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 2013  agosto 08 Giovedì calendario

BIAGI: “IL MIO PRIMO PEZZO VERO? SUL FINTO FACHIRO"

Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo un “vendicatore” capace di riparare torti e ingiustizie; forse perché uno dei libri che hanno lasciato in me un segno è stato Martin Eden di Jack London e perché ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo.
Ero rimasto affascinato dalla fotografia di un inviato speciale pubblicata su un giornale, Mino Doletti: sulla sua valigia erano attaccate tante etichette di alberghi. Doletti era stato a Hollywood e lo presentarono anche a Jean Harlow, la “bionda platino”. Non pensavo di diventare il futuro Henry Stanley, chiamato un giorno da un direttore di un qualunque Herald per ricevere l’incarico di rintracciare un intraprendente missionario, il David Livingstone di turno, disperso in una boscaglia dell’Africa misteriosa. Il mio modello era un tale Emilio Di Crescenzio, redattore del Resto del Carlino: aveva seguito fino a Vienna i “centauri” della Decima Legio, loro in moto e lui sull’automobile, e mandava le sue corrispondenze. C’era dentro tutto: Franz Schubert, gli Elmi di Acciaio, la tragedia di Mayerling, e il sincero cameratismo tra gli ex nemici del Piave, riappacificati, finalmente, sulle rive del Danubio.
ALLE SCUOLE SUPERIORI, con alcuni compagni, feci il mio primo giornale, Il Picchio. Avevo 17 anni quando ho iniziato a scrivere i miei primi articoli e a 21 ero giornalista professionista. Sono entrato nel mondo dei giornali dalla porta principale. Non lo dico per orgoglio, ma perché non conoscevo proprio nessuno che potesse aiutarmi. Il primo articolo che riuscii “a piazzare” affrontava un angosciante problema letterario, nato da un equivoco col professore di Italiano che non aveva risposto alle mie domande: “Marino Moretti è crepuscolare?”. Portai i miei fogli sul poeta di Cesenatico a un anziano insegnante di filosofia che curava la pagina culturale dell’Avvenire d’Italia, un giornale cattolico: li lesse e decise di pubblicarlo.
Cominciai a collaborare in pianta stabile con il giornale: un po’ di cronaca, di colore, articoli di commento e qualche breve intervista ai cantanti lirici. Alla fine del mese ebbi anche un vaglia col compenso: venticinque lire. Comperai un pollo importato dalla Jugoslavia, che in casa mi fece considerare già sulla via di chissà quali conquiste. Il primo giornale che mi assunse, nel 1940, fu Carlino-Sera: facevo l’estensore delle notizie, cioè quello che metteva a posto gli appunti portati dai reporter. Mi viene in mente il migliore, Ezio Cesarini, che fu un grande cronista e amico di marescialli e di piantoni, sempre con il sigaro tra i denti e sempre disponibile per una sosta al bar. Venne fucilato da quelli di Salò e scrisse ai figli che moriva come Nazario Sauro.
La redazione aveva un sovrano, il direttore, ma era suddivisa in molti feudi, lo sport e la finanza, gli spettacoli e la cronaca, la politica interna e quella estera. Il mio capo interveniva raramente per dare ordini, rileggeva però tutto, gli premeva non avere noie con le autorità e la domanda era sempre la stessa: “Siamo proprio sicuri? Chi l’ha detto, il prefetto? E il questore lo avete sentito?”. Era la sua ossessione. Lavoravo accanto ad un collega ebreo che era protetto dal ministro Dino Grandi, il nostro editore, un romagnolo “quadrumviro della rivoluzione fascista”, che era stato ambasciatore in Inghilterra, dalle idee aperte o forse liberali. Davide era di sicuro molto intelligente, un ottimo impaginatore e, con la scusa che faceva il tecnico, non gli rompevano le scatole. Non poteva inquinare l’ideologia. C’erano, ovviamente, come in tutte le società, i vecchi al tramonto e i giovani leoni, ansiosi di prendere il loro posto. Quelli che più mi colpivano erano i vecchi perché tristi e disincantati, pensavano che non c’era niente di nuovo e che tutto era già accaduto.
