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 2013  agosto 03 Sabato calendario

COSI’ INFANGAVA BERLUSCONI IL GIUDICE CHE L’HA CONDANNATO

Questo è l’articolo più diffi­cile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di pro­fessione. Un amico magi­strato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano calda­mente dissuaso dal cimentarmi nell’impresa. Ma il cittadino ita­liano che, sia pure con crescen­te disagio, sopravvive in me, s’è ribellato: «Devi!». Dunque ese­guo per scrupolo di coscienza. In una nota diramata dal Qui­rinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto ver­so la magistratura». Ebbene, si­gnor Presidente, qui devo di­chiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutri­re questi due sentimenti - fidu­cia e rispetto - per uno dei giu­dici che hanno emesso il ver­detto di terzo grado del proces­so Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della se­conda sezione della Corte su­prema di Cassazione che ha let­to la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei osti­narmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, co­me fa la maggioranza degli ita­liani, Palazzaccio.
Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell’illustre consesso e a san­zionare in via definitiva l’ex premier. Ho infatti serie ragio­ni per sospettare che non fosse animato da equanimità e sere­ni­tà nei confronti dell’imputa­to. Di più: che nutrisse una for­te antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da va­ri giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazio­ni, di cui sono stato involonta­rio spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’al­to ufficio che ricopre.
Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L’avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patroci­na, m’invita in veste di modera­tore- intervistatore. È un’in­combenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno rice­vuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Borto­li, Pietro Mennea, Gianni Let­ta. Nel 2009 la scelta della giu­ria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente ono­rario aggiunto della Cassazio­ne. Nell’occasione l’ex giudice istruttore dei processi per l’as­sa­ssinio di Aldo Moro e per l’at­tentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagna­to da un carissimo amico: An­tonio Esposito. Proprio lui, l’uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presen­tare un libro sul caso Moro, Do­veva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appe­na pubblicato.
Seguì un ricevimento all’ho­tel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d’onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che que­st’ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con pale­se compiacimento, circa il con­tenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sul­le quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Addario, sal­vo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il conte­nuto, come se le avesse ascolta­te. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’al­lora presidente del Consiglio. A sentire l’eminente magistra­to, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegna­to un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retorica­mente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?».
Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guar­davamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa perso­na per essere certo che la me­moria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stima­to funzionario dello Stato, col­locato in pensione pochi gior­ni fa. Non solo mi ha conferma­to che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpel­lato un altro dei presenti a quel­la serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Ber­lusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del ma­le», le aveva udite dalla viva vo­ce del giudice Esposito prima della consegna del premio.
Non era ancora finita. Sem­pre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pro­nunciato a carico della teleim­bonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolar­mente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magi­strato suonava assai più colori­to). Infatti, meno di 48 ore do­po, un lancio dell’Ansa annun­ciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Mar­chi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». In­credibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto con­fidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto pro­curatore generale Antonello Mura, lo stesso che l’altrieri ha chiesto e ottenuto la condan­na per Berlusconi. Ma si può ri­velare a degli sconosciuti, du­rante un allegro convivio, qua­le sarà l’esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadi­no che dovrebbe essere defini­ta, teoricamente, solo nel chiu­so di una camera di consiglio?
Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esi­bire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi pos­sa lasciare perplessi. Ma,a par­te che non ­mi pareva onesto in­fluenzare i giudici della Supre­ma Corte alla vigilia dell’udien­za, v’è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli del­l’avventura che m’è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settem­bre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dal­la Corte d’appello l’8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassa­zio­ne che ha deliberato sul pro­cesso Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di re­cente.
A pagina 52 di Visti da lonta­no, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le cir­costanze da me narrate), scri­vevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro.Debbo riconosce­re c­he sfoderò un’affabilità av­volgente, no­nostante le critiche che gli avevo rivol­to. Era accom­pagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommaria­mente abbi­gliato (cravat­ta impatacca­ta, scarpe da jogging, cami­cia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po’ brillo, mi anti­cipò lì a tavo­la, fra una por­tata e l’altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazio­nale. Da rimanere trasecola­ti».
Allora concessi al mio occa­sionale interlocutore togato una misericordiosa attenuan­te: quella d’aver ecceduto con l’Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Mar­chi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo.
Stefano Lorenzetto