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 2013  agosto 07 Mercoledì calendario

TRIESTE

Puntata 1
«Edomani si va all’assalto soldatino non farti ammazzare
ta-pum tapum ta-pum ta-pum
ta-pum ta-pum»
.
A cantare sono quelli di Asiago. Mi avvicino, hanno una tenda grande con mensa. Una biondina svelta di nome Roberta, stirpe cimbra dei Rodeghiero, mi passa un piatto fumante senza chiedermi chi sono. «
Costesine, poenta e fasoi
». Avverto: attenti, non sono alpino, ma solo un vecchio rudere della Folgore, fanteria. «Basta che
el vin sia bon
», tagliano corto i veneti, e il mio bianco del Carso sparisce nelle loro tazze d’ordinanza. Aggiungo che sono un infiltrato, che vengo da Trieste, che è stata austriaca fino al 1918. Una città di italiani
ciapài col s’ciopo,
come i dalmati, gli istriani e i trentini, per i quali la guerra inizia nel ’14, non nel ’15. «
Scolta triestìn
— mi fa un asiaghese grande come una montagna e dalla lunga penna nera —
còntene cossa te fa de ste parti
», cosa ci fai quassù. Non gli importa niente delle mie paturnie identitarie.
Racconto il viaggio appena finito, seicento chilometri di fronte con baracche appese a strapiombi, vento gelido negli ossari, sere a cantare
Una notte che pioveva,
grumi di ruggine e reticolati, gironi fumanti di nebbie, cantine di recuperanti piene di bombe e di elmetti, merende consumate nei buchi delle granate. E ancora migliaia di chilometri di strade, gallerie, teleferiche, camminamenti e fortini, grandiosi monumenti dell’inutile, balaustre su un’Italia sconosciuta, meravigliosa e terribile. Spiego che dopo un viaggio simile, il giusto finale doveva essere qui, per l’anniversario della battaglia dell’Ortigara. Su questi prati che ogni anno, a luglio, si riempiono di tende e di penne nere di mezza Italia.
La sera prima, a casa del Gianni — casa Rigoni Stern con formaggio alla piastra, vin rosso, patate e minestra d’orzo — ci siamo studiati le mappe per capire. Era venuto anche Vittorio Corà, uno che conosce ogni pietra dell’Altopiano. La storia del monte maledetto comincia nel maggio del ’16, con lo sfondamento della
Strafexpedition
e gli imperiali che arrivano quasi in vista di Vicenza. I nostri tengono, non si sa come, con poca artiglieria e i rinforzi che non arrivano. Da quel momento l’Ortigara diventa un’ossessione, l’ultima possibilità di riconquistare
le posizioni iniziali. In molti cercano di dissuadere Cadorna, il nemico è troppo ben trincerato. Inutilmente: nel giugno del ’17 si schierano trecentomila uomini e millecinquecento cannoni per il contrattacco. È un’ecatombe. La puzza dei morti si sente a chilometri. Gli austriaci tengono, con un terzo degli effettivi.
I lampi si fanno più forti dietro il monte, illuminano nubi tumefatte color ciclamino, e i
veciascoltano
in silenzio la storia di questo mio andare senza imbarazzi sulla terra di nessuno, in bilico fra i nemici, da bravo animale di frontiera;
fio de nissùn,
complicato di genealogia e di appartenenza, nipote di un nonno in divisa asburgica e di un illustrissimo zio irredentista passato all’Italia. Cose difficili da spiegare a quelli di Roma e Milano.
A mezzanotte torno in tenda nel buio, col nubifragio in arrivo. Tutta la ferrazza disseminata tra Grappa e Pasubio s’è messa a friggere e chiamar saette. C’è anche il mio alpenstock, che col temporale diventa parafulmine. Legno italiano e puntale austriaco di guerra, trovato quassù. Un regalo di Gianni, sempre lui, il figlio del Mario. «
Ciapa
qua» mi ha detto un anno fa senza cerimonie, staccandolo dal muro. È diventato il talismano del viaggio, mi ha seguito fino all’ultima trincea.
L’ho usato come appoggio e timone, per traversare torrenti e ghiaioni, o scivolare sui nevai di un passo chiamato Sentinella.
