Roberto Di Caro, l’Espresso 9/8/2013, 9 agosto 2013
VIOLANTE D’AMORE
Che un uomo fatichi, se vuole che una donna lo desideri: «Sarà che non sono mai stata una predatrice, ma non mi piace l’uomo che si lascia scegliere, imbambolato in attesa che una donna lo prenda all’amo. E quanti ce ne sono, ormai, di bambocci così». Da piccola Violante Placido voleva fare l’attrice e la cantante, come Marilyn Monroe, sua icona assoluta. Ma anche l’etologa, come la Dian Fossey di "Gorilla nella nebbia". E l’olimpionica, lei che da amazzone gareggiava nel salto a ostacoli. Quand’era Moana, nella fiction Sky del 2009, s’era calata nella parte al punto da non sapere più bene chi era. In musica, anche "Sheepwolf", il suo secondo cd in uscita a settembre, e il clip d’anteprima "Precipitazioni", non li firma Violante Placido ma Viola. Qualche impiccio con l’identità, lei che da ragazza amava Freud? Non ci casca, sorride, si aggiusta l’abitino, candidamente risponde: «Che vuole, ogni tanto ci si perde di vista. E comunque non mi va di restare bloccata in un’idea di me. A volte sono gli altri a incastrarti in un ruolo, un’etichetta, ma spesso sei tu che ti crei troppi limiti». Eccola, Violante, in Sardegna col suo compagno, il regista Massimiliano D’Epiro: ironica, divertente, accorta quando sospetta che una domanda sia una trappola, e allora tace, ci pensa, sfuma, rintuzza. Ogni tanto si ferma invece perché il bimbo scalcia: è il primo figlio, è maschio, nascerà a ottobre.
Violante, quando "si perde di vista" che fa?
«Tocca farmi un check up e chiedermi a che punto sono e che cosa sto cercando. In effetti sono un po’ selvatica. Mi piace essere in contatto con il mio istinto, con la parte bambina e inconsapevole di me».
Lei ogni tanto dichiara che i forti contrasti la fanno sentire viva. È anche la sua dinamica del desiderio?
«No. O almeno non più. Li ho vissuti, quei rapporti fatti di violenti contrasti e appassionate riappacificazioni. Non mi interessano più, non ne ho più bisogno, è molto più stimolante la complicità, crescere insieme, aver voglia di guardare dentro l’altro. Ora, poi, col bambino sto per vivere l’avventura più affascinante e sconvolgente della vita di una persona».
Allora a cosa si riferisce quando dice di amare i forti contrasti?
«Intanto al lavoro dell’attrice. Alla costruzione di un personaggio nelle sue mille sfaccettature».
Dei ruoli che ha interpretato qual è stato il più pieno e contrastato?
«Devo dire che è stata proprio Moana. In "Guerra e pace" ero la principessa Elena Kuragina, spietata seduttrice, in "Che ne sarà di noi" la carnefice bella e sensuale che faceva soffrire il povero Muccino, ma non c’era indagine su come e perché erano diventate ciò che erano».
Moana, invece?
«Era un biopic, un viaggio nell’anima di una donna vera. Forte, sicura di sé, in grado di gestire le situazioni più complicate, ma anche estremamente fragile. Tutta esposta, lei stessa diceva "sono come mi mostro al pubblico", eppure con zone di sé intime e private di cui era gelosissima. Per recitarla, ho cercato davvero di diventare lei».
È il lavoro dell’attore, da Stanislavskij in poi...
«Sì, ma c’era un meticoloso trasformismo anche fisico. Lei era fissata sull’aspetto estetico e la cura del corpo, per entrare nel personaggio mi sono dovuta fissare un po’ anch’io: i dettagli, i costumi, il cambio di smalto per ogni scena, l’anello, l’orecchino, la scarpa... Nella mia vita di tutti i giorni sono più rilassata, quasi pigra. Ma quando giravo, dalle 6 di mattina alle 8 di sera, mi ero così immedesimata che per due mesi e mezzo mi sono vista solo così. E anche dopo, per un po’, non sapevo più come vestirmi, mi chiedevo "e adesso chi sono, io?". Ho avuto un momento di confusione: avevo vissuto un po’ come lei e qualcosa mi era rimasto addosso».
Una battuta di lei-Moana diceva: «Io mi guardo con gli occhi degli altri. E mi piace così». Vale anche per lei?
«In realtà non mi piace sentirmi gli occhi addosso, per pudore mi giro dall’altra parte, il red carpet mi imbarazza».
Intendevo il riconoscimento di sé attraverso il gioco dello sguardo altrui.
«Non mi piace neppure assecondare troppo le aspettative degli altri. In tutto. Pensi alla musica: a me viene facile la melodia, ma se a un pezzo già melodioso aggiungi gli archi diventa banale, piatto. Serve invece introdurre un elemento che rompa lo schema, senza per questo distruggere l’unità del brano. Lo stesso nel rapporto con un uomo. Stuzzicarsi va bene, assecondarsi troppo non va bene neppure con se stessi, figuriamoci con gli altri».
In compenso, sullo schermo non c’è un solo topos della letteratura erotica che lei non abbia interpretato.
«Esagerato!»
