David Quammen, Nathional Geographic 8/2013, 6 agosto 2013
BREVE LA VITA FELICE DI UN LEONE
Se i gatti hanno nove vite, lo stesso non si può dire dei leoni del Serengeti. In questo ambiente spietato la vita è dura, sempre appesa a un filo, e quando si muore si muore e basta. Per i grandi predatori africani – così come per le loro prede – di solito il ciclo vitale è breve, e il più delle volte si conclude di colpo anziché con un tranquillo declino. In natura un leone maschio può raggiungere i 12 anni di età, purché sia fortunato e resistente; le femmine, più longeve, arrivano anche a 19. Alla nascita l’aspettativa di vita è molto inferiore, visto che metà dei cuccioli muore prima di compiere due anni. E comunque non basta raggiungere l’età adulta per garantirsi un decesso sereno. Per C-Boy, un maschio giovane e robusto con la criniera nera, la fine sembrava essere arrivata la mattina del 17 agosto 2009.
Ingela Jansson, svedese, assistente sul campo in una ricerca a lungo termine sui leoni, vide tutta la scena. Conosceva C-Boy perché lo aveva già incontrato, anzi era stata proprio lei a chiamarlo così («noiosamente», ricorda, aveva battezzato A-Boy, B-Boy e C-Boy tre nuovi leoni). C-Boy aveva quattro o cinque anni, stava quindi per raggiungere la piena maturità: altri tre maschi lo assaltarono e tentarono di ucciderlo a dieci metri dalla Land Rover dove Jansson era seduta. La lotta del giovane leone per sopravvivere a quel confronto impari, già drammatica di per sé, rifletteva una più generale verità sul leone del Serengeti: è il rischio costante di morire, più che la capacità di uccidere le prede, a determinare il comportamento sociale di questo animale feroce ma sempre in pericolo.
Quel giorno Jansson si era fermata nei pressi del letto asciutto del fiume Seronera per controllare un branco chiamato Jua Kali e, in particolare, per osservare i cosiddetti “residenti”. I leoni maschi, infatti, non fanno parte in senso stretto di un branco, ma si coalizzano con altri maschi per controllare uno o più branchi, fornendo protezione, accoppiandosi con le femmine per procreare e aiutandole a cacciare le prede più grosse e pericolose, come bufali o ippopotami. Jansson sapeva che i maschi residenti del branco Jua Kali erano C-Boy e il suo unico alleato, un dongiovanni dalla criniera dorata chiamato Hildur. Mentre si avvicinava al fiume, la studiosa vide in lontananza Hildur che scappava, inseguito da un altro maschio. Poi scorse nell’erba quattro leoni. Avevano formato una sorta di quadrato, disponendosi a circa cinque passi l’uno dall’altro. Jansson riconobbe alcuni di loro: facevano parte di un’altra coalizione, composta da quattro giovani maschi ambiziosi, che i ricercatori chiamavano “i Killer”.
Uno dei leoni aveva il canino inferiore destro insanguinato, segno che aveva combattuto da poco. Un altro se ne stava appiattito sul terreno, come se volesse scomparire alla vista, emettendo un ringhio costante e nervoso. Avvicinandosi ancora, la donna vide la criniera scura e capì che era C-Boy: ferito, solo e circondato da tre Killer.
Jannsson notò anche, nei paraggi, una leonessa del branco Jua Kali, a cui era stato applicato un radiocollare. Era in lattazione: i suoi cuccioli, nascosti da qualche parte in una tana, erano molto probabilmente figli di Hildur o di C-Boy. Quindi quella tra C-Boy e i Killer non era una rissa da nulla: era una sfida per il controllo del branco. Se avessero avuto la meglio, i nuovi maschi avrebbero ucciso la prole dei rivali in modo che la femmina potesse tornare rapidamente in calore.
Dopo qualche secondo la lotta riprese. I Killer accerchiarono C-Boy per poi scagliarsi a turno contro di lui da dietro, colpendolo alle cosce e mordendogli la schiena mentre lui continuava a ringhiare e girarsi nel disperato tentativo di scappare. Vicina quasi da vedere gli schizzi di saliva e percepire l’odore della rissa, Jansson scattava foto dal finestrino dell’auto, sbalordita. Sollevando una nuvola di polvere, C-Boy si agitava e ruggiva, mentre i Killer sfruttavano il vantaggio numerico schivando i suoi morsi, arretrando, attaccandolo alle spalle, affondando i denti nella sua carne, ferendolo fino a che tutta la sua parte posteriore non somigliò a una vecchia pelliccia bucherellata. Jansson era sicura di stare assistendo agli ultimi istanti di vita di un leone. Se non fosse morto subito per le ferite, pensava, C-Boy non sarebbe sopravvissuto comunque alle infezioni batteriche.
Poi tutto finì, di colpo com’era iniziato. L’attacco era durato forse un minuto. I contendenti si separarono. I Killer si allontanarono senza fretta per salire sopra un termitaio da cui dominavano il fiume, mentre C-Boy riuscì a svignarsela. Era vivo, almeno per il momento, ma era stato sconfitto.
