, la cerimonia di Willem Alexander con un’avvenente donna argentina fu trasmessa solo in Olanda. E quando Felipe di Spagna andò all’altare, due anni dopo, lo seguirono solo gli ispanici. Le nozze di William hanno avuto due miliardi di telespettatori in ottanta Paesi. E sono costate cinque milioni di sterline, contro i dieci miliardi delle Olimpiadi di Londra». Perché tanto interesse? Il Commonwealth e l’inglese lingua universale, certo. E poi le cose che affascinano sempre: la continuità del potere, la magia del cerimoniale, gli scandali. «Non dimenticate il nostro sense of humour», disse una volta Carlo: «Ci ha messo in un sacco di guai, ma ci ha sempre aiutato a uscirne».
Francesco Battistini