Massimo Gaggi, Corriere della Sera 6/8/2013, 6 agosto 2013
IL WASHINGTON POST CAMBIA PELLE
Dopo quattro generazioni, la dinastia dei Graham che ha guidato il giornale negli anni di gloria culminati nel Watergate (il presidente Nixon «dimissionato» da un’inchiesta del Washington Post ), cede il controllo della testata a Jeff Bezos per 250 milioni di dollari. Per chi ha a cuore il futuro del giornalismo, la parte positiva della notizia è che il fondatore di Amazon, uno degli uomini più ricchi del mondo e capo di un impero di editoria e commercio digitale che fin qui si è dimostrato di certo molto lungimirante, ha deciso di investire in prima persona nel rilancio di una testata in crisi ma gloriosa: un giornale che ha ancora un’enorme capacità di produrre contenuti di alto livello.
La parte negativa della storia la si ritrova, più ancora che nel comunicato della società, nelle parole dette dall’amministratore delegato del gruppo Donald Graham, figlio di Catherine, storica editrice del giornale fondato nel 1877, alle maestranze del giornale poco dopo la ratifica della cessione della società: Graham in sostanza ha spiegato che l’azienda ha fatto tutte le ristrutturazioni necessarie per adeguare il giornale alle nuove tecnologie e ai mutamenti del business editoriali. Ma, nonostante questo, il giro d’affari ha continuato a contrarsi, anno dopo anno, per sette esercizi consecutivi, mentre i risultati economici restano insoddisfacenti: «Avremmo potuto continuare così, saremmo riusciti a sopravvivere. Ma noi vogliamo qualcosa di più della mera sopravvivenza».
L’ammissione di un insuccesso. Divenuto insostenibile quando anche le altre attività del gruppo (corsi universitari della Kaplan) hanno cominciato a fare acqua. Le cose cambieranno con Bezos o l’imprenditore si limiterà a fare il filantropo finanziando lo sviluppo del giornale senza eccepire sul rendimento di un investimento che sarà comunque, per lui, trascurabile?
Per adesso l’apparenza è quella dell’intervento di un benefattore, più che di un imprenditore: Bezos, che ha acquistato il Washington Post in prima persona, senza coinvolgimenti diretti di Amazon, ha chiesto alla «publisher» e amministratrice dell’azienda editoriale, Katharine Weymouth, la nipote di Donald Graham, di continuare a gestire l’azienda e ha confermato tutti gli altri dirigenti, compreso il direttore del giornale, Martin Baron. Da tempo si parla di una redazione che, nonostante i tagli e la chiusura di tutti gli uffici di corrispondenza all’estero, è ancora sovradimensionata. Ma Bezos ha assicurato che non ci saranno licenziamenti tra i duemila dipendenti. E ai dubbiosi ha risposto con una battuta: «Ho già un lavoro che mi impegna molto, non ne sto cercando un altro».
Da oggi, però, si discuterà del significato di questa acquisizione: delle ripercussioni che avrà tra gli editori — molti dei quali, soprattutto quelli librari, già sentivano il fiato sul collo di Amazon — e tra i grandi gruppi dell’economia digitale. Un interesse per il Washington Post in passato l’aveva manifestato anche il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, grande amico di Donald Graham. I due si erano scambiati esperienze nei rispettivi campi. Graham aveva anche tentato (invano) di diventare azionista di Facebook. Mentre Zuckerberg, pur interessato al giornalismo e ai suoi contenuti (Facebook già fornisce notiziari ai suoi utenti sulla base dei loro interessi e preferenze) non si era spinto fino al punto di ipotizzare l’acquisto della testata. E anche il presidente di Google, Eric Schmidt, ha parlato spesso di un impegno dell’azienda (che con la sua raccolta pubblicitaria ha tolto ossigeno all’editoria digitale) per la sopravvivenza del giornalismo di qualità. Bezos apre una strada nuova?
I grandi imprenditori americani del digitale si dicono eticamente impegnati a fare del bene alla società. Ma a Washington fin qui hanno investito soprattutto in grandi team di comunicazione politica avendo scoperto — con ritardo — il peso enorme e insostituibile delle lobby.
Massimo Gaggi