Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  agosto 09 Venerdì calendario

COL NOME DEL PADRE


Vestita di nero come si conviene per un momento grave e drammatico, pallida, gli occhi cerchiati di azzurro, Marina prende finalmente la parola, dopo aver ascoltato tutti, la sera della condanna, a Palazzo Grazioli. E di nuovo, succede da un po’ di tempo, quando parla lei, Angelino Alfano si tende, Gianni Letta annuisce, lo zio Fedele Confalonieri, l’antico precettore, diventa rosso, si emoziona e a differenza di quello che ha fatto vent’anni prima con il padre, cioè metterlo in guardia dall’ingresso in politica, la sostiene, la spinge, è con lei. Come in una tragedia shakespeariana, non il Quirinale, non le larghe intese, a salvare il Padre può riuscire la Figlia, al suo fianco come non mai, e come nessuno, in un modo o nell’altro, a casa o su un palco. Aveva detto che sarebbe stata disposta a entrare in politica solo per un sacrificio estremo in una situazione estrema. Come la sentenza della Cassazione, stupefacente e inattesa nella real casa di Arcore e vissuta dal Cavaliere, al contrario di tutti, non come l’atto finale del suo scontro con la magistratura. Ma l’inizio del piano inclinato verso una serie di condanne in grado di travolgere il suo impero di aziende e di voti, che poi, nonostante blind trust, leggi ad personam, giuramenti sulle teste di figli e zie suore, continuano a essere la stessa cosa. L’Eredità, insomma. Del partito, delle societa, del ricchissimo giacimento elettorale.
Politicamente, lui è ancora vivo. Domenica scorsa 5 agosto, il Colle, Palazzo Chigi e tutti i leader dei partiti erano appesi al filo delle sue dichiarazioni in piazza. Un aggettivo di troppo e a esalare l’ultimo respiro sarebbe stato il governo. E invece il Cavaliere si è mantenuto in funambolico equilibrio tra gli epiteti ai giudici e il sostegno a Enrico Letta. Almeno per ora, in attesa di un intervento dell’uomo del Colle, ancora centro delle sue speranze, per la grazia o meglio per la commutazione della pena. Mentre i suoi già si disputano i mobili. Come in tutte le eredità di un certo rilievo, la famiglia e i famigli lo piangono e lo compiangono in pubblico, ma in privato sono stati già affilati i coltelli per pugnalarlo. Davanti a tutti i parlamentari del Pdl, piange il ministro Angelino Alfano, delfino senza quid, gli occhi provvidenzialmente lucidi, singhiozza il capogruppo Renato Brunetta, e va bene. Ma in una riunione più ristretta, davanti ai deputati di Roma e prima ancora della sentenza, vere lacrime preventive, si lascia andare alla disperazione come una donnicciuola persino l’unica con le palle del Pdl, direbbe lei se volesse farsi il complimento massimo, ovvero Daniela Santanchè, mai visto una pitonessa piangere prima. Piangono, piangono, piangono. Ma piange anche lui, per vero o per arte varia, in preparazione della grande messa in scena, le stazioni della via crucis di Silvio: Silvio è condannato, Silvio è cacciato dal Senato, Silvio è interdetto alla politica. Ma intanto tappezza l’Italia in lungo e in largo con i suoi soliti manifesti, i sobri sei per tre, aerei con le scritte "Silvio libero" (è il nuovo nome del partito?) e comizi con pinne e fucili e occhiali, bagni di folla è il caso di dire. Un tour balneare copiato tale e quale proprio dal suo premier Enrico Letta che lo fece nel 2007.
Ma intanto bisogna organizzare la successione, raccogliere l’eredità. Chi li ha visti, padre e figlia, di giorno in giorno, nelle riunioni di Palazzo Grazioli giura che tra i due è lei la più agguerrita, la più determinata, quella che batte il pugno sul tavolo. Lui al confronto, un rammollito. La rappresentazione visiva del passaggio di consegne: la forza dal capostipite alla primogenita.