Il mio primo, vero, articolo lo firmai E.B., solo qualche tempo dopo mi permisero di aggiungere qualche lettera, En.Bia. e finalmente, vittoria: Enzo Biagi. Era prestigioso essere una firma. Certo non immaginavo che un giorno una faccia, grazie alla televisione, sarebbe diventata più importante, per la gente, di una firma. Quando leggevo il Corriere della Sera, il quotidiano che è sempre stato il più autorevole, ero attratto dai titoli e prima di cominciare l’articolo andavo a vedere chi l’aveva scritto: Orio Vergani e Paolo Monelli, che mi apparivano irraggiungibili, due giganti che lavoravano per i posteri. Poi Luigi Barzini, Virgilio Lilli, Indro Montanelli, Dino Buzzati, Vittorio G. Rossi e Curzio Malaparte, la galleria dei maestri. Ogni ragazzo sceglie i suoi modelli, questi erano i miei. Malaparte fu un grande corrispondente di guerra, io lo avevo ammirato quando leggevo i suoi articoli dall’Unione Sovietica. Indimenticabili. Era avvolto dalla fama del bastian contrario, del maledetto. Era stato un gran fascista, era l’inventore dei versi: “Spunta il sole e canta il gallo Mussolini monta a cavallo”. Poi aveva criticato il regime e lo avevano mandato al confino. Per le “grandi firme” usavano un certo riguardo e sceglievano località amene: Capri, nel suo caso.
Lo conobbi anni dopo a Roma. Era estate e gli faceva compagnia una stupenda ragazza americana. Una indossatrice, dicevano. Malaparte non la portava in giro, la esibiva. Lui era un bel-l’uomo: abbronzato, capelli in ordine, begli abiti. “A una certa età” consigliava “niente camicie e cravatte. Sottolineano le rughe del collo. Morbidi maglioni, invece”. Quando stava per morire, confessò che gli dispiaceva andarsene prima di Montanelli.
AL CARLINO, NEI MIEI PRIMI ANNI, puntualmente, ogni sera, arrivava il foglio delle disposizioni e Mussolini ordinava. Un esempio: quando la Wehrmacht invase la Polonia, e noi eravamo fermi, il Duce ci impose di non parlare di neutralità ma di non belligeranza. Un altro ordine, il primo settembre, da Palazzo Venezia: “Il comunicato del Consiglio dei ministri va dato su otto colonne. È vietato ogni strillonaggio. Il telegramma del Fuhrer al Duce va pubblicato in ‘palchetto’, (cioè incorniciato). Non abboccare a notizie tendenziose di fonte straniera. Infine, astenersi da qualsiasi commento”. Mi passarono all’edizione del mattino: avevo fatto un passo avanti nella mia “carriera”. Subito ricevetti le istruzioni d’uso: tutto maiuscolo, il Prefetto, il Maresciallo, il Monsignore. Le abbuffate delle autorità, in occasione delle ricorrenze, dovevano essere definite “ranci camerateschi”. Io, due volte al giorno, facevo diligentemente le stesse visite: il commissariato della stazione, il comando dei carabinieri e l’Ospedale Maggiore.
Il Carlino mi aveva abbonato alla rete tranviaria e dato un tesserino dove c’erano la mia fotografia - un giovanottino magro tutto occhiali -, la firma del direttore e la richiesta alle autorità di facilitare, fin dove era possibile, il mio lavoro di cronista. Ebbi un’occasione per distinguermi. In un sotterraneo di via Ugo Bassi si esibiva un fachiro di nome Cadranel, che aveva delle doti soprannaturali destinate a colpire l’immaginazione dei bolognesi. Era capace di digiunare per un mese. Niente, neppure un goccio d’acqua. Stava in una specie di bara di vetro, sigillata da un notaio, ed esposta al pubblico ininterrottamente, giorno e
notte, ingresso a pagamento, ma continuato. Dopo tre settimane c’era la ressa. Da tutta l’Emilia arrivavano i pellegrini a controllare il fenomeno. Durante le mie visite al comando della stazione avevo conosciuto il dottor Vincenzo Cuccurullo, un funzionario di Ps, con i baffetti alla Clark Gable, calabrese, che più di una volta, compiendo qualche irregolarità, mi faceva entrare nel suo ufficio, concedendomi di assistere agli interrogatori. Cuccurullo, passeggiando sulla pensilina, perché non si sa mai, qualcuno ci poteva sentire, mi espresse, facendomi giurare il silenzio, i suoi sospetti. C’era un trucco, ci doveva essere per forza. “Se non si mangia, dopo un po’ si va all’altro mondo”. Cuccurullo aveva un piano: voleva tener d’occhio, senza mollarla un istante, l’amica di Cadranel, una ragazza di Belluno che faceva la cameriera. Il fachiro si chiamava in realtà Ciro Sanna, nato a Sassari e mai stato in India. “Lei mi stia accanto, e vedrà che ce la facciamo”. Mi sentii onorato. Quando riuscì a dimostrare che Cadranel, durante la pulizia del locale, ne approfittava per farsi passare rapidamente zucchero e carne tritata, grazie a un cacciavite che nascondeva in un’insospettabile cavità e che serviva per sollevare il coperchio della bara, io portai la sensazionale notizia. Il giornale fece una edizione straordinaria e la vendita segnò un primato assoluto: non era andata così neanche per la presa di Addis Abeba. Cuccurullo fu promosso alla Mobile, io ebbi cinquanta lire di premio e una lettera del capo che elogiava il mio comportamento. Mi dispiacque quando vidi Cadranel porgere i polsi sottili alle manette. “Non devi farci caso” disse il capo, “noi siamo come i chirurghi in sala operatoria, non possiamo commuoverci”.