Jansson non lo vide più per due mesi. Immaginò che fosse morto, o troppo debilitato. Nel frattempo i Killer avevano cominciato a darsi da fare con le femmine del Jua Kali. I figli di C-Boy o di Hildur erano spariti, uccisi dai maschi conquistatori, o lasciati a morire di fame, o trascurati quel tanto che bastava perché le iene li divorassero. Adesso le femmine sarebbero tornate in estro, e i Killer le avrebbero ingravidate. C-Boy non era più il favorito per la riproduzione. Il branco Jua Kali lo avrebbe dimenticato. Così vuole la dura legge della società leonina.
LE TIGRI SONO ANIMALI SOLITARI. Anche i puma lo sono. Nessun leopardo passerebbe le giornate con altri animali della sua specie. Il leone è l’unico felino veramente sociale: vive in branchi e coalizioni le cui dimensioni e dinamiche sono determinate da un complesso equilibrio di costi e benefici evolutivi.
Perché il comportamento sociale, assente in altri felini, è diventato così importante per questa specie? Si tratta di un adattamento necessario per cacciare prede grandi come gli gnu? Rende più facile la difesa dei cuccioli? È nato dall’esigenza di competere per il territorio? Gran parte di ciò che sappiamo sul comportamento sociale dei leoni è stato scoperto, soprattutto negli ultimi 40 anni, grazie alle ricerche sulla specie condotte senza interruzione in un unico ecosistema: il Serengeti.
Il Parco nazionale del Serengeti copre circa 14.750 chilometri quadrati di praterie e terreni boscosi vicino al confine settentrionale della Tanzania. Nato come piccola riserva di caccia negli anni Venti, sotto il governo coloniale britannico, fu istituito ufficialmente nel 1951. Fa parte di un più vasto ecosistema, che comprende diverse riserve di caccia situate lungo l’estremità occidentale del parco, altri terreni con una forma di gestione mista (tra cui l’Area di conservazione di Ngorongoro) a est e una zona transfrontaliera (la Riserva nazionale del Masai Mara) che si estende anche in Kenya. Tutte queste terre sono attraversate dalle migrazioni stagionali dei grandi branchi di gnu, zebre e gazzelle, che seguono le piogge per raggiungere l’erba fresca; e da popolazioni di alcelafi, damalischi, redunche, cobi, eland, impala, bufali neri, facoceri e altri erbivori che conducono vite più stanziali. In nessun altro luogo dell’Africa si trova una tale abbondanza di prede ungulate in un ambiente tanto aperto: ecco perché il Serengeti è un habitat straordinario per i leoni e un sito ideale per gli scienziati che li studiano.
Il biologo George Schaller arrivò qui nel 1966, su invito del direttore dei parchi nazionali della Tanzania, per studiare gli effetti della predazione dei leoni sulle popolazioni delle prede e per approfondire le conoscenze sulle dinamiche dell’intero ecosistema. Leggendario per la sua astuzia e la sua resistenza, Schaller era già un pioniere delle ricerche sui gorilla di montagna. In poco più di tre anni di intenso lavoro raccolse un’enorme massa di dati, pubblicando poi un libro. The Serengeti Lion, che divenne il testo di riferimento per l’intero campo di studi.
Il suo esempio fu seguito da altri ricercatori. Schaller fu sostituito da un giovane inglese, Brian Bertram, che rimase in Tanzania quattro anni, il tempo sufficiente per iniziare a capire quali fattori sociali influenzassero il successo riproduttivo e per spiegare un fenomeno importante: l’infanticidio maschile. Bertram documentò quattro casi di uccisione dei cuccioli da parte di una nuova coalizione di maschi che aveva preso il controllo del branco. In seguito Jeannette Hanby e David Bygott spiegarono il ruolo delle coalizioni: formarle permetteva ai leoni di assumere e mantenere il controllo dei branchi, e quindi generare più cuccioli in grado di sopravvivere.
Nel 1978 il testimone passò a Craig Packer e ad Anne Pusey, che avevano già lavorato con Jane Goodall a Gombe. Pusey seguì la ricerca per una dozzina di anni, mentre Packer ancora oggi guida il Serengeti Lion Project, per cui lavora anche Ingela Jansson, ed è certo la maggiore autorità mondiale sul comportamento e l’ecologia del leone africano. I suoi 35 anni di ricerche, a cui vanno aggiunti quelli di Schaller e altri, fanno del Serengeti Lion Project uno dei più lunghi e continuativi studi sul campo di una specie.
Tra gli oggetti dello studio c’è anche la morte. Benché si tratti di un evento inevitabile per qualsiasi creatura, i dettagli sul momento in cui avviene e la causa che la determina rivelano aspetti importanti della vita di una specie.
