Dave Itzkoff, l’Espresso 9/8/2013, 9 agosto 2013
WOODY E LE SUE DONNE
Come molti protagonisti dei film di Woody Allen, l’interprete principale della sua nuova pellicola intitolata "Blue Jasmine" di tanto in tanto si esprime con una balbuzie familiare e ostenta una paura esistenziale rivelatrice. Ma, al di là di questo, difficilmente potrebbe essere più diversa dal suo creatore.
Jasmine, una newyorchese decaduta interpretata da Cate Blanchett, conduce una vita molto mondana, ma all’improvviso si ritrova fragile dal punto di vista emotivo a causa delle molteplici delusioni ricevute da suo marito (Alec Baldwin), donnaiolo e disonesto truffatore finanziario. Dopo essersene andata a San Francisco per farsi una nuova vita, è ancora inconsapevole del disastro che l’ha privata del suo rango. Continua a essere ossessionata dal ceto sociale, dagli status symbol, dai marchi del lusso; e per dare prova del massimo snobismo sa come pronunciare correttamente "Louis Vuitton".
Malgrado le sue illusioni siano smontate poco alla volta nel corso di "Blue Jasmine" – una commedia drammatica scritta e diretta da Allen che Sony Pictures Classic ha proiettato di recente in anteprima a New York e Los Angeles e che sarà nei cinema italiani a dicembre –, lei è l’ultimo tipico personaggio femminile di una lunga serie.
Nell’arco di oltre 40 film realizzati da Allen, tra i quali "Io e Annie", "Hannah e le sue sorelle" e "Vicky Cristina Barcelona", le donne forti e indimenticabili sono diventate un segno distintivo dei suoi film tanto quanto l’illustre font Windsor dei titoli di testa e di coda. Si tratta sempre di donne che dominano e sono dominate, che lottano e amano, si lamentano e cadono a pezzi, ma di rado si adeguano agli stereotipi più superficiali. Jasmine sarà anche profondamente in crisi, ma quanto meno è una donna profonda.
Eppure, quasi niente collega tra loro questi personaggi – che sono stati interpretati da attrici quali Diane Keaton, Dianne Wiest, Scarlett Johansson e Penélope Cruz -, se si esclude il fatto che sono state tutte partorite dalla mente dello stesso regista, un uomo di cinema che dichiara esplicitamente di non avere idea alcuna di come fa a scrivere e creare i suoi personaggi femminili, e ciò nonostante è sempre fiducioso di sapere come continuare a farlo.
«La gente mi ha criticato, dandomi del narcisista», ha detto Allen in un pomeriggio di giugno, sorseggiando tè freddo al Bemelmans Bar del Carlyle Hotel. «La gente mi ha criticato rimproverandomi di essere un ebreo che si disprezza da solo. Ma ben di rado sono stato accusato di non essere capace di creare un buon personaggio femminile».
A Woody Allen potrà non fare piacere ricordarlo, ma i suoi film si sono anche attirati alcune accuse di sciovinismo e sessismo, da detrattori che hanno affermato che spesso ha raffigurato le donne come nevrotiche, bisbetiche e puttane. Questo coro ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, quando alcuni film aspri come "Mariti e mogli" e "Harry a pezzi" uscirono nelle sale proprio nel periodo della sua notoria rottura con Mia Farrow, sua co-protagonista in diversi film, che scoprì che lui aveva una relazione con la loro figlia adottiva Soon-Yi Previn, oggi signora Allen. Come scrisse il critico Steven Vineberg in un suo articolo del 1998 sul "Chronicle of Higher Education", «sempre più spesso "Woody" – il personaggio che Allen interpreta per il grande schermo – ha assunto lo spiacevole ruolo dell’apologeta di Woody, i problemi delle donne del quale sono ormai tanto noti quanto i suoi stessi film».
Malgrado tutto questo, Allen ha continuato a creare con costanza una serie corposa di ruoli femminili, spesso adatti a donne di fasce di età che a Hollywood non sono granché riconosciute (in pratica chiunque superi i 30 anni), e ora l’efficace interpretazione in "Blue Jasmine" di Cate Blanchett arriva nel bel mezzo di una stagione estiva cinematografica in buona parte priva di volti femminili.
Per le attrici delle generazioni successive, l’opportunità di lavorare in uno dei film di Woody Allen è equivalsa a una sorta di imprimatur della loro carriera. Per quanto riguarda Allen, la fase della sua carriera che iniziò con l’uscita nel 2005 di "Match point", lo vide scavare in personaggi femminili quanto mai lontani dalle sue esperienze di vita familiare, sempre più interessato a trovare e affermare il loro posto nel mondo. Scarlett Johansson, che ha recitato come protagonista in "Match point", "Scoop" e "Vicky Cristina Barcelona", in una email ha fatto sapere che Woody Allen «apprezza la versatilità della protagonista, la sua capacità di essere a uno stesso tempo cerbiatta e leonessa. La sua apertura nei confronti della possibilità che una donna possa essere sia cacciatrice sia cacciata gli consente di esplorare più in profondità tutta la complessità dell’animo femminile».
