Giacomo Cuscunà, Left 3/8/2013, 3 agosto 2013
GUERRA FAI DA TE
«Ormai abbiamo capito che il nostro sangue vale molto poco», commenta sconsolato Abu Ali, combattente ribelle di quarant’anni, barba brizzolata e sguardo fiero. Le tracce di questo sangue ad Aleppo non sono difficili da trovare: basta guardare negli spiazzi davanti agli ospedali, dove ambulanze e pick-up trasportano i feriti o lungo le stradine millenarie in pietra color ocra della città vecchia, dove lo sguardo dei cecchini del regime di Bashar al-Assad non perdona. Rivoli freschi, lavati via con l’acqua, o gocce rapprese, seccate dal caldo.
Se il sangue siriano è sempre più a buon mercato, vivere in Siria diventa invece via via più difficile e costoso: i prezzi salgono a ritmi insostenibili e il lavoro è un privilegio per pochi.
La durezza del momento si misura sulle piccole cose. «La gente prima della guerra comprava il formaggio al chilo», spiega Abu Nadim, 27 anni, da dietro il bancone del piccolo negozio che gestisce col padre sessantenne, «ora si acquista al pezzo o in piccole quantità». Se fino a tre anni fa proprio il formaggio costava circa 250 lire siriane al chilo (circa 1,79 euro) ora il prezzo nelle aree controllate dall’Esercito Siriano Libero (Esl) è raddoppiato: «I prodotti alimentari sono difficili da reperire e per arrivare qui dalle altre regioni della Siria impiegano anche cinque o sei giorni», incalza il padre di Abu Nadim, che poi conclude: «Prima della guerra questa era una buona attività, guadagnavamo anche 50mila lire al mese, ora arriviamo a stento a 12mila». Il negozio di Abu Nadim si affaccia su una strada centrale, ma delle mercanzie che una volta abbondavano sul banco, tra olive, pasta di pomodoro, spezie e formaggio salato, ne rimangono solamente cinque o sei tipi diversi. E i recipienti che fino a qualche anno fa si svuotavano in poche ore di lavoro ora restano pieni, in disperata attesa di qualche acquirente.
Nonostante questo drammatico aumento del costo della vita abbia intaccato tutti i settori, dai prodotti per l’infanzia ai medicinali, dalla benzina ai detersivi, il mercato di Bustan al-Qasr, nella zona meridionale di Aleppo, è forse più affollato di quanto lo fosse prima della guerra. Questo è l’unico punto sicuro dove le persone che abitano nelle zone controllate dal regime e accerchiate dai ribelli possono avere accesso alle aree liberate per rifornirsi di viveri.
Alla fine della via principale, dove i balconi sono orlati da lenzuola per nascondere l’interno dal sole e dai proiettili dei cecchini, il checkpoint è attraversabile solamente a piedi. I civili che vogliono raggiungere il mercato sfidano ogni giorno la sorte, prima rischiando le angherie dei soldati ai posti di blocco, poi affrontando il pericolo di incappare in sparatorie o bombardamenti. Da quando questo è un quartiere strategicamente importante, centro di interessi e manovre belliche, si moltiplicano gli scontri tra gruppi dell’Esercito libero e le cellule di estremisti islamici che si sono uniti alla rivolta. Le due anime del fronte degli anti Assad si fanno la guerra per il controllo dell’area e hanno idee diverse su come vada gestita: «All’interno dell’universo dei combattenti ribelli», spiega Yosef, 26 anni, che ha da poco lasciato l’Esl. «C’è stato un aspro dibattito sulla possibilità di chiudere il passaggio e impedire ogni tipo di approvvigionamento».
Vista la vicinanza della linea del fronte, anche i bombardamenti e i colpi d’artiglieria provenienti dal fronte lealista sono frequenti. Un luogo più vitale della città è anche il più pericoloso.
«Non possiamo non venire qui, i prezzi al di là del checkpoint sono molto più alti». A parlare è Muhammad, un giovane di 27 anni che vive in uno dei quartieri ancora presidiati dall’esercito di Damasco. «Se nelle aree ribelli un chilo di cetrioli costa 40 lire, dove abito io il prezzo arriva a 100. La carne qui costa 1.200/1.300 lire siriane, di là anche 2mila. E poi alcune merci non arrivano proprio». E per cercare di racimolare qualche contante «molte persone vendono i gioielli di famiglia», racconta il titolare di un piccolo compro oro proprio tra i vicoli di Bustan al-Qasr, «ma le quotazioni dei metalli preziosi salgono sempre più e anche per noi è difficile comprarli».
