Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 6/8/2013, 6 agosto 2013
BLASFEMO IL PARAGONE CON CRAXI
«Cortesemente non mi scriva Giusy, con la ’y’ finale. Se proprio deve con la ’i», Giuseppe La Ganga, torinese, classe 1948, politico socialista di primo piano nella stagione di Bettino Craxi, quando fu capogruppo alla Camera e responsabile enti locali, è perseguitato da un nomignolo che, spiega, gli fu affibbiato da Ezio Mauro, allora caporedattore della Gazzetta del Popolo. «Mi chiamò a casa di mia mamma per un commento», ricorda, «ero infatti segretario provinciale del Psi.
E mia mamma, appoggiando la cornetta, mi chiamò ad alta voce: ’Giusiii’. Quando arrivai al telefono, Mauro rideva come un matto. Da allora fu Giusi, ma quella ’y’ fu sempre abusiva. Giusy è la parrucchiera». La Ganga, complice forse il cognome e una corporatura gigantesca, è stato a lungo perseguitato dai fantasmi di Tangentopoli: fu arrestato e condannato per aver fatto finanziare illecitamente il Psi. Patteggiò, ebbe i suoi anni, uno e otto mesi per l’esattezza, e molti di più di lontananza dalla politica. S’è riaffacciato molti anni dopo nella Margherita e da margheritino ha fondato il Pd nelle cui fila, dice, non si stanca di combattere la battaglia del riformismo italiano. Tuttavia quella stagione, quella di Mani pulite, riaffiora continuamente in queste ore, perché c’è chi accosta alla vicenda di Silvio Berlusconi quella craxiana di vent’anni orsono. E La Ganga, allora, c’era.
Domanda. È un accostamento realistico?
Risposta. Accostamento blasfemo. Non c’è proprio nulla di simile se non l’apparenza più grossolana. Quelle di Craxi, del Psi, erano vicende comunque riconducibili alla politica. Erano connesse alla politica, alla lotta politica. Alla ricerca di alleanza e di risorse per vincere una battaglia. Aldilà di come le si possano leggere oggi.
D. Invece la vicenda di B....
R. Una storia tutta aziendale, personale. Non sono storie confrontabili.
D. Beh, insomma. I suoi guai iniziarono proprio con l’ingresso in politica. Dieci giorni dopo l’inaugurazione della prima sede di Forza Italia, Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo a Milano, diceva al Corsera: «Non entri in politica chi ha scheletri nell’armadio»...
R. Ma il personaggio di cui parliamo non ha avuto alcun tipo di disturbo dalla vicenda politica. Senza contare che vent’anni fa si misuravano, in forme non sempre commendevoli, visioni della società che avevano senso e dignità, questo ventennio è stato privo di progetto e noi ne paghiamo le conseguenze. Le elenco di cose da fare di cui si parlava allora, è lo stesso...
D. Ricordiamolo...
R. Si parlava delle riforme costituzionale, legge elettorale e forma di governo, di presidenzialismo e cancellierato, di rapporto pubblico privato in economia, del colossale patrimonio pubblico da usare per ridare fiato alla finanza pubblica. Temi irrisolti di vent’anni dopo, ma con una differenza.
D. Quale?
R. Allora eravamo un Paese indebitato ma ricco. Vent’anni di berlusconismo e di antiberlusconismo non hanno portato a niente.
D. Molti dei suoi compagni di partito di vent’anni fa erano domenica in via Plebiscito...
R. Lo so. E pubblicamente non possono che ripetere la vulgata. Privatamente un po’ di riflessione autocritica la stiano facendo.
D. Aldilà del vuoto politico, la vicenda di B. che cosa le fa pensare?
R All’ossessività. Da vent’anni ripete una tiritera, dei giudici e del complotto. Anche fondata: c’è stata un’attenzione smodata verso di lui. E si deve ammettere che Gianni Agnelli, commettendo gli stessi reati per i quali è stato condannato B., è morto da padre della Patria.
D. Si riferisce a cosa?
R. Penso alle vicende dell’eredità contesa, che hanno rivelato come fossero stati costituiti all’estero piuttosto importanti. Ma questo fa parte di un altro capitolo e in cui c’è la mancanza di un ceto impreditoriale all’altezza, nel nostro paese, in cui si fanno i soldi, coi soldi altrui. Manca quell’etica capitalista per cui, alla fine, i casi buoni si contano sulla punta delle dita: Pietro Ferrero, Leonardo Del Vecchio e pochi altri.
D. Un problema italiano...
R. Una tragedia italiana: se non c’è un ceto industriale all’altezza ogni tentativo di riforma sarà inutile.
D. Come rilegge Tangentopoli vent’anni dopo, allora?
R. I fatti erano veri è la qualificazione dei fatti che è stata esasperata e questo lo diranno gli storici. Aveva ragione Craxi nel dire che «se la storia della prima repubblica era una storia di criminali, siamo tutti criminali». Ma quella storia non era criminale.
D. E com’era?
R. Oggi c’è una riflessione un po’ più matura su quel periodo, grazie anche a quello che è arrivato dopo.
D. La seconda repubblica, dice?
R: Certo. Erano anni in cui uno dei titoli di merito era non aver mai fatto politica. Uno doveva nascere come un fungo: professionista, imprenditore, ballerina. Nobili attività che però non davano garanzie, come si è visto, d’essere utili al governo del paese.
D.Però la prima finì nell’ignominia.
R. Sì però attenzione. Io, da esponente della Margherita, ho fatto parte del consiglio nazionale di quel partito le cui ultime riunioni sono stata tutte impegnate nel gestire la vicenda del senatore Luigi Lusi.
D. E quindi?
R. E quindi non resisto alla necessità di segnalare questa differenza epocale fra prima e seconda repubblica: che nella prima finivano nei guai i politici e specialmente i segretari amministrativi per aver fatto affluire danaro nella casse dei partiti. Nella seconda, come nel caso Lusi, per farli defluire.