Irene Soave, Vanity Fair 7/8/2013, 7 agosto 2013
QUEL BACIO RUBATO
[Intervista a Dacia Maraini] –
Mi spiace ammetterlo, ma è un libro intelligente: parla di una piaga vera, il masochismo femminile, la sottomissione al desiderio del maschio. Abbiamo provato a combatterla, ora è di moda rivendicarla: dire ok, soffro, ma perché l’ho scelto io, perché a me essere torturata piace. Orrore puro spacciato per libertà».
incontro la scrittrice dacia maraini nella sua casa romana – dove mi ha accolta con un bugiardo «Mi scusi, sono uno straccio», ma con gli occhi brillanti come gioielli, la voce limpida, il trucco perfetto – per parlare del «romanzo per immagini» che sta per vedere la luce, un docufilm che si intitolerà Io sono nata viaggiando, basato sul suo archivio personale di foto inedite e filmati in Super 8. Ma in pochi minuti inizia a parlare di un altro romanzo, Cinquanta sfumature di grigio, che ha letto da poco. E che, dice, è «l’anti-Marianna Ucrìa: in quel romanzo raccontavo una passione senza sopraffazione. Perché la violenza, nel sesso, non sono mai riuscita ad accettarla».
Oltre alle letture, Dacia Maraini ha un’altra cosa in comune con la mia generazione: una collezione di autoscatti, come quelli di cui noi nati negli anni Ottanta inondiamo i nostri profili Facebook. Allo
specchio del bagno o in una stanza d’albergo, con i capelli corti o legati, vestita da inverno o da estate, sorridente o seria. Sembrano foto scattate ieri (e magari ritoccate con un filtro Instagram); hanno trenta o quarant’anni. «Davvero è una moda? Per me era un vezzo, l’ultimo giorno di un viaggio, per finire il rullino».
Sullo sfondo di uno scatto allo specchio c’è Alberto Moravia che fa un buffo passo di danza. «La gente pensa a lui come a un uomo arcigno. Ma quel che più mi manca di lui è l’allegria», ricorda lei, che con Moravia ha trascorso gli anni dal 1962 al 1978, quando per gli amici e i detrattori erano la versione italiana di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir: intellettuali borghesi, vicini al Pci, innamorati.
«Ma non eravamo salottieri. Con Pasolini, Guttuso, Fellini, frequentavamo il caffè Rosati di piazza del Popolo: però era un modo di discutere, di aggiornarsi, non di fare mondanità. Alberto era un uomo allegro, amava ballare e viaggiare, come racconto nel film».
Quale fu il vostro viaggio più memorabile?
«Come faccio a sceglierne uno? Abbiamo girato il mondo: Africa, Cina, India. Spesso con Pier Paolo, che faceva sopralluoghi per i suoi film. Forse la spedizione in Mali: era il 1965. Giravamo in auto, andammo a finire in una missione italiana dove nessuno dei preti ci riconobbe. Però, sapevano tutto sui giocatori della Roma, avevano anche i loro ritratti a olio. Pasolini, che era un esperto di calcio e giocava anche bene, fece subito amicizia. Con noi c’era anche Maria Callas, non riconobbero neanche lei».
La diva Maria Callas in Africa on the road?
«Venne perché era innamorata di Pasolini e credeva di poterlo far diventare eterosessuale. Lei era... come dire? Spiritualmente goffa. Sul palco era una regina, ma nella vita aveva paura di tutto, era convinta di essere brutta, grassa. Aveva su di sé uno sguardo impietoso. Come quello di molte giovani donne oggi».
Cioè?
«Modellato sul desiderio maschile. Guardi le ragazze per strada come si conciano. Si concepiscono come oggetto del desiderio, non come esseri desideranti. E questo desiderio cercano di attrarlo con una bellezza tanto convenzionale da essere quasi brutale. Ma non è colpa loro».
In che senso?
«Che nessuno è mai libero da solo. Io posso essere emancipata quanto voglio, ma poi se la mia libertà non è riconosciuta da tutti non appartiene neanche a me. Vado spesso a parlare nelle scuole: le ragazzine in teoria sanno che cos’è la parità. Ma per loro è una cosa personale, non di gruppo. Nei collettivi che frequentavo all’università c’erano, certo, quelle che volevano tagliare il pene ai maschi; ma poter parlare di sessualità tra donne ci dava sicurezza».
Che cosa imparò?
«Per esempio, che non ero l’unica a cui il primo bacio era stato estorto. Da un prete, a Bagheria. Anni dopo ci provò un amico di famiglia. Tra noi, quasi tutte avevano avuto un’iniziazione al sesso basata sulla sopraffazione».
È ancora così?
«Penso che gli abusi in famiglia ci siano sempre, e che le donne oggi tacciano di nuovo più di noi».
Il suo primo bacio vero se lo ricorda?
«Non più. Ricordo solo quello rubato. Ma sarà stato con qualcuno a cui volevo bene».
Nel suo film di ricordi di viaggio ha inserito anche il racconto della sua gravidanza.
«Che, purtroppo, non andò a buon fine. Era il 1960 (la scrittrice era legata al pittore Lucio Pozzi, ndr): io rischiai la vita; il bambino, al settimo mese, lo persi. Ne parlo perché è un viaggio nella memoria, un ricordo doloroso; ma non è un’ossessione. Ci sono molte altre cose in una vita».
Che cosa le manca di più dei suoi compagni?
«La presenza fisica. Di Giuseppe (Moretti, suo compagno per 12 anni, scomparso nel 2008, ndr) mi mancano i viaggi che facevamo insieme, perché non abbiamo mai convissuto. Ai miei morti ho dedicato un libro, La grande festa, nel 2012».
Lei scrive molto dei suoi ricordi.
«C’è sempre qualcosa di nuovo da dire. In questo film, ad esempio, diamo una prospettiva storica. Ma non sono una persona nostalgica. Anche le vecchie foto: ne ho settemila, ma non le guardo mai».