Gloria Mattioni, D, la Repubblica 3/8/2013, 3 agosto 2013
HO UN MILIONE DI AMICI
Sabato 6 luglio, l’agenda di Sheryl K. Sandberg, Chief Operative Officer di Facebook, era tutta dedicata a rassicurare il suo milione e duecentomila “followers”. La manager avrebbe infatti dovuto essere sull’aereo dell’Asiana Airlines schiantatesi nell’atterraggio all’aeroporto di San Francisco, ma all’ultimo momento aveva cambiato idea e compagnia di volo. Ufficialmente, si trovava in Corea del Sud per presentare il suo libro Lean in, Facciamoci avanti, uscito a marzo in 20 lingue e venduto in 600mila copie solo negli Usa (in Italia è pubblicato da Mondadori). Ma il Korea Herald all’indomani dell’incidente aereo pubblicò una storia ben diversa, sostenendo di avere ricevuto soffiate credibili d’incontri tra Sandberg e Shim Soo-Ok, vicepresidente della Samsung e capo della divisione dei telefoni cellulari, per discutere una possibile partnership. E i pettegolezzi cominciarono a rimbalzare come i fuochi d’artificio dell’appena celebrata indipendenza americana. Come sempre succede con le celebrity. Un giorno si parla di Sandberg come promotrice di una nuova rivoluzione interna per cui Facebook dovrebbe conquistare anche la tivù (accendi lo schermo e il video ti dice: quattordici tra i tuoi amici stanno guardando CSI Miami). Il giorno dopo, è a capo della commissione per i perigliosi accordi con la Cina. Lei non conferma né smentisce. Mai. Come una diva.
«Non odiatela perché ha successo». Così il Times qualche mese fa a Sandberg dedica la copertina. Ma la curiosa verità è che, nonostante i soldi (tanti, e guadagnati con mosse da campione di scacchi nella sua variegata carriera) e le molte “odiose”onorificenze (come “più potente”, “più influente” e via di questo passo nelle varie classifiche compilate ogni anno da riviste come Fortune e Newsweek o sito di news come il Daily Beast di Tina Brown), Sheryl Sandberg è una difficile da odiare. Per carità, c’è chi la critica, e anche acidamente: per esempio la columnist del New York Times Maureen Dowd, vincitrice di premio Pulitzer, che l’ha definita «a Power Point pied piper in Prada ankle boots» (una versione Power Point di una pifferala magica con stivaletti di Prada), stroncando il suo libro come un’accozzaglia di banalità. Ma in generale, Sandberg conquista per tre motivi: è aperta a condividere molto di sé; è competente e sicura abbastanza da non dovere sbandierare qualifiche e trofei; è pronta ad ammettere di avere sbagliato e non è affetta dalla sindrome di chi deve avere sempre l’ultima parola.
A lei i cambiamenti non hanno mai fatto paura. Prima di decidere che l’innovazione passava soprattutto per la tecnologia, approdando a Google, Sandberg era interessata soprattutto a economia e finanza. Laureata in Economia a Harvard con una tesi seguita da Lawrence Summers, professore di economia nel settore pubblico, a 22 anni venne chiamata da Summers a fare da assistente ricercatrice alla World Bank. Due anni dopo, decise di tornare sui banchi della Harvard Business School, lavorare per McKinsey per un breve periodo (e sposare un uomo d’affari di Washington, per un periodo altrettanto breve). Poi nel 1995, quando Summers divenne il Deputy Treasury Secretary dell’amministrazione Clinton sotto Robert Rubin, Sandberg accettò ancora una volta la proposta del suo pigmalione e divenne capo del suo staff. Nel 1999, Summers avanzò di posizione divenendo Treasury Secretary, e Sandberg avanzò di conseguenza. Poi successero due cose: Sheryl compì trent’anni, il 28 agosto di quello stesso anno, e il partito democratico perse le elezioni (l’anno seguente). Tempo di issare le vele e cambiare rotta. Spostatasi nel centro della tech revolution, Sandberg venne subito corteggiata da Google, che allora aveva però solo tre anni di vita e “neppure un business plan”: ci mise un bel po’ a cedere, ma verso la fine del 2001 decise di accettare il rischio. La sua carica era “Business unit manager” a dispetto del fatto che non esistesse una Business unit. Sandberg si candidò a fare da supervisore alle vendite degli annunci pubblicitari, un’operazione ancora agli inizi. Nel 2002, quando AOL accettò di utilizzare Google come motore di ricerca contro il pagamento di centocinquanta milioni all’anno, fu proprio Sandberg a mandare in porto l’accordo che catapultò Google nel Guinness dei primati.