ERA IL 1951 quando lasciai Bologna per Milano, la città che mi ha adottato. Fui assunto come caporedattore a Epoca. Tutta la famiglia venne con me e lasciandomi alle spalle San Luca capii che il nostro era un viaggio senza ritorno. Lucia ed io eravamo smarriti, una domenica decidemmo di portare le bambine a vedere il Duomo, tenendoci per mano, quasi con la paura di perderci. Dopo un po’ capimmo che non eravamo soli e cominciammo a frequentare gli altri bolognesi emigrati, Ugo e Nanda Berti, Eugenio Ferdinando e Lea Palmieri , naturalmente colleghi. Poi vedevamo Oreste Del Buono, Tommaso Giglio, Federico Enriques, Giovanni Guareschi, Enrico Emanuelli, Giorgio Fattori. Epoca andava malissimo e qualche tempo dopo il direttore Bruno Fallaci che mi aveva voluto fu sostituito con Alberto Segala, uomo di destra, molto di destra, che quando incontrava qualcuno per i corridoi, si chiedeva se fosse ebreo. Segala aveva una grande ammirazione per Goebbels. Arrivò il giorno in cui rimasi solo: Segala andò in America con Mondadori per fare affari con quelli di Life e mi lasciò gli appunti per le gestione dei numeri in sua assenza: numero 34, copertina “Fiorisce la primavera”, foto di fiori; numero 35 “Trieste italiana”, foto di Trieste. Successe però un fatto che modificò il programma. L’11 aprile del 1953 sulla spiaggia di Capocotta, a Ostia, viene trovata Wilma Montesi, 21 anni, morta per annegamento. Diverse le ipotesi tra queste che la giovane è deceduta durante un’orgia a cui avevano partecipato il marchese Ugo Montagna e Piero Piccioni, figlio del-l’onorevole Attilio, vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Esteri. Il caso diventa politico, il Ministro si dimette, il segretario socialista Pietro Nenni dichiara che sarà “la Caporetto della borghesia” e Giancarlo Pajetta, del Partito Comunista, durante la dichiarazione di dimissioni di Attilio Piccioni, urla in Parlamento, rivolto alla Dc, “capocottari”. Per dovere di cronaca aggiungo che nel 1957 Piccioni e Montagna vennero assolti per non aver commesso il fatto. Me ne infischiai dei fiori, della primavera e anche di Trieste e feci la copertina sul caso Montesi.
Quando Mondadori e Segala ritornarono dall’America avevo guadagnato 80/90 mila copie. Mondadori mi chiamò per un incontro al quale era presente anche Giorgio Vecchietti, capo dell’ufficio romano di Epoca, e mi informò delle sue intenzioni di nominarmi direttore con Vecchietti condirettore. Questo perché non avevo la reputazione, giustamente per altro, di giornalista politico, nel senso che la politica non era la mia specializzazione, mentre Vecchietti si muoveva bene nei dintorni del Palazzo. Risposi, prima di tutto, chiedendo scusa a Giorgio, che io non condividevo niente neppure con mia madre. Avrei continuato a fare il redattore capo con Vecchietti direttore. Finì che diventai direttore con la supervisione di Arnoldo Mondadori. Avevo 33 anni.