Salve come di fucileria, crepitar di botti, cannonate, brontolii dietro le creste e le forcelle. Fa un caldo caraibico, la tenda è assediata di zanzare in cerca di rifugio. Mi barrico e piombo in un sonno profondo, animale. Alle tre e mezza un boato. C’è un festival di lampi, la tenda è strattonata dal diluvio. Scassoni, scravazzi, scrosci e cannonate, rotolar di sassi, alberi immensi che oscillano in verticale. «
Santa Ana, tien la piova ne la tana/San Simon, a starlup in tal segiòn
», santi benedetti tenete la pioggia nella tana e il fulmine nel secchio, la tenda fa acqua negli angoli, non c’è la canaletta, speriamo che tenga; penso come potevano resistere quei ragazzi in grigioverde quassù, al pensiero che oltre al buio, oltre ai tuoni, ai fulmini e alla pioggia ci fosse anche un nemico pronto a scannarli. Quanta infinita miseria in quei bivacchi.
Ortigara, notte del 2 luglio 1916. Dai fogli del capitano Michel, raccolti da Claudio Rigon. «Arrivarono i primi complementi di classi anziane, sfiniti in quella località tenebrosa dopo aver arrancato fra sassi, pini mughi e macigni. Erano giunti in una notte nera, solcata a tratti da razzi illuminanti... mentre a intermittenze
il tragico silenzio era rotto dal petulante ta-ta-ta della
Schwarzlose
nemica... o ancora dai colpi sordi delle bombarde o dal precipitare dei massi. Arrivati fra ombre immobili accovacciate fra le spaccature delle rocce in rassegnata attesa della propria sorte, venivano impressionati sinistramente dal rantolo dei moribondi e dai lamenti dei feriti».
Ortigara, trentamila perdite in dieci giorni. La corsa disperata degli italiani, in salita, sotto il tiro delle mitragliatrici, per un monte insignificante, l’annaspare verso i reticolati. Nel buio vedo come una migrazione di lemming, i topolini delle nevi che quando sono in soprannumero scelgono di suicidarsi gettandosi nei precipizi. In quella massa di animaletti impazziti, pupille dilatate, trovo l’immagine perfetta di un’Europa che un bel giorno sceglie di autodistruggersi. Millenovecentoquattordici: un’immane mistero. Qualcosa che è impossibile capire e persino immaginare.
Ora la pioggia tuona come una cascata. Sono due mesi che viaggio su questo fronte, due mesi col sole e col vento, il fango e la neve, e anco-
ra non riesco a riprodurre la percezione del macello, il fiato corto, le scariche di paura. Non ce la faccio a entrare in quelle scarpe e in quei vestiti di panno rancido. È come se, di trincea in trincea, questa guerra anziché avvicinarsi diventasse più lontana e inconcepibile. Ho davanti a me il paradigma dell’inumano e dell’insensato, qualcosa che è vano cercar di rivivere. Forse, come mi ha detto un bravo generale, alla mia umana percezione manca l’unica cosa non riproducibile. L’odore.
Il piscio, il sangue, la putrefazione. Eppure di guerre ne ho viste. Ho annusato il dolciastro dei morti di Vukovar sul Danubio. Ho guardato dentro le occhiaie dei talebani mangiati dai corvi sui monti di Jalalabad, e ho visto i bosniaci smembrati da una granata al mercato di Sarajevo. Eppure non basta, qui sull’Ortigara. Ma se nemmeno io posso capire, come possono farlo i figli di Facebook? C’è un fronte generazionale, oltre il quale inizia Lete, il fiume nero dell’oblio. Faccio due conti. Ho quasi 66 anni. Tra la mia nascita e la guerra ce ne sono solo 29. Un tempo che dovrebbe contrarsi, col presbitismo dei vecchi,
in proporzione all’allungarsi della vita biologica. E invece l’inferno s’allontana. L’ortica mangia le trincee, l’acqua dilava, la neve ricopre, l’erica fa il nido nei crateri delle granate, i fantasmi non si lamentano più nelle radure senza luna. È finita appena ieri, e paiono già mille anni. Ho fatto meno fatica, forse, a mettermi nei panni di Annibale.
