Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  agosto 07 Mercoledì calendario

ILTURISTA MATEMATICO

L’Egitto ha ispirato innumerevoli opere di fantasia, dalle favole bibliche di Giuseppe e Mosè alle avventure letterarie o cinematografiche di Hercule Poirot e Indiana Jones. Ma nessuna riesce a uguagliare il fascino della realtà che ancora emana dai suoi innumerevoli siti e reperti archeologici: i tesori del museo del Cairo, i templi di Karnak e Luxor, le tombe della Valle dei Re e i monumenti di Abu Simbel continuano a far sognare i turisti di tutto il mondo, da quando sono riaffiorati dall’oblio nel quale li aveva sprofondati la sabbia del deserto.
Ma niente può rivaleggiare, nell’immagine dell’antico Egitto, con le sue innumerevoli piramidi, che sembra prendano il nome dal greco pyr, “fuoco”, perché hanno una forma appuntita simile a quella con cui finisce la fiamma. Alcune sono a gradoni, come quella del faraone Djoser a Saqqara. Altre hanno due diverse inclinazioni, maggiore in basso e minore in alto, come quella del faraone Snefru a Dashur. La maggior parte è a base quadrata e facce triangolari, come quella celeberrima del faraone Cheope, figlio di Snefru, a Giza.
I Greci e i Romani consideravano quest’ultima una delle sette meraviglie del mondo: la più antica, e anche l’unica arrivata fino a noi. Ed è difficile che le altre sei potessero rivaleggiare con essa, non essendo altro che giardini, templi e statue di due millenni dopo. Niente di così grandioso e venerabile come quel maestoso e geometrico ammasso di pietre, risalente a più di quattro millenni e mezzo fa, affiancato dalle due piramidi minori di Chefren e Micerino. E, per buona misura, dalla statua della Grande Sfinge, che forse ritrae lo stesso Cheope.
La silenziosa singolarità delle piramidi sembra fatta apposta per attirare il suo opposto, cioè la rumorosa molteplicità degli storici professionisti e degli esoterici dilettanti. Basta curiosare fra gli scaffali delle librerie, specializzate e non, per accorgersi dell’esagerata quantità di testi volti a rispondere alle domande fondamentali dell’egittologia profana praticata dai turisti di ogni tempo: a cosa servivano le piramidi? come sono state costruite? che preziosi tesori racchiudevano? che misteriose proporzioni nascondevano?
Il matematico che vi si trovi davanti non può mancare di notare che un popolo costruttore di piramidi
doveva avere un senso geometrico ormai ben sviluppato. In particolare, conosceva il concetto di poligono regolare, costituito da lati e angoli tutti uguali. E, soprattutto, conosceva il concetto di solido regolare, costituito da facce e angoli tutti uguali: una vera e propria meraviglia del mondo matematico, così come la Grande Piramide lo era di quello architettonico.
Due di questi solidi regolari sono, infatti, variazioni sul tema della piramide. Più precisamente, il tetraedro è la piramide regolare a base triangolare, costituita da quattro triangoli equilateri. L’ottaedro si ottiene invece incollando per la base due piramidi regolari a base quadrata, ed è dunque costituito da otto triangoli equilateri.
A scanso di equivoci, la Grande Piramide non è esattamente metà di un ottaedro, benché poco ci manchi. I triangoli delle facce sono isosceli, ma non equilateri: le basi sono di circa 230 metri, ma i lati di circa 220. Sia l’inclinazione che l’altezza risultano dunque un po’ inferiori al necessario, rispettivamente di circa 3 gradi e di circa 16 metri. Semplicemente, la Grande Piramide è stata costruita per soddisfare altre proporzioni.
E queste proporzioni sono quelle cosiddette “auree”, che si ritrovano nel rapporto fra l’altezza delle facce triangolari, e la metà del lato della base quadrata. La cosa fu scoperta fortunosamente, fraintendendo le
Storie di Erodoto. In un brano, infatti, sembrava si dicesse che le facce triangolari erano uguali al quadrato costruito sull’altezza. In realtà Erodoto non dice quello, ma la Piramide rimane comunque fatta così.