Clara della casa d’appuntamenti in "The American", con George Clooney. La principessa Kuragina bella e immorale in "Guerra e pace". La mamma sexy del diavolo in "Ghostrider". La Fata Turchina nella fiction "Pinocchio".
«Come? pure la fatina!»
Scherza? L’infermiera in "Ginostra".
«Ma era solo una comparsata!»
Fa curriculum. La camerierina in "We will save the show", il videoclip appena uscito, regia del suo compagno Massimiliano. La sbarazzina protagonista degli ultimi spot per L’Oréal Paris. Mancano giusto la poliziotta e la suora.
«A essere pignoli, la Maria Pomorska di "Karol" era una quasi-suora. Certo, sei sempre un po’ nelle mani dei registi. Ma mi sento vicina a ruoli drammatici, e ho interpretato personaggi molto diversi dalla bella sensuale. Tipo la moglie borghese di "La cena per farli conoscere" di Pupi Avati, divisa tra un marito erotomane e un padre da accudire. O l’enigmatica protagonista di un episodio di "Tagli incrociati" di Rolando Stefanelli, cinema indipendente, che ho appena finito di girare».
Ha recitato anche in film di strada...
«A 22 anni due mesi e mezzo in Marocco, una storia d’amore e guerra di Souheil Ben-Barka, in quella pazzesca città di terra che è Ouarzazate. Quattr’anni fa in India un piccolo film neorealista: al termine andai qualche giorno nell’ashram di Osho, esoterismo e spiritualità sono stati sempre un mio interesse».
Ha recitato anche con suo padre Michele Placido come regista, in "Ovunque sei" e "Il cecchino". È vero che con lei non è stato mai autoritario, tranne che sul set?
«Vero. Ma neppure mi ha mai trattato da principessina. Mi ha temprato. Mi ricordo una vacanza in montagna quando avevo nove anni, quanti chilometri mi ha fatto fare, a piedi e in bicicletta! Non che potesse controllarmi gran che, in ogni caso: a 18 anni già vivevo per conto mio, a 15 me ne sono andata da sola a trovare il mio fidanzato, coperta da mia mamma che mi reggeva il gioco».
Simonetta Stefanelli, attrice anche lei.
«Sì, ma non recita più. Ha un negozio di borse e scarpe a Roma in via Chiana, Vivienne Westwood, avanguardia».
E che altro combinava da ragazza?
«Ero timida. A volte, anche a scuola, mi piaceva qualcuno, stavo lì ad aspettare la prima mossa, arrivava la cacciatrice di turno e se lo prendeva. Un disastro».
Ha cambiato idea o strategia?
«Neanche un po’. Non mi piace l’uomo che aspetta che tu lo prenda. Per me la seduzione è come una partita a poker».
Cioè calcolo e bluff?
«No, non in quel senso, anzi! Trovo allucinanti gli articoli che ti spiegano tutte le tecniche per sedurre un uomo. Magari sul momento seduci, ma tu, ti emozioni? Riesci a manipolare un’altra persona, ma non ti stai perdendo qualcosa? No, meno si bluffa e più sensuali si è. Sensuale è una voce, un odore, un cibo».
E allora in che senso la seduzione sarebbe una partita a poker?
«Perché la sessualità sia potente ci dev’essere lentezza. E imprevedibilità. Quando al di fuori di qualunque tattica o progetto ti ritrovi appiccicata a una persona. Io sono una a cui piacciono le sorprese. È di qui che viene il mio amore per la musica».
Sarebbe a dire?
«La musica è per me totale libertà. È mettere a nudo l’anima, infinitamente più sensuale che mostrare un corpo. È gioco. È sogno».
In Sheepwolf, il brano Dreams racconta di lei arrestata da poliziotti, spinta in macchina, ammanettata...
«Quello era un incubo. Che ho avuto, sì».
Non tipo "Cinquanta sfumature di grigio", che ha venduto più di Harry Potter?
«Non saprei, non l’ho letto. Ma si sa, il sesso fa girare il mondo».
Altro brano: You poison me, you say you love me. Chi mai l’ha avvelenata col suo amore?
«Ah, i pezzi sono stati scritti negli anni, e riflettono momenti diversi della mia vita. Talvolta l’amore è complicato. Fuorviante. Ci travolge. Proiettiamo su una persona ciò che forse non c’è».
In Systematic rules canta: I don’t belong, io non appartengo...
«Non è che non voglio appartenere. È che non ho mai sentito di appartenere. In realtà sarebbe un bisogno».
Il gioco del possesso?
«No, appartenere è un po’ diverso dall’essere posseduti. È una cosa più profonda, meno animale. È sentire di aver trovato il luogo giusto dove essere accolti, protetti, amati».
A questa nostra intervista segue un pezzo in cui sessuologi e psicologi mettono in guardia dalla "coppia fusionale", perché non c’è eros senza distanza.
«Un rischio che io e Massimiliano non corriamo: ci tocca partire anche quando vorremmo stare insieme. La complicità è facile quando ci ritroviamo».
Disquisiscono anche, i suddetti sessuologi, di pillole e chimica del desiderio femminile...
«Non ce ne sarebbe bisogno se gli uomini imparassero a essere amanti migliori. Se avessero meno paura di esplorare, scoprire, capire il piacere femminile».