«Potrebbe essere il Chief Executive Officer di qualsiasi azienda volesse», oggi dice di lei il suo boss attuale, Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, «ma il fatto che davvero ami rimboccarsi le maniche e darsi da fare senza dover fare la prima della classe è la cosa che più ti impressiona». Lasciare a casa il proprio ego non è cosa molto comune per i grandi calibri. Neppure nella tech-industry della Silicon Valley. Sicuramente illuminata e rivoluzionaria nelle sue pratiche se comparata alle vecchie multinazionali o aWall Street, ma ugualmente dominata da culto della personalità. Sandberg non lo alimenta affatto. «La maggior parte dei manager altamente qualificati che incontri», dice Howard Schultz, CEO di Starbucks, che ha Sandberg nel suo vertice di consiglieri (così come Disney e persino, per le questioni del lavoro, il presidente Obama), «vogliono raccontarti tutto ciò che hanno fatto e farti vedere quanto sono intelligenti per fare colpo su di te. Sheryl non è affatto così». Poco ego, dunque, e la capacità di creare una connessione personale e immediata con le persone che l’ammirano, le sono sottoposte o guardano a lei come a un possibile modello, hanno fatto di Sandberg una plausibile cheerleader per le laureande che stanno per entrare nel mercato del lavoro e nella battaglia dei ruoli, così come per le giovani donne già in carriera.
Il messaggio che ha fatto di lei una paladina, “Lean in” (ovvero “Dacci dentro” come esortano i coach sportivi), più che banale è semplice, immediato e a presa rapida. «Lavora duro a ciò che ti appassiona e non mollare»: Sandberg ha definito il suo libro «una sorta di manifesto femminista» perché «combina dati e ricerche sui generi con storie della mia esperienza personale, ma vuole anche essere una chiamata alle armi perché le donne lottino per ottenere tutto ciò che meritano». Non ha paura di usare il termine femminismo, semplicemente perché è ora di farlo. «Se qualcuno pensa che l’uguaglianza fra i generi sia stata già raggiunta, meglio che si aggiorni. Le donne hanno fatto enormi progressi a ogni livello meno che come leader. Trent’anni fa eravamo già la metà dei laureati, ma nelle aziende la percentuale del 14% di donne al primo o secondo posto decisionale è rimasta invariata negli ultimi dieci anni, così come il 17% di quelle che siedono nei vertici dei consiglieri. E le aziende sono un perfetto specchio della società: su 190 capi di stato oggi nel mondo, solo nove sono donne. Warren Buffett (il genio finanziario che predisse le rovinose conseguenze economiche della bolla immobiliare negli Stati Uniti, a cominciare dal 2007) lo sintetizzò con molta grazia quando dichiarò che una delle ragioni del suo successo è che ha dovuto competere solo con metà della popolazione. Io vorrei un mondo in cui ci siano sempre più donne in gara».
Sandberg è convinta che le barriere da abbattere non siano solo istituzionali ma anche interne (o psicologiche, sarebbe meglio dire): per esempio, la convinzione che famiglia e posizioni di potere siano incompatibili, una delle ragioni per cui le donne spesso mollano troppo presto o non si fanno avanti abbastanza. «Alice Walker ha riassunto in una sola frase quello che io cerco di dimostrare con il mio libro: “il modo più comune in cui la gente dà via il proprio potere è pensando di non averne”». Di conseguenza, il libro è anche generoso di consigli su “come” farsi avanti, sedersi al tavolo delle riunioni, giocare le proprie carte, imparare il proprio valore (e rivendicarlo nelle contrattazioni!). «Partendo da un presupposto», aggiunge. «Più che al livello della posizione, bisognerebbe guardare al potenziale di crescita. Per esempio, quando nel 2008 ho lasciato Google per accettare l’offerta di Mark Zuckerberg (arrivata dopo sei settimane di cene bisettimanali in cui i due si scambiavano brandelli delle proprie vite, aspirazioni, passioni e esperienze per scoprire quanto compatibili sarebbero stati, ndr), l’ho fatto per un motivo fondamentale: Facebook aveva già dimostrato la capacità di cambiare le nostre vite. E questo è quello che per me conta di più».