S’è levato il vento, la pioggia si dirada. Tiro fuori dal sacco i libri di Lussu, Weber e Monelli. Leggerli quassù, con la lampadina frontale, dentro una tenda, in una notte simile, è tutta un’altra cosa. Ora capisco perché sono tornato sull’Altopiano alla fine del viaggio. Zebio, Cima Caldiera, Melette, Castelgomberto, Monte Fior. Ogni cima, ogni colle, ogni convessità è inchiodata a testimonianze vive. E i diari — il “qui ed ora” fissato in un taccuino — sono meglio della letteratura, per capire. Monelli si rifiuta di riscrivere gli appunti dell’Ortigara. «La memoria più fedele deforma i fatti lontani ». Nel ricordo, «le granate cadono più vicine, i gesti ingigantiscono, le vigilie perdono in profondità, i momenti intermedi scompaiono; le bugie, la retorica degli altri agiscono inconsciamente su di noi».
Voci da altre tende, prima luce sulla radura di Campo Luzzo butterata di crateri. Felicità di
oselèti:
cantano come matti per festeggiare
la fine simultanea del diluvio e delle tenebre. Preparo il caffè e accendo la pipa; sprigionano un profumo nuovo. Anch’io fisso il mio “qui ed ora” sul taccuino. Il bosco sfiata vapori e fumo azzurro di bivacchi. Sento sulla pelle “la carezza tiepida della vita”. Le cose buone e vere si chiariscono all’istante: un piatto di gnocchi, un libro, un sonno profondo, una lettera da casa, un buona bottiglia. O un bel ricordo, come l’immagine di Davide, gestore del rifugio Campogrosso, che dopo una nevicata arriva dalla retrovia con una teglia di pesce e semina festa sul fronte, con noi a cantare fino a mezzanotte.
Salita verso il Chiesa, il Campigo-letti e l’Ortigara, una muraglia dove basta rotolare dei massi per fermare chi sale, con gli austriaci implacabilmente dominanti. Dall’Adamello al Carso, la stessa storia. Loro che si affacciano sull’azzurro-grigio della pianura con in fondo il blunotte del mare, e gli italiani che dal basso — dall’Adige all’Isonzo — vedono, con la nitidezza di un diagramma, l’incubo di un interminabile fronte, a venti chilometri da Udine, Verona e Vicenza. Ma specialmente qui, e sul Carso, è l’epifania dell’inconcepibile, il diagramma altimetrico di una guerra immobile e tutta in salita.
Su questa scarpata disseminata
di ranuncoli gialli, come sul Podgora, il Monte Santo o il San Michele, sta il monumento alla sadica ostinazione di Cadorna: mille volte lo stesso comando, mille volte l’urlo «Savoia» e mille volte la stessa corsa tra i cadaveri delle ondate precedenti. Altra storia fu il Piave, quando quei ragazzi dovettero difendere anche le loro case. Altra musica il Grappa, dopo Caporetto, quando i “crucchi” si trovarono di fronte a combattenti capaci di farsi legare alle mitragliatrici pur di non arretrare. Lì gli italiani furono, per qualche mese, nazione vera.
Squarci di sole, labirinti di mughi, poi il sentiero conquista le linee austriache e deborda sull’altopiano. Uncimiteromilitare,poiun’onda lunga di pietraie, e in fondo l’Ortigara, una cima da nulla a picco sulle Malebolge fumanti della Valsugana. Lingue di nubi sinistre salgono dal Trentino, mille metri più in basso, ma l’inferno è nella
busameno
profonda tra la campana della cima e il Monte Caldiera. Là, prima dell’assalto, il prete benediceva i morituri, figli di contadini sbattuti davanti a cose mai viste prima: gas, mitragliatrici, aeroplani, rotoli di filo spinato. Arrivano in vetta alpini sudati, con panini di soppressa e fiaschi di Cabernet. C’è pure una pattuglia ordinata di sloveni, che qui tennero duro sul Chiesa. Mi
aspetto cori, ma niente. È tempo che l’Italia ha smesso di cantare. Cent’anni fa persino in guerra c’era musica. Bersaglieri all’assalto con la banda, pianoforti a coda portati a tremila metri per tener su il morale dei signori ufficiali austriaci. Immagini da film: l’Incompiuta di Schubert che vola nel nevischio dell’Adamello, e il
Rigoletto
di Verdi sparato in risposta da un grammofono delle linee tricolori. Ultime voci del mondo di ieri.