«In alto i calici per Marina, la Cavaliera», scrive Ferrara sul Foglio, e tutti a dire mica è Alessandro Sallusti, mica è Maurizio Belpietro, garantisce lui che ha sempre tifato per costituzionalizzare il fenomeno Cav. Invece, Marina è «il marchio di fabbrica, il simbolo della continuità, il cognome fatale», non c’è altra strada se non perpetuare l’anomalia, «i fasti del conflitto d’interessi». Nello stesso giorno e in direzione contraria dice la sua Gaetano Quagliariello. Il ministro delle Riforme denuncia sul "Corriere" quasi il tentativo di un colpo di Stato tutto autoprodotto, però, «un’operazione per decretare la fine del governo non riuscita». Nel mirino né servizi deviati né tintinnar di sciabole come nell’agosto ’64, più semplicemente la fazione del Pdl organizzatrice della manifestazione di sostegno sotto palazzo Grazioli. La solita coppia Santanchè-Verdini. E su Marina? Freddezza. «Per ora non c’è stata la disponibilità della diretta interessata. Non ne parlo, è un fatto di rispetto personale». Le due anime vengono allo scoperto per bocca di uno sempre defilato, prudente, astuto, un Tigellino.
In quel che resta del Pdl, già mutato nella rediviva Forza Italia, alla manifestazione sono rispuntate le bandiere, l’inno e la simbologia del 1994, le due fazioni pretendenti si contendono il favore del Sovrano ferito. La Santanchè da zittire ma inutilmente, l’uomo-macchina Denis Verdini «un orco» lo chiamano, l’imberbe Daniele Capezzone, l’incendiario Sandro Bondi che ha evocato la guerra civile e Raffaele Fitto figliol prodigo di ritorno, molti complimenti dal Cavaliere per aver organizzato ben 59 pullman (ma parecchi avranno deviato verso il Lido di Ostia forse in una sorta di presagio pre tour balneare del leader), strapazzano gli incerti, i timidi, i tiepidi di cuore. Sarà una battaglia per caratteri duri, a cercare un’ordalia elettorale in tempi brevi, elezioni da fare subito con Silvio ancora alla guida. Come ha scritto Sallusti sul "Giornale", trasformato in un bollettino bellico, «altro che moderati, serve la rivoluzione», con un obiettivo fisso, martellante, i ministri che hanno disertato la piazza, «sono rimasti in vacanza, hanno preferito tenersi stretta la poltrona miracolosamente conquistata solo grazie alla rimonta elettorale del Cavaliere».
Tira una pessima aria per i cinque ministri del Pdl nel governo Letta: Alfano, un tempo figliolo prediletto, è ora chiamato il Siciliano, la quintessenza dell’ambiguità, Lupi è il Pretino, e addio radici cattoliche, Nunzia De Girolamo, ministro dell’Agricoltura, è quella che si occupa di carote, di Quagliariello si è detto e su Beatrice Lorenzin si scatenano i sarcasmi. L’altra fazione, quella dei governativi, fatica a riorganizzarsi. Da qualche giorno deputati allarmati chiamano Alfano pregandolo di dare un segno di vita: riunirsi, organizzarsi, reagire. «Non possiamo permettere che tutto finisca in mano alla Santanchè e a Verdini. Loro vogliono trascinare Berlusconi alla bella morte, modello Repubblica di Salò», si allarma un senatore filo-ministeriale, «noi dobbiamo rivendicare una parte dell’eredità. Anche noi siamo berlusconiani, anzi, di più». Nessuno si fida più di nessuno, il Cavaliere riconosce i segni della finzione di chi si prepara a spartirsi i resti e finge anche lui.