Allen oggi ha 77 anni. I capelli ramati di un tempo ormai sono per lo più grigi, e con il suo modo di comportarsi, più malinconico che malizioso, non riesce a rendere conto con immediatezza del motivo per il quale le donne compaiano in modo così prioritario nella sua opera. A esclusione del fatto che sicuramente lo interessano molto. «Sono attraenti, sono complesse, e gli uomini non sono mai stati raffigurati superiori a loro», dice. «Gli uomini in genere sono inferiori, perché stanno meno con i piedi per terra delle donne».
Ciò vale sicuramente per quella nullità che Allen spesso interpreta nei suoi stessi film. Quanti lo conoscono bene, tuttavia, assicurano che il regista non dovrebbe in alcun modo essere confuso con il suo goffo e ignaro alter ego. «Si tratta di una parte che gli è molto facile interpretare», dice Letty Aronson, sorella di Woody e produttrice di lunga data. «È come se interpretasse proprio quello che la gente si aspetta da lui. Di sicuro, nessuno si aspetta che interpreti un tipo alla Cary Grant».
In realtà, Woody Allen riconosce in pieno a Diane Keaton e alla loro relazione romantica iniziata negli anni Settanta tutto il merito di avergli spalancato gli occhi sulle grandi potenzialità dei personaggi femminili. Nei suoi primi film, dice Allen, «che si trattasse di "Il dittatore dello stato libero di Bananas" o di "Il dormiglione" o anche di "Provaci ancora Sam", ogni piccola sciocchezza era sempre vista dalla prospettiva maschile»: perfino "Io e Annie", che inizia con Alvy Singer che si rivolge direttamente al pubblico. «Quando però ho iniziato a uscire con Diane Keaton», racconta, «ho incominciato ad apprezzarla a tal punto, a livello personale e come attrice, che mi è venuto spontaneo cimentarmi a scrivere i testi dal punto di vista delle donne». Nei film successivi a "Io e Annie", dice, «è diventato sempre più facile scrivere da un’ottica femminile».
Per come ricorda le cose Diane Keaton, la loro relazione non fu tanto dissimile da quello che si racconta in "Io e Annie": Woody Allen divenne il suo compagno e il suo mentore, le prestò ascolto con grande attenzione e la introdusse all’analisi freudiana. «Mi lamentavo in continuazione di tutto e avevo sempre un’opinione molto bassa di me», dice Diane Keaton. «Avevo anche una notevole propensione al pianto e a preoccuparmi del fatto che non ero abbastanza brava. E lui venne in mio aiuto».
Non soltanto Allen le prestò grande attenzione, aggiunge, ma «si interessò anche alla mia famiglia, a mia madre, che era una donna meravigliosa e un personaggio molto complesso, e anche alle mie sorelle».
Il segno più tangibile del fatto che Allen le prestava attenzione e l’ascoltava davvero l’ebbe quando lesse la sceneggiatura che lui aveva scritto per "Io e Annie" (insieme a Marshall Brickman): le parole del suo personaggio assomigliavano proprio alle sue.
«Siamo tutti in grado di ascoltare e comprendere gli altri», dice Diane Keaton che per quella sua performance ha vinto l’Oscar, «ma non riusciamo facilmente a riprodurre e scrivere le parole altrui». Secondo lei Woody Allen, invece, «ci è riuscito: la sua Annie Hall si muove faticosamente, stenta a trovare le parole… è davvero notevole quello che lui ha fatto per me».
Negli anni trascorsi da allora, Allen ha avuto poche difficoltà a reclutare le attrici che voleva, riuscendo a scritturare star del calibro di Geraldine Page, Julia Roberts e Jude Davis, e in un certo senso contribuendo alla loro vittoria di un Oscar: Dianne Wiest lo ha vinto due volte, per "Hanna e le sue sorelle" e per "Pallottole su Broadway", Mira Sorvino per "La dea dell’amore" e Penélope Cruz per "Vicky Cristina Barcelona".
Semmai, l’abitudine di Woody Allen di pagare gli attori molto meno di quanto guadagnavano in altri film ha allontanato più uomini che donne. «Non abbiamo soldi, lo sanno tutti, e adesso pensano che sia una cosa divertente», dice Juliet Taylor, veterana responsabile del casting per Allen. «Ci sono persone che ci hanno detto che non avrebbero lavorato per una cifra inferiore al loro cachet abituale, e per lo più erano uomini, star del cinema americano». Ai tempi in cui era assistente del casting per "Il dittatore dello stato libero di Bananas", ricorda Taylor, «quando si presentava un’attrice era sempre il produttore a riceverla, perché Woody era troppo timido. Oggi molti dei suoi più cari amici sono donne. Woody è quel tipo di uomo col quale puoi veramente metterti tranquilla a sedere e chiacchierare al telefono per ore».