Ripenso a Franz, un tirolese di Trafoi. Mi ha raccontato che quando gli italiani presero la cengia Martini, un posto da pazzi sul Piccolo Lagazuoi, gli altri tentarono inutilmente di demolirla a suon di mine, finché una notte gli alpini risposero con la banda, pifferi e ottoni aggrappati all’impossibile. Nella nebbia del Falzarego i soldati chiesero ai loro ufficiali cos’era quel canto, e venne loro risposto: sono i nostri sulla cengia Martini che dicono «siamo vivi». Nessun poté trattenerli, gli alpini sul passo. Corsero d’impeto su per le rocce ad abbracciare i loro compagni a notte fonda.


Puntata 2
REDIPUGLIA
Non so cosa mi prese quella sera di maggio che la Luna uscì. Una Luna immensa di cartapesta, con latrare di cani e un’aria calda, sensuale. Fu anche l’ultima Luna, perché il giorno seguente cominciarono i temporali e il cielo si chiuse per settimane. Ricordo che guardai distrattamente l’orologio e vidi scritto 24. Era il ventiquattro di maggio e tutto mormorava. Trieste, il Carso, le lenzuola stese, le bluse delle donne, le alberature delle vele. Così pensai a Redipuglia, e mi venne voglia di andare a trovare i Centomila. Da solo, senza fanfare, turisti e delegazioni militari.
Nel pomeriggio ero stato a un funerale ebraico e tutto mi aveva rasserenato in quella piccola città dei morti. Il chiacchiericcio, il profumo dei fiori, i vestiti informali, la monotonia di una preghiera che si ripeteva identica da millenni, le palate di terra: tutto diceva la naturalità del trapasso. Tra noi e quelli dall’altra parte c’era un sipario trasparente. Anche per questo pensai all’Armata- ombra, quando vidi l’ultima Luna. Si avvicinava il centenario della Grande Guerra ed era tempo che restassi solo con quei ragazzi, prima delle celebrazioni.
Una trepidazione inattesa mi colse quando arrivai là sotto con l’ultima luce e il Pianeta si posò sul Monte Sei Busi dietro i cipressi-guardiani. Passava un’auto ogni tanto, lontano si sentivano le voci della pianura — grilli, discoteche, treni — e io ero assolutamente solo davanti ai gradoni di un’astronave inclinata verso le stelle (le tre croci illuminate in cima erano stelle anch’esse) a chiedermi come mai, a 65 anni, mi avvicinassi a
quel dislivello col tremore di una recluta. La densità di morti lì intorno era forse più alta che sul fronte francese. Fra italiani e austriaci, più di quattrocentomila in uno spazio ridicolo. La rappresentazione dell’assurdo.
Ma non era questo che sgomentava. Forse, pensai, era la mia stessa età, l’aver vissuto il triplo di quei ragazzi andati in guerra con in bocca ancora la ninnananna delle loro madri. L’avere due figli che, in quel conflitto, sarebbero già stati veterani. Oppure quei gradoni, tremenda rappresentazione altimetrica di una guerra tutta in salita, sotto il tiro di un nemico sempre dominante. O forse la contiguità dell’ecatombe con la quotidianità dei vivi, i racconti della nonna che dalle rive
di Trieste guardava a quei cannoneggiamenti come al “cinematografo”, rappresentazione pirotecnica dell’inconcepibile.
Mormoravo: dove siete, figli della durezza, della fame e dell’emigrazione. Datemi un segno, voi che siete stati ingranaggi di una macchina spietata, operai e contadini obbligati a obbedire a ordini talvolta incomprensibili o deliranti, eppure portatori di un senso del dovere oscuro, antico e austero che oggi l’Italia più non conosce. Su ciascuno dei ventidue gradoni c’era scritto “Presente”, ripetuto come salve di fucileria, ma nessuno mi rispondeva.
Quei morti non abitavano più il tempo, come quelli al cimitero ebraico. Erano fuori, in un cielo freddo. Provai a cantare
Sento il fischio del vapore, l’è il mio amore che va via.