Vivere ad Aleppo significa vivere alla giornata, eppure anche questa giornata deve rispondere a delle regole. Ad amministrarle c’è Ahmad Azzouz, presidente del Consiglio Locale di Aleppo, una sorta di consiglio comunale che cerca di governare le aree della città controllate dalle forze dell’opposizione. «Abbiamo un piano per la ricostruzione, per dare nuovamente un tetto a chi ha perso la casa e per ristrutturare le scuole danneggiate dal regime. Ma non abbiamo i fondi per attuarlo», dichiara seduto alla scrivania del suo ufficio. «Le attività che cerchiamo di mandare avanti sono la raccolta dei rifiuti, la distribuzione dell’acqua e del pane, il funzionamento della rete elettrica, ma possiamo contare solo sulle nostre forze», perché anche il Consiglio nazionale siriano, rappresentante internazionale della rivolta contro Bashar al-Assad, non riesce a sostenere economicamente la popolazione e la nuova amministrazione del territorio libero nel nord della Siria.
E così molti battaglioni dell’Esl si trovano a dover fare i conti con la difficile situazione economica del Paese. Non hanno armi né fondi per acquistare munizioni o equipaggiamento.
Come si fa la guerra senza soldi? Ce lo spiega Abu Ali, dal quartier generale della Legione che guida da diversi mesi. Dopo una vita nel mondo del tessile, da quando la rivoluzione ha incendiato la sua città si è convertito in militante. Prima manifestando per le strade, con i cortei pacifici, ora combattendo sulle barricate. «La Liwa al-Mejed (Legione Gloria)», spiega, «raggruppa diverse brigate al suo interno, per un totale di 400-600 uomini. Ma a volte siamo costretti ad allontanare gruppi di volontari perché non siamo in grado di provvedere al loro approvvigionamento di cibo e di armi. Eppure cerchiamo comunque di aiutare le persone nella vita di tutti i giorni. Ora ad Aleppo e poi via via in tutto il Paese, fino alla liberazione completa dal regime». Abu Ali non nasconde l’amarezza nei confronti dell’inazione occidentale davanti al massacro siriano: «Non siamo solo noi ribelli a essere sorpresi, anche Bashar lo è stato quando ha capito di poter usare ogni tipo di armi contro la sua popolazione. Prima ha inviato piccoli nuclei di forze di sicurezza contro i manifestanti, poi l’esercito, poi i carri armati e l’aviazione e infine le armi chimiche». Per rispondere all’offensiva di Bashar, la Liwa al-Mejed e altre formazioni combattenti hanno avviato l’attività di autoproduzione di armi e munizioni. «Lavoriamo in questo settore da sei mesi, e da uno e mezzo abbiamo ottenuto dei manufatti funzionanti. Produciamo mortai e tre calibri differenti di proiettili da inserirci. Poi stiamo collaborando con alcuni ex ufficiali del regime per avviare la produzione di proiettili di kalashnikov, granate e razzi». Le armi fatte a mano sembrano funzionare e la produzione procede a pieno ritmo: «Realizziamo fino a 100 proiettili di mortaio al giorno», spiega uno dei quattro artigiani che lavorano nella casamatta, mentre traffica con la polvere pirica, «e quelli che non usiamo, li vendiamo agli altri gruppi. È l’unico modo per finanziarci e andare avanti». Il lavoro è pericoloso e naturalmente non vige nessuna norma di sicurezza. Lo stabilimento, due baracche di mattoni e lamiera, senza finestre e con poche lampadine al neon, è pieno di macchinari e residui metallici della lavorazione. «In effetti abbiamo subito diversi incidenti e un compagno è morto nell’esplosione accidentale di un ordigno», raccontano.
La Siria in due armi e mezzo di conflitto ha sepolto più di 100mila persone. Nell’indifferenza della comunità internazionale, aumenta il numero di chi vive alla giornata e muore prima dell’alba.