Dopo l’estate le colombe proveranno a uscire dal nido. In preparazione ci sono due convegni territoriali, uno al Nord e uno al Sud, la summer school della fondazione Magna Carta di Quagliariello e forse un appuntamento nazionale. Obiettivo: far ragionare Berlusconi con la legge dei numeri, sempre apprezzata ad Arcore. La maggioranza dei parlamentari, la maggioranza degli amministratori locali, rivendicano i governativi, non ha nessuna intenzione di immolarsi sulle barricate, come vorrebbero la Santanchè e Verdini. Sono spaventati, terrorizzati dall’idea che il partito possa essere conquistato dalla coppia terribile, «all’ultima riunione urlavano come furie e ci hanno aggredito con parole irriferibili», raccontano. Lavorano per lanciare alla guida del partito che verrà una figura alternativa alla Santanchè, un’altra donna, l’ex ministro Mara Carfagna, che nei sondaggi di gradimento tra gli ex elettori di Forza Italia arriva subito dopo i Berlusconi (padre e figlia) e alla manifestazione agostana di via del Plebiscito è stata la più applaudita. E ancora in autunno, se il governo regge alla prova, i ministeriali sono pronti a offrire ai falchi qualche poltrona governativa: un mini-rimpasto per placare i furori dei movimentisti. Ma sono mosse da tempi di pace, mentre quelli che si preparano sono scenari da conflitto atomico. Più che un autunno caldo, un inferno. Lo definisce così il vice-ministro dell’Economia Luigi Casero, il contrario del barricadero e del catastrofista, che tiene uniti i due fronti, la successione a Berlusconi e il percorso del governo Letta: «La ripresa economica c’è, ma gli effetti cominceranno a farsi sentire nella seconda metà del 2014. Mentre nell’ultimo trimestre del 2013 i cassintegrati peseranno sui conti pubblici, sarà il periodo più duro. E coinciderà con il periodo politicamente più conflittuale». L’inferno, per l’appunto. La sarabanda dei possibili voti del Senato sul destino del condannato Silvio Berlusconi: il carcere è un’eventualità inesistente, la Procura di Milano non chiederà gli arresti, la decadenza da senatore e l’impossibilità di candidarsi alle elezioni invece va approvata dall’assemblea di Palazzo Madama. Chi vuole forzare lo scontro ha più di un’occasione per farlo tra settembre e ottobre. E nella gestione dell’uscita di scena di Berlusconi, fragorosa e cruenta oppure silenziosa, per quanto possa essere silenzioso il personaggio, chi si aggiudica il copione giusto da far recitare al Cavaliere sarà poi in testa per guadagnarsi i pezzi pregiati dell’eredità.
Marina è l’ago della bilancia. Nessuna delle due fazioni la contrasta, anzi. A parlare di lei, falchi e colombe cinguettano all’unisono: brava, bravissima, determinata, una iena, tutta suo padre... Non si sa mai, meglio non prendere posizione. Certo all’interno della famiglia, lei ha le carte più in regola. Al suo fianco c’è sempre Piersilvio ma si dice nell’entourage che non abbia né la voglia né la personalità. Luigi, Barbara (che sono accorsi a Roma per stare accanto al padre) ed Eleonora hanno un rapporto diverso da quello di Marina: viscerale, affettuoso, appassionato, acritico, raccontano gli intimi. Barbara che non si è mai tirata indietro sul piano mediatico, l’unica a parlare e a dare anche qualche dispiacere al patriarca, vive, come i suoi fratelli, con maggiore distacco il dramma politico giudiziario del padre forse per la giovane età forse per mancanza di responsabilità diretta nella gestione delle aziende.
La preoccupazione di Marina è il destino incrociato di affari e futuro politico, la possiblità che la disgregazione dell’eredità politica trascini nel baratro anche quella aziendale. Come nel ’94, per tutelare la famiglia serve il nome di un Berlusconi nel simbolo da votare.Che poi il leader vero rimanga il Cavaliere a invocare giustizia e amor filiale, imbecchi e indottrini poco importa. Intanto lei, presidente di Mondadori e Fininvest, la holding, nei cda di Mediolanum, nel salotto buono di Mediobanca, interpella amici come Alfonso Signorini e top manager come Ernesto Mauri, capo di Mondadori, imprenditori come Alessandro Benetton o Guido Barilla, e nei sondaggi è seconda solo al padre. Nonostante nessuno l’abbia mai sentita parlare (ha concesso solo interviste cartacee in cui sembra Hannah Arendt) nel regno tirato su dal padre, la televisione, Marina è inesistente. Chi ha mai sentito la sua voce? Come mai si domandano tutti? Paura, insicurezza, riservatezza somma, forse. Però una così potrà essere mai in grado di affrontare, poniamo, un duello con una belva mediatica come Matteo Renzi o con una volpe democristiana come Enrico Letta? Dettagli, sostengono gli spin doctor di casa, basteranno quattro interviste tv ben confezionate per il pubblico di Silvio e la benedizione del padre a farla uscire dall’icononografia di capitalista da Forbes. Naturalmente se il Cavaliere avesse concluso la sua avventura politica da senatore a vita o addirittura al Quirinale, Marina sarebbe rimasta tra i cigni di Segrate. Invece è il fantasma di Bettino Craxi che si aggira a Palazzo Grazioli a cambiare la "storia italiana". E a trasformare l’eredità di Silvio condannato da una questione politica a un affare di famiglia.