Bill Keller, Panorama 8/8/2013, 8 agosto 2013
IL «NERO» CHE DIVIDE L’AMERICA
Per gran parte della sua vita pubblica, Barack Obama si è fatto largo tra persone che pensano che sia troppo nero e altre che ritengono che non lo sia abbastanza.
Il primo gruppo parla prevalentemente per allusioni in codice dirette ai propri simpatizzanti e batte su argomenti collaterali per sottolineare la diversità di Obama da un punto di vista formale: il suo certificato di nascita, la sua ipotizzata adesione alla «teologia della liberazione nera» (presumibilmente precedente alla sua conversione all’Islam), la sua visione del mondo «kenyota e anticoloniale». Il libro di Jonathan Alter The Center Holds (Simon & Schuster, 428 pagine, 30 dollari) sulla presidenza Obama pubblicato di recente riassume queste teorie definendole sintomi della «Obama derangement syndrome», un’avversione patologica e totale nei confronti del presidente, il cui sottotesto il più delle volte è traducibile in: è troppo nero. Sull’altro versante ci sono gli afroamericani e i liberali, delusi dal fatto che Obama non si sia posto come missione prioritaria quella di stigmatizzare il razzismo che ancora oggi infetta la società americana e di porre rimedio allo squilibrio razziale presente nell’economia, nelle scuole e nel sistema giudiziario americani. «In alcune occasioni è stato doloroso vedere il trattamento calibrato, cauto e talvolta insensibile che questo particolare presidente ha riservato ai suoi elettori più fedeli» ha dichiarato lo scorso anno il conduttore di programmi radiofonici e televisivi Tavis Smiley alla giornalista del New York Times Jodi Kantor. E questo è stato uno dei rimproveri più gentili proveniente dalla fazione dei «non abbastanza nero».
Obama ritiene di servire meglio il paese, e in ultima analisi gli interessi degli afroamericani, agendo come presidente di tutta l’America, e non dell’America nera. Anche quando parla diffusamente su questo tema, come nel discorso tenuto nel 2008 a Philadelphia, si presenta come un ponte tra i bianchi e i neri piuttosto che in qualità di comandante in capo nella lotta per i diritti civili. E persino quando la sua amministrazione ha varato delle riforme che affrontavano il problema dell’ingiustizia razziale, per esempio riportando in vita la moribonda divisione per i diritti civili del Dipartimento di giustizia, non ha convocato una conferenza stampa e non ne ha fatto grande pubblicità. Questo atteggiamento è senza dubbio calibrato e cauto. Ma si potrebbe definire insensibile?
I commenti di Obama sulla morte di Trayvon Martin, «Avrei potuto essere io 35 anni fa», hanno riaperto la vecchia spaccatura. Come prevedibile, la frangia che lo considera «troppo nero» lo ha accusato di lasciarsi andare a «vittimismo razziale» e «race baiting», vale a dire incitare i suoi ascoltatori di colore a sentirsi aggrediti per motivi razziali. Sull’altro versante, alcuni di coloro che avevano auspicato ardentemente un Obama più diretto hanno interpretato il suo breve commento come una svolta: «11 presidente» ha esultato un conduttore radiofonico di Detroit «ha finalmente mostrato di essere un fratello». Charles Ogletree, un docente di diritto ad Harvard che conosce Obama da 25 anni, ha dichiarato alla Npr che quando ha sentito i commenti gli è venuta voglia di «fare le capriole dalla contentezza» e che ora avrebbe dovuto ripensare i contenuti di un libro che sta scrivendo nel quale si era riproposto di criticare l’atteggiamento tiepido del presidente sui temi razziali. «Direi che ha gettato alle ortiche la cautela» mi ha detto Ogletree. «Questo gesto apre un capitolo di Barack Obama completamente nuovo».
È proprio così? Anch’io ho trovato le parole di Obama commoventi, piene di calore emotivo ed empatia. Ma rileggendole, ora che l’ardore del momento si è raffreddato, si nota che sono attentamente misurate e del tutto coerenti con ciò che Obama ha affermato nei suoi scritti e nei suoi discorsi da quando ha compiuto il suo ingresso nell’arena pubblica. Il combattente contro il razzismo, che gli oppositori della destra condannano e i critici della sinistra vogliono, non compare da nessuna parte. I suoi commenti sul dolore e sull’umiliazione causati dalle pratiche di profiling razziale, che hanno suscitato un’enorme attenzione, riprendono un ritor nello che risale come minimo ai giorni in cui ricopriva l’incarico di senatore dell’Illinois. Il suo atteggiamento rispettoso nei confronti della corte che ha assolto l’assassino di Martin e il suo riconoscimento delle patologie degli strati più disagiati della popolazione nera sono passati più inosservati.
