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 2013  agosto 07 Mercoledì calendario

DATEMI UN SECONDO

[Intervista a Usain Bolt] –
La prima cosa che noti di Usain Bolt è che ha due piedi lunghi come piroghe. Poi si siede, e ti accorgi che con il 48 di scarpa per 1,95 di statura, fermo su una poltrona non sembra stare troppo comodo. Muove gli occhi, punta la finestra inquieto, cerca con lo sguardo NJ, l’amico d’infanzia del suo villaggio natale giamaicano Sherwood Content (a Est di Montego Bay), che lo segue come un’ombra. Insieme, hanno più un’aria da ghetto blaster che da gotha dell’atletica. Ma Bolt da solo, in paziente attesa della prima domanda, ricorda uno studente del college all’esame, e ancora di più certi giaguari in libertà, che si sono fermati qualche secondo ad annusare l’aria, ma al primo fruscio sono pronti a schizzare via e non sei sicuro di averli visti veramente. 
Il facile paragone tra lo sprinter giamaicano e il felino più veloce in natura, scienza alla mano, non calza: la velocità massima raggiunta da Bolt è 44,17 km l’ora (nei 100 metri ai Mondiali di Berlino, il 19 agosto 2009), ma un giaguaro in Namibia ha da poco coperto 620 metri in 20 secondi per acchiappare una gazzella: 115 km l’ora. E questo tra specie diverse è l’unico primato che per Bolt sembra irraggiungibile.
Lo scandalo del doping dell’atletica che il 14 luglio ha colpito ben sei atleti, tra cui i suoi rivali nella velocità Asafa Powell, anche lui giamaicano, e l’americano Tyson Gay, ha complicato le cose: ora a difendere lo sport pulito c’è rimasto praticamente solo lui. Bolt sulla vicenda non si è tirato indietro, ma con la stampa ha tagliato corto: «Io sono nato per correre, e prendo solo vitamine». Ai Mondiali di atletica di Mosca (10-18 agosto), dove l’11 si correrà la finale dei 100 metri, ora è chiamato non solo a gareggiare, magari battendo i suoi record, ma anche a salvare l’immagine internazionale dell’intera categoria sotto tiro. Essere l’uomo più veloce del mondo, e da già quattro anni, spiega nel suo Jamaican English da canzone di Bob Marley, non è così semplice. 

«certo che ci penso: “sarà già nato qualcuno che corre più di me?”. È normale. Se pensa che da quando ho memoria sono sempre stato il più veloce: a scuola, con gli amici, per andare a prendere il bus. Arrivare secondo per me non è così naturale».
Ogni quanto nasce uno come lei? 
«Mi faccia pensare (si scruta attentamente)... secondo me ne può arrivare uno ogni 50 anni, qualcosa del genere. Per cui probabilmente è già nato, ma per fortuna magari non sa ancora camminare: ho ancora un po’ di tempo». 
C’è qualcuno in pista che le fa già paura? 
«Per ora no. Ma è ovvio che prima o poi salterà fuori.
In realtà io non faccio molta attenzione agli avversari. Corro pensando solo ad andare, non guardo mai né a destra né a sinistra. Però certe volte sei costretto a interagire. Per esempio ai blocchi di partenza: io sto nel mio, mi faccio i fatti miei, ma non sono più i tempi del fair play, bisogna imparare a restare calmi».
Chi si mette a disturbare uno come Usain Bolt? 
«Capita. Tempo fa, prima di una gara, ero in pista e mi stavo guardando le scarpe, quando a un certo punto che cosa vedo tra la destra e la sinistra? Uno sputo. Qualcuno, un americano direi, mi stava sputando sui piedi. Si rende conto?». 
E lei che ha fatto? 
«Non ci potevo credere. Era totalmente  gratuito. Senza dire niente sono partito, e al traguardo mi sono fermato con le braccia incrociate ad aspettare, un bel po’ devo dire, che arrivasse. Poi l’ho guardato». 
Molto self control. È vero che ai tempi della scuola si è dato all’atletica per via del suo talento, ma avrebbe preferito il cricket, più divertente? 
«Sì, adoravo il cricket, e ancora adesso mi piace molto, come il calcio, ovvio. L’atletica per un ragazzino non è certo il più vivace degli sport. Devi solo correre da qua a là, e io mi annoiavo un po’. Solo che appena arrivavo a scuola e mi avvicinavo al coach del cricket quello mi faceva: “Usaiiiin, ma tu che ci fai qui? Vai subito alla tua pista”. Non avevo scelta, correvo troppo veloce per poter fare altro». 
Racconta spesso che suo padre era severo e sua madre invece dolcissima: che cosa è stato più utile per diventare un campione? 
«Sì, mio padre era molto severo, direi
duro. Mia madre bilanciava proteggendomi, anche dai lavori di casa. Sono da sempre molto pigro. In un certo senso è servito alla mia carriera».
La pigrizia l’ha aiutata? 
«Sherwood Content, il villaggio di campagna dove sono cresciuto in Giamaica, è un posto idilliaco, con una natura lussureggiante, ma nessuno aveva l’acqua corrente. Dovevamo andare a prenderla con le taniche. La strada era lunga, così io, per ottimizzare il lavoro, pensai di organizzarmi per portare molte taniche alla volta. Me ne caricavo tantissime, e diminuivo il tragitto. Dopo qualche settimana mi sono guardato allo specchio: avevo un fisico impressionante. Veloce lo ero per natura, ma forte ci diventai così, grazie alle taniche». 
È ancora pigro?
«Molto. Ma ho imparato la disciplina. Gli allenamenti sono duri e appena ho un momento di riposo me ne torno a Sherwood Content. Oggi però a non fare niente. Mangiare, rilassarmi con gli amici d’infanzia. La mia massima attività è la Playstation».
Ogni tanto le torna la voglia di passare al cricket o al calcio?
«Sì, non escludo che in futuro potrei giocare a calcio. A volte mi faccio qualche partita con gli amici. Non dei dilettanti: sono tifoso del Manchester United e loro dicono che forse potrei andare». 
Non è un po’ troppo alto per il calcio?
«Sta dicendo che non ho il fisico? (ride). In realtà ho scelto l’atletica su consiglio di mio padre: mi ha sempre detto che è lo sport meno politico».
Politico? In che senso? 
«Tu gareggi, e se sei veloce vinci. Tutto qui. Non hai bisogno di piacere all’allenatore, di fare pubbliche relazioni con gli altri... è chiaramente più facile, soprattutto per uno defilato come me». 
È tranquillo, ma una volta ha detto che la seconda cosa che teme di più al mondo sono i giornalisti. Perché? 
« Ahahah. L’ho detto, in effetti. I giornalisti stanno sempre lì a vedere con chi esci, a fotografarti con la tal ragazza, a travisare quello che dici».
È single? 
«Ora sì, anche se frequento qualcuno. Credo che prima o poi mi sposerò, ma non presto: nello sport si tende a favorire i matrimoni giovani, pensando di stabilizzare l’atleta. Invece si ottiene il contrario. Io preferisco uscire liberamente con chi mi pare senza essere additato». 
La sua ragazza (la stilista slovacca Lubica Slovak, ndr) nel 2012 è stata oggetto di pesanti e inaspettate critiche da parte della comunità nera giamaicana perché bianca, lei come l’ha presa?
«Mi è dispiaciuto. Ma se è quello che vuole sapere, non è per questa ragione che ci siamo lasciati». 
Scusi, ma la prima cosa che teme al mondo qual è? 
«I giamaicani».