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 2013  agosto 03 Sabato calendario

IN SPIAGGIA ARRIVANDO IN METRÒ DA NEW YORK


Ci arriva il metrò, con due linee dirette dal Bronx: un’ora e mezza di tragitto. E già questo vi dice che sono destinazioni democratiche, nazional-popolari: agli antipodi rispetto agli Hamptons di Long Island, dove i miliardari raggiungono le loro ville in elicottero. Coney Island, capolinea della D, la linea arancione. Rockaway Park Beach, capolinea della A, la metropolitana blu. Sono le due spiagge più accessibili per noi newyorchesi: il costo di un biglietto da due dollari e 50.
Niente stabilimenti, ciascuno si porta asciugamani, seggiolino pieghevoli e cesti del ghiaccio con le bibite e i panini. Le riconosci subito nel metrò, le famiglie che friggono dall’afa soffocante di New York cercando qualche alito di brezza, qualche metro di sabbia al sole, un po’ d’acqua fresca in cui affondare fino alle cosce. Le riconosci per le infradito e i giocattoli dei bambini, l’odore di creme solari e l’aria gioiosa di chi assapora la destinazione, di chi sta per regalarsi una giornata di vacanza.
Quando arrivi sulla spiaggia, se conosci il Mediterraneo o i Caraibi, la delusione è tremenda. Coney Island almeno ha la frenesia del Luna Park (il più antico del mondo, riaperto di recente). Rockaway non ha neppure quello: di fronte al mare incombono palazzoni di cemento grigio sporco, case popolari squallide. E le distruzioni ancora ben visibili dell’uragano Sandy aggiungono un tocco di malinconia.
Lunghissime strisce di sabbia bianco-giallastra a perdita d’occhio, pochi ciuffi di verde, nessun rilievo all’orizzonte. Di fronte hai l’acqua grigia dell’Oceano Atlantico, inquinata dal traffico di navi mercantili e petroliere, incolonnate al largo, che attendono di entrare nei porti di NewYork.
La concentrazione umana è inverosimile, al confronto la riviera adriatica a Ferragosto sembra semideserta. Questo è un vero carnaio. E a peggiorare il quadro vige quasi ovunque il divieto di balneazione, per la pericolosità delle correnti e del riflusso dei cavalloni.
Eppure l’atmosfera non è triste, tutt’altro. La prima cosa che colpisce è la disciplina. In questa sterminata folla multietnica, prevalentemente povera, dove dominano i neri e gli immigrati ispanici, in altre parti del mondo ti aspetteresti una certa dose di caos. Invece qui il rispetto delle regole è impressionante. I bagnini in divisa arancione fischiano implacabili se qualcuno supera di pochi centimetri la zona d’acqua poco profonda dove anche i bambini possono sguazzare senza pericolo. Fischietti e gesti imperiosi con le braccia: e tutti obbediscono, non ce n’è uno che se ne freghi dei bagnini e tenti di spingersi appena un po’ oltre. Nessuno sente musica ad alto volume. Zero cartacce o lattine per terra, nonostante l’affollamento dei picnic familiari.
E sono tutti allegri, cortesi, entusiasti. È un luogo di socializzazione immediata. Dopo un attimo coi piedi in ammollo mi ha già rivolto la parola una ragazza colombiana, che vuole sapere da dove vengo, se conosco già la spiaggia. In fila per quaranta minuti per un gelato cosiddetto “all’italiana” (immangiabile), un peruviano col figlio piccolo mi chiede notizie dell’Italia. Tutti parlano con tutti, è una festa mobile permanente, una sorta di grande quartiere popolare afro-latino che crea un’atmosfera comunitaria, gioiosa e cortese.
C’è anche tanta polizia, sempre visibile: poveracci anche loro, costretti a indossare divise d’ordinanza scure, scarponcini di plastica che alla fine del turno di lavoro devono ridurgli i piedi in fiamme. Poliziotti, uomini e donne, multietnici pure loro, spesso obesi, sudatissimi, solerti e inflessibili nel controllare il rispetto di tutti i divieti: sulla spiaggia non si fuma, e non si gioca a pallone in zone dove si possano infastidire i bagnanti.
È una povera caricatura di mare, anche rispetto ai paesi da cui provengono tanti di loro: giamaicani o dominicani, haitiani, messicani. Ma è un gran bell’affresco dell’America multietnica che funziona, quella che riesce a convivere grazie all’accettazione di regole comuni.