Naturalmente, non sono soltanto i matematici di oggi ad andare in pellegrinaggio di fronte alle piramidi.
Lo facevano anche quelli di ieri, e il più famoso di coloro che ci andarono fu Talete. Secondo le
Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, egli «calcolò l’altezza delle piramidi dalla lunghezza della loro ombra, misurata nel momento in cui essa è esattamente uguale all’altezza del corpo umano». Quest’affermazione un po’ criptica permette di calcolare facilmente l’altezza di un obelisco. Nel momento in cui il Sole produce l’ombra di un uomo pari alla sua altezza, infatti, l’ombra dell’obelisco è anch’essa pari alla sua altezza, e basta misurare l’ombra per terra.
Per una piramide, però, la cosa è più complicata, perché della sua ombra si può misurare solo la parte che sporge fuori di essa, e non l’intera lunghezza fino al centro. Ma si può aspettare il momento in cui i raggi del Sole sono paralleli a due lati della base della piramide, e perpendicolari agli
altri due. In tal caso la lunghezza totale dell’ombra è pari alla parte che sporge fuori della piramide, più metà del lato.
A questo punto, per misurare l’altezza della Grande Piramide basta andarci il 21 novembre o il 20 gennaio, e misurare l’ombra che sporge fuori dalla piramide a mezzogiorno. Infatti, a causa della posizione di Giza, in quei due giorni il Sole produce a mezzogiorno l’ombra di un uomo pari alla sua altezza. E a causa dell’orientamento secondo i punti cardinali dei lati della Grande Piramide, mezzogiorno è anche il momento in cui i raggi del Sole si allineano con la base, in qualunque giorno.
Perché le cose siano andate come le racconta Diogene Laerzio, Talete dev’essere capitato a Giza proprio negli unici due giorni dell’anno in cui poteva stupire gli Egizi. È più probabile che sia invece andata come la racconta Plutarco nel
Convivio dei Sette Sapienti.
Secondo la testimonianza dal faraone Amasis, che a quanto pare assistette all’evento: «Hai piantato il bastone sul limite dell’ombra proiettata dalla piramide. Il Sole ha generato due triangoli. E tu hai dimostrato che tra la piramide e il bastone c’è la stessa proporzione che sta fra ombra e ombra». In questa versione, la misura si può fare a mezzogiorno di qualunque giorno, senza dover aspettare i due in cui il Sole produce ombre uguali alle altezze. Bisogna però prima dimostrare che due triangoli simili hanno i lati corrispondenti proporzionali fra loro. Dopo di che, si può ricavare l’altezza della piramide o dell’obelisco, facendo la proporzione con l’altezza
nota del bastone o dell’uomo, che è la stessa di quella fra le loro ombre misurate.
Ma l’affermazione che due triangoli simili hanno i lati corrispondenti paralleli proporzionali fra loro si chiama, non a caso, “teorema di Talete”! Ed è possibile che l’ispirazione gli sia venuta proprio quando si trovò di fronte alla Grande Piramide, per calcolarne l’altezza. Difficile che qualunque altro matematico in gita a Giza abbia mai potuto eguagliare una tale impresa, intuendo di fronte a una delle meraviglie del mondo un vero e proprio “risultato da manuale”: cioè, un teorema che sta in tutti i libri di testo, e che tutti gli studenti imparano a scuola.
(1. Continua)

Puntata 2
Ascuola ci insegnano che siamo tutti figli delle religioni ebraica e cristiana, e delle civiltà greca e romana: per capire da dove veniamo e chi siamo, dunque, ci suggeriscono di leggere la Bibbia e di studiare il greco e il latino. Peccato che gli Ebrei e i Greci, in realtà, molta della sapienza che ci hanno tramandata l’abbiano imparata e importata dall’Egitto.
