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 2013  agosto 05 Lunedì calendario

L’ISOLA DEL DIAVOLO DEVE DIVENTARE UN PARADISO TERRESTRE

Questa è una storia strana. È la storia di un mezzo paradiso terrestre che coinci­deva con un carce­re. Sto parlando di Pianosa, do­ve la vita in carcere doveva esse­re dura. Sto parlando di un car­cere dove, nell’arco di un secolo e mezzo, sono stati uccisi un paio di direttori, alcuni detenu­ti e alcune guardie, qualcuno ha tentato la fuga, ci furono aspre rivolte e sanguinose re­pressioni. Non sto parlando di un posto per anime belle, puffi e fatine. Ma Pianosa era quel che un carcere deve diventare. Una colonia penale agricola, dove i detenuti imparavano a coltivare la terra, allevare gli animali, fare i formaggi, il pane, cucinare. Un posto di riedu­cazione e di reinserimento nel­la vita lavorativa, da cui molti detenuti non volevano più an­dar via, nemmeno a fine pena. Erano mille i detenuti e cin­quecento i loro vigilanti, fino al­la metà degli anni Novanta, e gran parte di loro lavoravano e si nutrivano di quel che essi stessi coltivavano. Quando mandarono sull’isola i super­detenuti in rivolta nelle carceri speciali, gli stessi carcerati del­l’isola avvisarono i nuovi arri­vati: qui non vogliamo disordi­ni, noi stiamo bene, ci coltivia­mo e ci cuciniamo noi quel che vogliamo, facciamo perfino il bagno in un mare da favola, nel­la spiaggiona di San Giovanni, la nostra è una comunità idea­le anche se composta da brutti ceffi, privati della libertà. Non fate scherzi sennò ci arrabbia­mo. E così fu. Prima di chiuder­lo ai­tempi di Dalla Chiesa qual­cuno ebbe la trovata infelice di far erigere, accanto a un magni­fico, storico muro, un altro mu­ro grigio e triste che aveva solo una funzione simbolica e sco­raggiante, perché non cinge il carcere ma separava il mondo dei liberi dal mondo dei danna­ti. «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate» ribadiva la scritta sul frontone del carcere, per ti­rar su il morale ai detenuti. E fu­rono investiti 60 miliardi per ri­strutturare qui la caserma Bombardi mentre si era già de­ciso di smantellare il carcere.
La colonia penale di Pianosa fu voluta a metà Ottocento dal­l’ultimo granduca di Toscana, Leopoldo II, poi accresciuta dall’Italia sabauda, da quella fascista (ci finirono anche i de­tenuti politici come Pertini) e da quella democristiana. Era un giardino operoso, con belle e confortevoli abitazioni, un sa­natorio, una sontuosa cantina, la scuola e tante attività di lavo­ro e ricreazione. Il paese viveva intorno al carcere. Che fu smantellato nel 1997, sotto il governo Prodi, proprio mentre si parlava di sovraffollamento delle carceri, di scopo rieduca­tivo della pena e della necessi­tà di costruire nuove carceri... Tante storie di vita e passione fiorirono sull’isola. Alcune me le racconta Beppe che si sente in esilio dalla sua Pianosa. Altre le racconta Stanislao che ar­rivò da secondino a Pianosa, e un giorno sbarcò una ragazza con una valigia rosa che veniva a insegnare nell’isola dei carce­rati e lui appena la vide da lon­tano disse, «sarà mia moglie». Così fu e lo è ancora, da qua­rant’anni. E dire che i genitori di lei si erano raccomandati: non innamorarti di un secondi­no. Me le raccontano i supersti­ti abitanti di Pianosa e le guardie penitenziarie.