Niente. Regnava su tutto una formida-
bile assenza. Unico segno, il lampo nero di un cane dietro il sarcofago del Duca d’Aosta, magro e immateriale come lo sciacallo Anubi, il dio delle tombe degli Egizi.
Rivedo il film. La pianura che si dilata man mano che si sale. Le luci di Aquileia, il rombo dell’autostrada, il Monaco-Trieste che scende lentissimo verso la torre di controllo. Le retrovie italiane perfettamente leggibili. I due fari giallini alla base della spianata che allungano la mia ombra, gradone dopo gradone, l’ombra di un uomo solo che cammina, surreale, come tra i vuoti colonnati di un De Chirico. La luce azzurra della Luna che lentamente prevale su quella artificiale e bagna lettere cubitali incise su pietra. Morti, gloria, invitti. Cospetto di quel Carso che vide.
Che notte, il richiamo della vita è tremendo, come nel plenilunio di Ungaretti, come quella sua notte in trincea lì a due passi sull’Isonzo, accanto a un commilitone ucciso che digrigna alle stelle. La vita chiama con odore di rosmarino e vento tiepido, ma loro non rispondono, perché Redipuglia non è un cimitero. Fu, anzi, costruita come antitesi al cimitero. Uno schieramento di morti, la sacralizzazione della guerra. Un oggetto siderale, cui è tolto il contatto con la terra madre. Solo pietra avrai attorno, soldato. Non porterai sulla tua tomba nessuna data e nessun nome di luogo. Ti basti il grado e il battaglione.
Pietra levigata, senza niente per mettere un fiore. Anche il dolore per il singolo Caduto ti è negato. Qui si piange per altro: lo sgomento per l’indicibile, la morte anonima. Rileggo gli appunti. Ossa senza pace, traslocate non una ma tre, quattro volte: la trincea, poi i piccoli camposanti dietro le linee, poi i cimiteri di guerra, poi gli ossari, inventari di resti già sterilizzati, ripuliti come ciottoli di fiume. Redipuglia stessa, rifatta tre volte, in un traffico di ossa durato vent’anni, per celebrare un impero. «Dammi un fiasco di rosso» direbbero se potessero parlare. Non ne possono più dei custodi dei sacelli, dei ruffiani e imboscati che tengono discorsi, gli stessi arroganti che consentirono Caporetto e oggi affondano l’Italia. Vorrebbero tornare alla terra, in piccoli cimiteri, magari simili a quelli dei Vinti, che la storia esonera dall’obbligo della retorica.
La cima, le croci, qualche ulivo, l’odore violento del Carso, una cripta di marmo nero, la lapide dell’inaugurazione con Mussolini, 13 settembre 1938. Sredipolje che diventa Redipuia per i veneti, poi Redipuglia, infine “Re di Puglia” stampigliato sugli infradito cinesi in vendita. Erbacce, pietre sbilenche. Una volta l’esercito di leva sistemava questi luoghi, oggi quello professionale se ne fotte, ignora la sua stessa memoria. «Non è questa l’Italia per cui combatterono», scrissi sul notes la notte dell’ultima Luna. Fu lì che sentii il dovere di andare, lontano, a cercare la storia di quei ragazzi. Sul fronte.


Puntata 3
LO SBARCO DI FRANZ FERDINAND–
Milleottocento passi. La fine del mondo si consuma in milleottocento passi. Per la precisione milleottocentoquattro, quelli che ho misurato fra il mare davanti a piazza Unità e la Stazione Centrale. Sì, questo viaggio parte da Trieste, la mattina afosa del 2 luglio del 1914, su un corteo di carri neri e cavalli neri, tra due impressionanti ali di folla, in un silenzio di piombo. È qui che sbarcano, da morti, Franz Ferdinand e sua moglie, dopol’attentatodel28giugnoa Sarajevo. Qui, fra le 7.45 e le 9.50 di quella data fatale, in anticipo di un giorno su Vienna, inizia il conto alla rovescia verso la guerra. Perché qui l’impero ha la sua prima, attonita percezione del disastro imminente.