«Fondamentalmente dice: “Cercate di comprendere questo problema dal punto di vista di chi è diverso da voi”» ha affermato Thomas Sugrue, storico presso la University of Pennsylvania e autore di un voluminoso studio su Obama e la questione razziale. «E Io dice tanto ai neri quanto ai bianchi». Ma, ritiene Sugrue, in un modo o nell’altro ognuno dei due schieramenti sente quello che vuole sentire: da una parte «un profetico Martin Luther King Jr.» e dall’altra «un Black Panther compresso i attesa di esplodere». Tutto ciò ha un nome: «profiling» razziale. Forse la gente non lancia più occhiate sospettose a Obama quando lo incrocia al supermercato o non stringe saldamente la borsa quando lui entra in ascensore, ma gli hanno attribuito delle caratteristiche sulla base di quanto loro stessi temono o si attendono da un uomo di colore alla Casa Bianca. Neppure Barack Obama sfugge al «profiling».
Coloro che sperano che il suo discorso su Trayvon sia stato il segnale di un nuovo attivismo presidenziale sulla questione razziale dovranno tenere d’occhio due prove della verità. La prima riguarda la possibilità che il Dipartimento di giustizia di Obama avvii un procedimento per violazione dei diritti civili contro George Zimmerman, lo zelante vigilante volontario che ha sparato a Martin uccidendolo. Secondo quanto riporta la Naacp (l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore), oltre un milione di persone ha firmato delle petizioni per richiedere al Dipartimento di giustizia di accusare Zimmerman di crimine di odio razziale. La seconda prova consisterà nell’ipotesi che il presidente offra un incarico di governo a Ray Kelly, il capo della polizia di New York che ha introdotto le aggressive pratiche di stop-and-frisk (fermo e perquisizione) condotte per la maggior parte su uomini di colore e latinoamericani. L’apprezzamento espresso pubblicamente da Obama nei confronti di Kelly come possibile segretario della sicurezza interna ha suscitato reazioni di rabbia e sgomento. Il presidente era indifferente al ruolo di Kelly svolto in qualità di «padre della più vasta operazione locale di «profiling» razziale del Paese», per citare le parole del giornalista Ta-Nehisi Coates, o era semplicemente distratto?
La mia ipotesi è che il presidente navigherà in mezzo a queste insidie come ha sempre fatto quando si prospetta la questione razziale, con cautela e senza chiasso. Se si atterrà al copione, sorvolerà tranquillamente su Kelly, perché in questo momento è chiaro che la sua nomina costituirebbe un’importante distrazione dal suo programma, perché per Obama il «profiling» razziale è un eterno punto dolente a livello personale e perché ha altre opzioni che causerebbero meno scontri tra posizioni opposte. Lascerà il destino di George Zimmerman nelle mani del procuratore generale Eric Holder, che con tutta probabilità concluderà che un’accusa di crimine d’odio razziale non terrebbe e sarebbe vista come un tentativo di mettere la politica davanti alla legge (secondo la legge federale non è sufficiente provare che Zimmerman abbia perseguito Martin a causa della sua razza; il governo si troverebbe a dover provare che il pregiudizio razziale è stato il motivo dell’uccisione del ragazzo). Nei suoi commenti su questo caso, Obama è parso lasciare intendere che i federali non interverrebbero qualora lo stato abbia già deliberato.
Se quindi lo spunto di Obama su Trayvon non ha marcato il debutto di un presidente nuovo e più attivista, sarà almeno stato l’inizio di un dibattito nazionale sulla questione razziale? Se così sarà, dubito che si tratterà di un dibattito guidato dal presidente. Quando è stata posta la questione razziale durante un’intervista pubblicata sul Sunday’s Times, Obama ha prontamente spostato la discussione sulle sollecitazioni economiche esercitate sul tessuto sociale. E questo va bene. Il presidente Obama ha un’economia da sanare, una politica estera da attuare, un programma imponente paralizzato da un’opposizione intransigente. Randall Kennedy, un altro docente di diritto di Harvard che ha studiato Obama e ne ha criticato la mancanza di audacia, afferma che la frustrazione dovrebbe essere mitigata dal realismo. «Considero Obama un personaggio alla Jackie Robinson» mi ha raccontato Kennedy. «Jackie Robinson ha infranto la barriera del colore e ha subito ogni sorta di denigrazioni e insulti, ma poiché era un pioniere doveva essere al di sopra di tutto ciò. ...La gente ora si aspetta che tutto a un tratto Obama si butti a capofitto in questa faccenda incredibilmente intricata della razza e dell’amministrazione della giustizia penale? È del tutto implausibile. Per fare ciò occorrerebbe un enorme investimento di capitale politico».
E, se ci si pensa, perché dovrebbe essere una sua precisa responsabilità? «Esiste una sorta di diffusa ed errata convinzione secondo la quale parlare di razza sarebbe compito della gente di colore» ha dichiarato Benjamin Jealous, presidente della Naacp, quando gli ho chiesto la sua opinione sui doveri di Obama. «In ultima analisi, solo gli uomini possono porre fine al sessismo e solo i bianchi possono porre fine al razzismo». Non vi piacerebbe sentire John Boehner o Mitch McConnell oppure Chris Christie o Rick Perry ammettere le proprie responsabilità cosi candidamente come ha fatto il presidente nei confronti delle corrosive vestigia del razzismo nella nostra società? Quella sì che potrebbe essere un’occasione per mettersi a fare le capriole.