Ho visitato il deserto dei tar­tari accompagnato dalla poli­zia penitenziaria che vigila su un carcere in rovina che non ha più, da sedici anni, carcera­ti. A differenza dell’opera di Buzzati, qui i tartari sono un ri­cordo nostalgico e non una va­ga minaccia futura. C’è solo una ridottissima cooperativa di ex-detenuti che gestisce l’unica trattoria. La polizia penitenziaria ha i suoi fuoristra­da, le sue motovedette, i suoi turni, in memoria del carcere. Stringeva il cuore vedere quel­le botti vuote e quella grande cantina deserta, quel caseifi­cio ormai privo di formaggi, quei campi una volta abitati da mucche e attraversati da asini, come illustra una mostra nel­l’ex ufficio postale, e ora ridotti a sterpaglia, rovine, muri scro­stati. L’ingresso solenne, il bastione napoleonico in piazza d’armi, la piscina un tempo pie­na di pesci, l’orto e il frutteto, il panificio e la lavanderia, le stal­le e la concimaia, il porcile e il pollaio, le officine e la cave di tufo, il pozzo a vento e la torret­ta vecchia; tutto in abbando­no.
In più vedi scorci di mare in­cantevole, da sogno proibito, vietato al minimo contatto. Qui mi sono abbandonato a un doppio sguardo visionario, me­tà apocalittico, metà sorgivo. Girando per quelle rovine ho avuto l’impressione di aggirarmi nel nostro futuro, nel nostro Paese dopo la crisi economica, un Paese in disarmo, abbando­nato alle ortiche, con le impre­se un tempo fiorenti ridotte so­lo a muri scalfiti d’intonaco, scritte galleggianti nel vuoto, pareti diroccate, case disabita­te, magazzini in rovina, ingres­si sontuosi ridotti a spettrali ar­chi nel vuoto... Mi sembrava una cartolina dall’Italia ventu­ra, dopo la catastrofe a lungo annunziata. Al contempo pe­rò ho avuto un’altra visione di quel che potrebbe diventare: ma perché questo Paese imbe­cille che spende non poco per sorvegliare detenuti fantasmi e vigilare le rovine in modo che tutto degradi a norma di legge, perché - dicevo - questo Paese imbecille non investe pochi ca­pitali e molti giovani per riani­mare l’isola, rifare quella co­munità e quella cooperativa, siano essi ex-detenuti o ragaz­zi in cerca di lavoro? Sarebbe un’impresa ma­gnifica riportare al­la luce questa at­lantide dei detenu­ti, riportare questa fazenda autarchi­ca al suo dinamico e fruttuoso splen­dore, ripristinare gli appartamenti, le strutture, le ca­se, le stalle, i pozzi, la vita agreste, ma­rittima, artigiana­le.
Quante Pianosa abbandonate ci so­no in Italia che potrebbero essere ri­messe in vita, dar lavoro a coo­perative di giovani, attrarre un turismo selettivo, rilanciare l’agricoltura e la zootecnia, vi­vere in autonomia con i propri prodotti? E quanti istituti di pe­na, riportati nei loro siti d’origi­ne, isole e non solo, potrebbe­ro­tornare a essere luoghi di rie­ducazione alla vita? Possibile che dobbiamo invidiare il pro­gresso al tempo degli Asburgo, lo sviluppo al tempo dei Savo­ia, la passione fondativa al tem­po del Duce, la manutenzione al tempo della Dc? Possibile che non ci siano più visionari che fondano, che ripristinano, che tentano l’impresa? A Pia­nosa ne ho incontrato alcuni, vittime della nostalgia cana­glia, che qui è sentimento ecocompatibile. I benedettini ci provarono con l’agricoltura biologica, con la pia intenzio­ne di ribattezzare l’Isola del Diavolo come Isola della Ma­donna. Possibile che in Italia dobbiamo ridurci a rimpiange­re pure i luoghi di pena d’una volta? Sarebbe un segnale di vi­ta rianimare Pianosa e ridarle fertilità. Il futuro che prende la rincorsa dal passato, la gioia che dà frutti in un luogo di pena...