A Facebook Sandberg negoziò uno stipendio di 300mila dollari l’anno e una buona quota di dividendi aziendali, consapevole che la sua esperienza di marketing e vendite online coltivata a Google era preziosa: la carta su cui scommettere perché Facebook cominciasse a guadagnare non solo in milioni di utenti (oggi più di un miliardo, quadruplicati dal 2009) ma in milioni di dollari (219 netti nel 2013, un bel recupero da contrapporre all’iniziale flop a Wall Street quando Facebook, un anno prima, decise di quotarsi in Borsa). Come farlo, era un problema a cui Mark Zuckerberg non aveva ancora saputo dare una risposta. Sandberg, pur forte della sua fama di donna di denari, decise di fare una sorta di sondaggio personale tra gli impiegati: meglio puntare sulla pubblicità o arrendersi a fare pagare l’abbonamento, fino ad allora gratuito? Vinse la prima ipotesi, quella sostenuta dalla stessa Sandberg, e lei si guadagnò il soprannome di Miss Open Book: nessun altro VIP della Silicon Valley pratica la condivisione quanto lei. «Sheryl è una che davvero s’interessa all’opinione e ai problemi degli altri e che ne tiene conto», commenta Molly Graham, che l’ha seguita da Google e che è anche un’amica, poiché Sandberg non crede sia una buona idea separare dal lavoro la vita personale. Così come ammette di avere perso la scommessa a suo tempo con Wall Street («quando punti sempre alto, a volte capita di sbagliare»), e non fa mistero di avere qualche ansia comune a tutte le mamme lavoratrici con figli piccoli (i suoi hanno sette e cinque anni). «Fortunatamente ho un marito che, nonostante le sue responsabilità (è David Goldberg, CEO della tech Survey Monkey, ndr), capisce che anche cura dei figli e lavori di casa vanno spartiti al 50%. Per una donna, la scelta più importante per la carriera è come decide di organizzare la propria vita privata». Ma ha comunque imposto di concludere il suo quotidiano orario di lavoro a Menlo Park alle 17,30: «altrimenti non potrei partecipare alla vita dei miei figli, che vanno a letto presto». Compensa alzandosi ogni mattina alle 6 e sbrigando le email prima di accompagnare i figli a scuola o, a seconda dei turni col marito, andare in palestra. E poi è in ufficio, presente al 100%, a coltivare flessibilità nelle relazioni con gli impiegati così come nella sua vita privata.
Mentre a Google hanno lanciato una campagna per eliminare il lavoro da casa e i part-time, Sandberg offre assenze per paternità, non solo per maternità, e orario flessibile per novelli genitori, con durata concordabile. «Ma la ragione per cui veniamo sommersi dai curricula non appena apriamo le candidature per un posto di lavoro, è un’altra. Ed è tutto merito di Mark», si schermisce, «Facebook utilizza la più avanzata tecnologia a disposizione. Per questo rimarrà sempre ai primi posti e continuerà a crescere». Fa, come sempre, un esempio personale, aprendo la sua timeline, con una foto che la ritrae di spalle e con un neonato in braccio: «Ho circa un milione tra amici, familiari e ammiratori. Ma mi basta un click per decidere con chi e cosa voglio condividere, di volta in volta». Un consiglio finale, un motto da appendere al muro come quelli nei corridoi di Facebook? «Ogni mattina, chiedersi: cosa farei se non avessi paura? E fare proprio quella cosa lì. Dandoci dentro».