Ecco, i feretri scendono dalla corazzata “Viribus Unitis”, ancorata in rada. Li traghettano su una maona che pare un catafalco, il mare pullula di navi da guerra, con soldati schierati sulla tolda, pennacchi di fumo nero, cannonate a salve. Pieni anche i moli, di navi da trasporto e passeggeri. Vedo l’ammiraglia dei Cosulich, “KaiserFranzJosephI”,eil“Baron Gautsch”, che di lì a pochi giorni salterà su una mina “amica” per la distrazione del comandante. Odore di carbone, pesce e spezie d’oriente. La pavimentazione delle Rive non è ancora completata, la città è tutta un cantiere, le banche scommettono su un futuro radioso. La nuova pescheria centrale è stata appena inaugurata e sul porto troneggia un’immensa gru galleggiante, “Ursus”. Ultima cosa fatta dall’impero, resisterà per un secolo. Un ciclope che ancora oggi, con bora forte, talvolta spezza le catene e semina il panico come King Kong.
Cinquantasette passi dalla banchina alla linea dei palazzi sul fronte mare, altri 150 fino alla fontana davanti al municipio. Folla immensa, rintocchi a morto, opprimente silenzio. Vado con andatura regolare, da metronomo. Chi mi conosce pensa che sono fuori, e difatti lo sono. Vedo solo quel film, e non è nemmeno difficile. Basta ignorare gli umani. La crosta dell’oggi è così miserabile che le vecchie pietre riemergono senza fatica. Anche le foto di Wulz e di Penco sono lì, nitide come i racconti della nonna. Piazza Unità, allora piazza Grande, 2 luglio 1914. Luogo e momento tremendo, avvio di una sequela di sciagure. La guerra, il fascismo, le leggi razziali proclamate in quello stesso luogo. Poi un altro conflitto inutile, le vendette slave, la guerra fredda, l’agonia del porto. È un secolo che Trieste sconta la fine del mondo di ieri.
Fa caldo, la folla si abbarbica alla fontana per vedere oltre il cordone dei marinai. Luccicano elmetti col chiodo, vibrano pennacchi sui fez dei fanti bosgnacchi irrigiditi. Maledetta Sarajevo, luogo del destino, quante volte sono andato da te per storie di guerra... Finisce la funzione sulle Rive, il vescovo
Karlin benedice, si parte. Cinquantasei passi fino a Capo di Piazza, 165 fino alla statua di Carlo imperatore. Sono già passati un drappello a cavallo, due compagnie di soldati e sei carri pieni di fiori con tiro a due. Altre 265 falcate lungo il Corso fino all’incrocio con via Sant’Antonio, oggi Dante. Le case sono listate a lutto, i lampioni hanno un cappuccio nero. Balconi e finestre affollate, qualcuno mi saluta dall’alto, dico distrattamente ciao, ma
la mia testa è altrove.
Oltre un mare di teste vedo convergere a sinistra i portatori delle croci, i prelati con mitria e piviale funebre, il clero delle altre confessioni, poi le due carrozze monumentali nuove di zecca della premiata ditta “Zimolo”, quattro cavalli neri ciascuna. Scalpitano, i palafrenieri sudano a tenerli al passo. Ma ecco le autorità, gli ufficiali delle varie armi, le rappresentanze, altre due compagnie e un secondo drappello di guar-
die a cavallo. Passo cadenzato lento, esasperante. Il corteo taglia la città in due come una mela, la testa è già arrivata in piazza della Caserma, al capolinea della funicolare, e la coda è ancora in Corso. Sento mia nonna mormorare: «Questo è il funerale di un’epoca». Sono mesi che i giornali sono pieni di guerra, e c’è chi sente i rintocchi del destino.
Sotto il palazzo giallino dei Wulz, faccio in tempo a vedere un cavallo del servizio d’ordine che ruba la paglietta a un borghese e se la mangia. Fotogrammi fin de siècle. Finisce il mondo delle riverenze, delle donne fatali con veletta su auto decapottabile, dei cavalli bianchi e degli idrovolanti con ali di seta. Arriva la morte di massa, con i reticolati e i gas. Finisce il tempo degli eroi. Ora rullano tamburi, sono 227 passi fino al Canale, la città è magnifica, pullula di vita, forse non è mai stata così ricca, i cartelloni dei teatrimaicosìpieni.Eppurec’è puzza di carogna, da Vienna arriva uno strano silenzio, si dice che il Kaiser sia ostaggio dei signori della guerra. Ancora 155 passi, e altri 245 fino alla Caserma, oggi dedicata a Oberdan, l’attentatore di Franz Josef. Sta per consumarsi il suicidio di un continente.