L’idea che «in principio era il Verbo», ad esempio, risale alla creazione del mondo attraverso la parola da parte del dio Ptah, dal quale il paese prese il nome di
Het-Ka-Ptah,
“Casa dello Spirito di Ptah”. Il monoteismo fu invece inventato dal faraone Akhenaton, padre di Tutankhamon: il famoso “King Tut”, noto per il tesoro rinvenuto nel 1922 da Howard Carter nella sua tomba. I dieci comandamenti furono mutuati dal
Libro dei morti,
e costituivano la base per il giudizio delle anime da parte di Osiride.
Quest’ultimo ha fornito l’ispirazione per il mito dell’uomo divino che, dopo essere stato tradito e ucciso, scende agli inferi e risorge. La storia di Iside e del figlio concepito miracolosamente, infine, ha ispirato l’iconografia della Vergine e del bambinello: addirittura, molti templi della valle del Nilo dedicati alla prima, furono poi tranquillamente trasformati in chiese consacrate alla seconda.
Mitologia a parte, il vero lascito egizio è la sua matematica, che costituisce il fondamento della nostra scienza e della nostra tecnologia. Anzi, dell’intera cultura umana, visto che sembra che la scrittura sia nata proprio in Egitto, più di cinquemila anni fa, per evoluzione del primitivo sistema di notazione contabile, da cui poi si sviluppò anche l’aritmetica. Nei musei di mezzo mondo si possono osservare le statue che mostrano i contabili egizi, e i successivi scribi, assisi con i loro strumenti di lavoro: papiro e rullo, calamaio e pestello, pennello e righello …
Gli Egizi non facevano però i conti nel sistema decimale che noi impariamo fin dalle elementari. Sorprendentemente, usavano invece il sistema binario dei computer moderni, tre millenni prima che Leibniz credesse di averlo inventato nel 1679. E anche due millenni prima dei Cinesi e uno prima degli Indiani, che lo
riscoprirono indipendentemente molto dopo gli Egizi.
Questo sistema ha un vantaggio didattico, perché richiede di conoscere solo la tabellina del 2. Per capire come questo basti a fare qualunque moltiplicazione, proviamo a vedere come un egizio avrebbe moltiplicato 7 per 9, senza conoscere la tabellina di
nessuno dei due numeri. Anzitutto, avrebbe generato la sequenza 1, 2, 4, 8, …, fino a trovare una potenza di 2 che superasse il primo fattore: in questo caso, poiché stiamo moltiplicando 7, il numero cercato sarebbe appunto 8. Poi l’egizio avrebbe notato che 7 è uguale a 1 più 2 più 4. E avrebbe raddoppiato successivamente il secondo fattore, cioè 9, in modo da moltiplicarlo per questi numeri, ottenendo 9, 18 e 36. Sommando il tutto si ottiene 63, che è appunto 7 per 9.
Se invece avesse voluto moltiplicare 6 per 9, avrebbe notato che 2 più 4 fa 6, e avrebbe considerato solo 18 e 36, che sommati fanno 54. Il motivo per cui il procedimento funziona sempre, è che nel loro sistema binario ogni numero si può scrivere come somma di potenze di 2, esattamente come nel nostro sistema decimale ogni numero si può scrivere come somma di potenze di 10.
Naturalmente, oltre a moltiplicare i numeri, bisogna anche sa-
perli dividere. Ancora più stranamente che per gli interi, gli Egizi non usavano frazioni qualunque, ma solo quelle con numeratore 1, che sono appunto passate alla storia come
frazioni egizie.
Qui le cose si complicano, ma diventano anche stimolanti: se si dedicasse in tutte le scuole un’ora la settimana a queste frazioni, invece che alla mitologia egizia, certo i cervelli dei nostri studenti ne risentirebbero positivamente! Così come sono, invece, avranno qualche difficoltà a esprimere da soli in frazioni egizie non ripetute anche dei numeri razionali semplici, come 3/5: per curiosità, una possibile risposta è 1/3 più 1/5 più 1/15.
