Renzo Guolo, la Repubblica 7/8/2013, 7 agosto 2013
LA REALPOLITIK DI OBAMA NELLA POLVERIERA EGIZIANA
Mentre stringono la tenaglia attorno ai Fratelli Musulmani, i militari egiziani avvertono le perplessità delle cancellerie occidentali, timorose che la repressione inneschi una spirale nel quale resterebbe spazio solo per un disastroso conflitto armato.
L’uomo forte del nuovo potere in riva al Nilo, il generale Al Sissi, accusa così gli Stati Uniti ma anche l’Unione europea, di aver voltato le spalle agli egiziani, di aver tradito la volontà popolare, ostile a Mohamed Morsi, di non supportare con forza il nuovo governo davanti alla sfida del terrorismo.
Significativamente, Al Sissi afferma di non aver mai sentito né Obama né Kerry dopo il 3 luglio, ma solo il suo omologo alla Difesa, Hagel. La guida delle stellette si rivolge, così, alla Casa Bianca e a Foggy Bottom attraverso il Washington Post.
Lamentando lo scarso sostegno a un intervento ritenuto in linea con gli interessi e i valori Usa. Invitando gli americani, che negli ultimi due anni hanno avuto stretti rapporti con i Fratelli musulmani, a usare la loro influenza per evitare che essi si radicalizzino e accettino la road map indicata dai militari.
Parole che confermano come il “golpe popolare” non abbia certo convinto l’amministrazione Obama: anche se John Kerry, in nome della realpolitik, dirà nelle stesse ore che al Cairo i militari hanno “restaurato la democrazia”. In realtà, lo schiaffo arrivato attraverso il
Post rivela come molti degli attori regionali mediorientali e nordafricani, consapevoli che la politica estera americana prevede una presenza meno diretta nell’area, comincino a muoversi secondo logiche autonome.
Nella vicenda egiziana, gli Stati Uniti si trovano tra fuochi diversi, bersaglio di laici, nazionalisti e islamisti. La Fratellanza ritiene che, senza l’avallo americano, Al Sissi non si sarebbe mosso. È la stessa tesi di Al Qaeda, che torna a farsi viva con Zawahiri, che pure accusa i Fratelli di aver accettato le vie della democrazia. Quanto a Tamarrod e i nasseriani, tra i principali protagonisti della rivolta anti Morsi, hanno sempre pensato che il presidente deposto si reggesse su un ferreo accordo con Washington.
Una posizione scomoda, quella americana, che deve tenere conto della svolta impressa ai rapporti con il mondo islamico dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e la logica di una potenza globale. In riva al Potomac, la preoccupazione maggiore è ora che i militari egiziani facciano del 3 luglio un’occasione per semplificare, per un lungo periodo, il campo politico. Aleggia, infatti, tra le stellette la tentazione della resa dei conti definitiva con i rivali storici della Fratellanza. Una soluzione di tipo algerino, repressione durissima e poi parziale inclusione nel sistema politico degli islamisti in posizione di debolezza, legittimata da quel plebiscitario mandato popolare che i militari ritengono di aver ottenuto con le manifestazioni di massa del 26 luglio contro il “terrorismo”. Espressione che, nel nuovo corso egiziano, non indica solo le correnti jihadiste ma quanti rifiutano il nuovo, vecchio, ordine emerso dopo la deposizione di Morsi.
Alla Casa Bianca, come nelle cancellerie occidentali messe sotto accusa da Al Sissi, si teme che il vuoto lasciato dalla Fratellanza decapitata sia occupato dalle frange islamiste più radicali. E che queste si saldino, sul terreno del jihad, con quelle che già operano nel Sinai. Sulla sponda sud del Mediterraneo, l’instabilità diventerebbe, allora, la regola. Anche perché l’evidente fallimento dell’islam politico non si traduce nel rafforzamento delle forze democratiche. Le stesse mobilitazioni laiche sembrano esprimere più un impulso alla rivolta che far emergere un progetto politico e un nuovo blocco sociale che lo sostenga. In questa polarizzazione tra le vecchie forze del passato, militari o islamiste che siano, e nella debolezza degli attori sociali emergenti, c’è tutto lo scacco della primavera egiziana.