L’andatura diventa tempo, altri 105 passi e sono le 9.25 nella via intitolata a Karl von Ghega, che costruì la prima delle grandi ferrovie fra Trieste e il retroterra. E qui sento un improvviso effetto-risucchio, il film accelera, il flusso di eventi si imbottiglia in quell’unica strada verso la stazione, la stessa dove tra un mese, con le fanfare della Generalmarsch, partiranno triestini, dalmati e istriani verso il fronte serbo e poi quello russo, terribile, oltre
i Carpazi. Trecentoquattordici, monumento a Sissi imperatrice, 170, capolinea della ferrovia meridionale. Marinai scaricano i catafalchi, li portano verso il convoglio speciale già avvolto nel vapore della locomotiva. Ore 9.50 fischio dei capostazione con feluca e spadino e partenza per Vienna via Semmering.
Ripenso ai ragazzi di Redipuglia. Sono morti per Trieste ed è da Trieste che deve iniziare questa storia. Ma qui, come in Trentino, il film inizia sotto un’altra bandiera, e non nel maggio del ’15, ma in quel mattino di luglio del ’14. Un anno in più da raccontare.


Puntata 4
IN OSTERIA A CANTARE I “NOSTRI”
No, non parto ancora. C’è sempre tempo per il sangue e la trincea. Tempo per i barellieri, i reticolati e lamenti. Ho sentito che in prima linea fanno arrivare brandy e cioccolata per scaldare gli animi prima degli assalti, e così i fanti sanno in anticipo cosa si prepara. Hanno rovinato anche il gusto della vita. Ma ora non voglio pensarci. Il sacco è preparato, e voglio passare l’ultima sera con amici, a cantare. In una taverna di retrovia, sul Carso.
«Era una notte che pioveva / e che tirava un forte vento / immaginativi che grande tormento / per un alpino che sta a vegliar ». Da noi a Trieste si canta ancora nelle osterie. Ci si ritrova e si canta, senza nemmeno chiedersi “come va”. E siccome siamo un po’ matti per via della bora, cambiamo anche lingua senza imbarazzi. Con le canzoni di guerra è tutto un saltare di qua e di là del fronte. E quando diciamo “i nostri”, non sappiamo nemmeno noi a chi alludiamo:
se ai tanti nonni reclutati dall’Imperatore o ai bersaglieri giunti a “redimerci” nel ‘18. Vanno bene tutti e due.
Tuona cupo oltre il monte Hermada, ultimo scoglio prima delle linee italiane, ma noi ce ne fottiamo e attacchiamo con le marcette burlesche, in dialetto triestino, dei battaglioni targati Asburgo. Una coppia di piemontesi nel tavolo accanto si meraviglia che non siano in tedesco, e allora devo spiegare che furono migliaia gli adriatici di lingua italiana chiamati a servire la bandiera giallonera.
«Qua se magna, qua se bevi / qua se lava, qua se lava la gamela / zigaremo demoghèla fin che l’ultimo sarà / fin che l’ultimo sarà». È un coro di veterani. Franco, Silvano, Stellio, Piero. Compagni di bevute o di salite in Dolomiti. Nereo dirige, rigido come un Kapellmeister, e loro godono di queste strofe senza mamme, senza fidanzate o lamenti per la casa lontana. Un altro mondo rispetto a “Una notte che pioveva” o il “Testamento del capitano”.
Vorrei spiegarlo, ai forestieri, quanto siamo complicati. Dire chequestanonèunacantatama una tempesta identitaria. Vorrei ma non posso. Dovrei declinare troppe generalità. Dire che sono figlio di un ufficiale-gentiluomo dell’esercito italiano, che sono cresciuto in mezzo a irredentisti e nostalgie per l’Istria perduta. Spiegare che sono garibaldino dentro, che ho girato l’Italia in camicia rossa e so mettermi nella scarpe di chi vide nell’impero asburgico una prigione dei popoli. Eppure...