La geometria dell’antico Egitto, comunque, è molto più nota della sua aritmetica. Basta visitare, sulla riva occidentale del Nilo a Luxor, la tomba di Menna, “scriba dei campi del Signore delle Due Terre”, per poter osservare in azione nei suoi dipinti uno dei primi geometri della storia, nei due sensi della parola: l’agrimensore e il matematico. In greco “geometria” significava appunto “agrimensura”, e in egiziano i praticanti di quest’arte venivano chiamati
harpedonaptai,
“tenditori di funi”: la corda tesa era infatti uno strumento versatile, che poteva allo stesso tempo servire da riga e da compasso.
Mediante questo strumento, e millenni prima che i Greci ne divenissero i più sofisticati interpreti, gli Egizi stabilirono i rudimenti della geometria. In particolare, scoprirono le nozioni di poligono e di solido regolare, e ne ricavarono l’ispirazione per la forma che oggi noi associamo alla loro cultura: la piramide a base quadrata, che rappresenta una versione semiregolare del tetraedro, e costituisce una metà dell’ottaedro. Non a caso, la tradizione esoterica riteneva che le piramidi reali che si ergevano sopra il terreno si riflettessero sottoterra, a completare appunto un ideale ottaedro.
Le più famose piramidi sono
ovviamente quelle di Giza, vicino al Cairo. Furono costruite circa quattro millenni e mezzo fa, nel giro di un solo secolo, da tre generazioni successive di faraoni: il padre Cheope, il figlio Chefren e il nipote Micerino. I loro lati sono quasi perfettamente allineati ai quattro punti cardinali, e le diagonali sudorientali delle prime
due stanno praticamente sulla stessa retta.
La realizzazione delle piramidi rappresentò una sfida non solo tecnologica, ma anche intellettuale. Per costruirle mantenendo una pendenza fissa delle rampe di lavoro, gli Egizi dovettero tenere costante il rapporto tra quanto volevano avanzare e quanto dovevano
costruire in altezza, arrivando così alla definizione della moderna
cotangente
dell’angolo formato dalle facce con la base. Per calcolare i volumi essi trovarono invece la formula, oltre che per la piramide stessa (base per altezza, diviso tre), anche per un suo qualunque tronco (somma delle basi e della radice del loro prodotto, per altezza, diviso tre): una formula, quest’ultima, considerata la vetta della loro matematica.
Un altro monumento che testimonia la perizia geometrica degli Egizi fu il faro di Alessandria, una della sette meraviglie del mondo, distrutta da un terremoto nel 1303. Gli storici raccontano che era costituito da una base quadrata, un tronco ottagonale e una sommità cilindrica. L’ottagono non era regolare, ma tagliava gli angoli del quadrato a un terzo dei lati: aveva dunque all’incirca le dimensioni del cerchio inscritto nel quadrato. Dalla relazione fra le tre figure, si deduce facilmente un valore approssimato di 3,16 per pi greco: un errore di solo il due per cento rispetto al famoso 3,14 trovato da Archimede, con un
tour de force
matematico di tremenda complessità.
Dei matematici egizi non ci sono pervenuti nomi memorabili, ma di alcuni loro allievi sì: sia Talete che Pitagora, infatti, hanno studiato in Egitto. E lo stesso teorema di Talete, sulla proporzionalità dei lati di triangoli simili, scaturì dal problema che gli fu posto a Giza, di calcolare l’altezza della Grande Piramide: problema che lui risolse facendo le proporzioni fra le ombre del monumento e di un bastone piantato in terra. In quel momento si effettuò un ideale passaggio di testimone dalla scuola egizia a quella greca: che non nacque già formata, come Venere dalla spuma del mare, ma scaturì invece da una tradizione millenaria, sbocciata e fiorita come un loto sulle acque del Nilo.
(2.Continua)
Piergiorgio Odifreddi