Tutto ciò non sta a indicare che le sue discepole abbiano mai ricevuto un trattamento di favore quando hanno lavorato per lui nei film successivi. Diane Keaton racconta che quando si ritrovò con Allen nel 1992 per "Misterioso omicidio a Manhattan" lui non esitò a chiederle di uscire dal set per litigare con lei su una scena girata poco prima. «Mi disse: "Quella scena non va bene". E io risposi: "Che cosa vuoi che faccia? Sono venuta apposta dalla California"». Dopo aver girato altre riprese di quella stessa scena, ricorda Keaton, Allen le disse: «Non va ancora bene». «Alla fine decise di tagliare quella scena», ricorda, «e grazie a Dio non mi licenziò!».
Allen afferma che i suoi personaggi femminili talvolta nascono dalle congetture che fa nella sua mente su come le donne potrebbero reagire a talune situazioni. «Ciò non significa che io le senta o ci pensi di continuo. Non è così». Nel caso di Jasmine, invece, il personaggio gli è stato ispirato da una signora di cui ha sentito parlare da sua moglie. Questa donna, dice Allen, «conduceva uno stile di vita molto elevato nell’Upper East Side. Poi ha avuto un tracollo improvviso e ha dovuto ridimensionare tutto in modo drastico. Se prima aveva conti aperti ovunque e una quantità di soldi illimitata a sua disposizione, poi si è ritrovata a fare acquisti nei negozi delle occasioni e addirittura a trovarsi un lavoro». Avendo capito che gli ingredienti di base della tragedia classica c’erano tutti, prosegue Allen, «se avessi trovato un modo per rappresentarli, il mio personaggio avrebbe potuto tranquillamente soddisfare tutti i requisiti delle tragedie greche».
Il personaggio di Jasmine potrebbe benissimo attirare qualche critica ad Allen per la sua visione del sesso femminile, e per il fatto che c’è qualcosa di antiquato nell’idea di una donna il cui mondo va completamente a pezzi quando perde i suoi soldi e il suo uomo. Ma Cate Blanchett dice di aver conosciuto persone proprio così. «A causa delle circostanze o della mancanza di fiducia, la loro identità viene come consumata dal partner. E prima che se ne accorgano, si ritrovano ad aver perso buona parte della loro autonomia, scelgono la sicurezza e sono disposte a tutta una serie di compromessi».
Anche se Cate Blanchett ha interpretato un’anima persa come questa calandosi nei panni di Blanche DuBois nella famosa produzione teatrale di "Un tram chiamato desiderio", dice che "Blue Jasmine" le ricorda in modo molto più immediato quando recitò da protagonista "en travesti" nel "Riccardo II" di Shakespeare: «Ho avuto quella stessa sensazione di perdere uno stato di grazia, di essere stata ingannata, di essere l’interfaccia tra il ruolo assegnato e quello nel quale volevo calarmi».
Avendo interpretato un personaggio dell’altro sesso anche nel film "Io non sono qui", Cate Blanchett dice di aver trovato in quell’esperienza la stessa libertà che Allen può aver provato scrivendo le parti per i suoi personaggi femminili. «Spesso, per mezzo di un personaggio dell’altro sesso, è possibile scrivere in modo molto più intimo riguardo alla propria prospettiva ed esperienza di vita», spiega.
Cate Blanchett dice di aver cercato di suggerire la stessa cosa ad Allen mentre lavorava a una scena per "Blue Jasmine". «Gli ho detto: "Tu come la faresti questa scena?". E lui mi ha risposto: "Beh, se fossi io a interpretarla…". Al che mi sono voltata verso di lui con una risata e gli ho detto: "Sai, avresti potuto benissimo interpretarla tu"». Allen ha fatto una pausa, ci ha pensato su «per un buon minuto e mezzo» e poi ha risposto: «No, sarebbe diventata troppo comica».
In fondo nel suo film "Il dormiglione", che voleva essere un rifacimento comico di "Un tram chiamato desiderio", Allen ha scritturato se stesso nella parte di Blanche DuBois e Diane Keaton come Stanley Kowalski. E ammette di aver spesso desiderato interpretare i personaggi femminili che lui stesso creava e che avevano il permesso di essere «emotivi, sarcastici e spumeggianti». «Ho sempre voluto interpretare quelle parti», dice. «Ho sempre sentito di poterle interpretare perché io stesso provo quel genere di emozioni».
Scarlett Johansson aggiunge che Allen ha in sé un lato femminile che non vede l’ora di uscire allo scoperto. «Io credo che Woody, in fondo, sarebbe stato immensamente felice se fosse nato come una diva classica dell’opera», dice. «Vive per quel genere di ostentazione drammatica, per il gossip, l’intrigo, quelle pene del cuore che sono quasi mutilanti e tutto quel genere di agitazione. A patto però che tutto questo accada a qualcun altro».
Woody Allen però ha malinconicamente accettato il suo ruolo di osservatore della vita delle donne più che quello di protagonista. Quando nel 1987 realizzò il suo film drammatico "Settembre", disse che avrebbe voluto interpretare il ruolo di madre intrepida e schietta che fu invece assegnato a Elain Stritch. Se avesse tenuto davvero per sé quella parte, spiega, «sarebbe diventata una commedia da una battuta sola. Il pubblico avrebbe riso alla mia entrata in scena, ma dopo cinque minuti sarebbe andato via».
Traduzione Anna Bissanti