Eppurenonècolpamiasedopo fu peggio, se vennero il fascismo, l’imperialismo,lanegazione delle lingue altrui, l’estetica della morte e infinite altre sciagure. Non è colpa mia se fino al ‘14 da qui si andava in treno in mezza Europa e oggi non si va da nessuna parte. No, non dipende solo da noi di frontiera se Trieste, dopo quella guerra, ha conosciuto
solo decadenza.
«Kaj ti je deklica, da si tak zalostna / Cos’hai ragazzina, perché sei così triste / Che cos’ho? Nulla. Ho male al cuore / il mio ragazzo è caduto in guerra». Martina canta un assolo straziante. Le canzoni slovene svelano tristezze abissali, stratificazioni di lutti. “Oh Doberdò, tomba della gioventù”, cantano slavi e magiari di un lago che fu mattatoio dietro il monte. Pezzi di storia negata erompono come un fiume carsico, con enorme ritardo sul Trentino. Sull’Adigesonoannichesipreparano al 2014, e non hanno paura a dire che non esiste solo
Battisti, ma anche migliaia di Caduti trentini di parte avversa sul fronte russo o nei Balcani.
«Quando fui sui monti Scarpazi / miserere sentivo cantar / ti ho cercato tra il vento e i crepazi / ma una croce soltanto ho trovà». In Trentino si cantano da tempo canzoni “austriache” come questa, che fu proibita dal Fascio. A Trieste è diverso, c’è stata la guerra fredda e il teorema della città “italianissima” è durato più a lungo perché si doveva fronteggiare l’Impero del Male. “Gorizia tu sei maledetta” rimase sacrilega fino agli anni Sessanta. Ma ora la diga si rompe, e rischia di rompersi anche male, per accumulo di
troppe rimozioni e un disincanto per l’Italia che pare fatto apposta per alimentare deliri austriacanti o sterili indipendentismi.
«E il general Cadorna / ha detto alla regina / sei vuoi veder Trieste / guardala in cartolina / bim bum bam / e il rombo del canon». Arrivano piatti di olive e formaggio, e intanto un fulmine percorre la dorsale del monte Terstelj, dove il generale Borojevic comandava il tiro delle artiglierie. La notte pirotecnica illumina una guerra sconosciuta, rovescia verità assodate. Caporetto, per esempio, vissuta come vittoria. E allora qualcosa ti dice: ragazzo, prima di andare al fronte devi scavare, grattare sotto
la toponomastica, l’elenco telefonico, la retorica, le fanfare. Non è un caso che questa terra abbia generato tanti psichiatri e speleologi. Qui ogni grotta è anche un abisso della mente.
Spiego ai piemontesi che nel Ventennio ci hanno cambiato i cognomi — dietro a Fabbri c’è Kovac, Sbaizero è Schweizer, e Cosolini Koslovic — ed è logico che noi si faccia più fatica di altri a sapere chi siamo. È chiaro che mai come stavolta il viaggio è anche interiore, nei reticolati dell’anima. Ma alla malora le complicazioni, adesso si canti e si beva, perché «l’acqua è fatta pei perversi / e il diluvio il dimostrò ». Sì, forse il vino e il canto sono il solo possibile amalgama di tutto questo.
«Su la strada del Monte Pasubio / lenta sale una lunga colonna / bomborombon bom bomborombon / l’è la marcia de chi non torna / de chi se ferma a morir lassù».
Basta un’occhiata fra noi, un gesto, e parte l’ultima canzone. Lenta, cadenzata. Chiama a raccolta
i vivi e i morti. Enzo, caduto in Civetta. Virgilio, amico dell’anima, imbattibilesulsestogrado, cheguidavailcorocolsololampo degli occhi. Rivedo le penne nere uscire dalla caserma di Tarvisio conimuli.Nesentol’odore.Alpini miei, quanto mi parlava di voi mio padre mentre salivamo, sci in spalla, sulle nevi immacolate del Monte Canino. Sella Prevala, Rombon. Rocce di leggenda,
vengo presto a ritrovarvi.