DOPO LA BRUTTA ESPERIENZA con i Killer, C-Boy ha abbandonato ogni pretesa sul branco Jua Kali e ha rivolto la sua attenzione a est. Hildur, l’alleato che non l’aveva aiutato nel momento del bisogno, è andato con lui. Quando lo vedo di sfuggita, tre anni dopo lo scontro, C-Boy, assieme a Hildur, ha preso il controllo di altri due branchi, il Simba East e il Vumbi, i cui territori si estendono tra le pianure aperte e le kopjes (collinette rocciose) a sud del fiume Ngare Nanyuki. Per prede e predatori non è certo la zona più ospitale del Serengeti, ma ha offerto ai due leoni la possibilità di rifarsi una vita.
Visito la zona con Daniel Rosengren, anche lui svedese, che ha preso il posto di Jansson nel monitoraggio dei leoni.
Qui, a sud del fiume e a est dell’area più turistica, le grandi praterie si susseguono come onde del mare, punteggiate a intervalli di pochi chilometri dalle kopjes, formazioni di granito ingentilite da alberi e cespugli che si ergono sulla pianura simili a grandi caramelle gommose, offrendo ombra, rifugio e un buon punto d’osservazione ai leoni che vogliono riposare un po’. In quest’angolo del parco si può guidare per giorni senza mai incontrare un’auto di turisti. Assieme a Michael (Nick) Nichols e al suo team fotografico, che stavano trascorrendo diversi mesi in un campo vicino al letto del fiume, abbiamo l’area a nostra completa disposizione.
Un segnale captato da Rosengren ci conduce fino alle Zebra Kopjes, dove, coperta dalla vegetazione, troviamo la leonessa del branco Vumbi che gli scienziati hanno dotato di radiocollare. Accanto a lei, uno splendido maschio con una folta criniera tra il marrone e il nero che gli copre il collo e le spalle come una cappa di velluto. È C-Boy.
Anche guardandolo col binocolo da una decina di metri, non vedo segni di lesioni sui fianchi o sulla parte posteriore. Le ferite sono guarite. «Le cicatrici dei leoni scompaiono dopo un po’», mi spiega Rosengren, «a meno che non siano intorno al naso o alla bocca». Nella sua nuova vita, in un altro ambiente e con altre leonesse, C-Boy sembra in gran forma. Lui e Hildur sono diventati di nuovo papà. E proprio la sera prima Nichols ha visto le leonesse del branco abbattere un eland, un’antilope bella grossa, e C-Boy appoggiare imperioso la sua zampa di maschio dominante sulla carcassa, reclamando il diritto ai primi morsi. Ha mangiato da solo prendendosi i bocconi migliori, ma senza esagerare, per poi lasciare che si servissero anche le leonesse e i cuccioli. Hildur non c’era: probabilmente si stava accoppiando con un’altra leonessa in calore. Quei due, insomma, facevano la bella vita, godendosi tutti i privilegi dei maschi residenti. Solo 12 ore più tardi scopriamo che i loro guai non sono finiti.
Il problema si chiama competizione tra maschi. Il giorno dopo, di primo mattino, Rosengren ci porta in auto verso nord, in cerca del branco Kibumbu, i cui cuccioli sono figli di un’altra coalizione di leoni, che però sono spariti da qualche mese. Lo studioso si chiede chi possa aver preso il loro posto. Questo è il suo campo di ricerca specifico: documentare gli arrivi e le partenze, le nascite e le morti, le affiliazioni e gli abbandoni che incidono sulle dimensioni del branco e sul possesso del territorio. Chi può aver generato i nuovi cuccioli del Kibumbu? Rosengren ha un sospetto, che trova conferma quando tra l’erba alta lungo la sponda del fiume ci imbattiamo nei Killer.
Eccole là, le magnifiche canaglie, un quartetto di maschi di otto anni che riposano in compagnia, l’aria minacciosa e sicura di sé. Probabilmente sono due coppie di fratelli, mi spiega Rosengren, nati a distanza di pochi mesi nel 2004. A chiamarli Killer è stato un altro assistente, nel 2008, dopo essere giunto alla conclusione che erano stati loro a uccidere tre leonesse dotate di radiocollare, una dopo l’altra, sistematicamente. La violenza dei maschi contro le femmine non è del tutto insolita: potrebbe anche essere frutto di un adattamento evolutivo, visto che a volte permette ai maschi di eliminare la concorrenza delle femmine per il controllo dei branchi. Ma certo i quattro Killer si sono guadagnati una pessima reputazione.
Anche se ai quattro sono stati assegnati dei nomi, Rosengren mi confida che preferisce chiamarli con i loro numeri: 99, 98, 94, 93. Gli sembrano più adatti a esprimere l’idea di minaccia cieca e imperturbabile che suscitano i quattro leoni. Di profilo, il maschio 99 ha un naso importante, quasi da senatore romano, e la criniera scura, anche se meno di quella di C-Boy. Al binocolo noto alcune piccole ferite sul lato sinistro del volto.
Ci avviciniamo in auto con cautela, e altri due leoni, il 93 e il 94, si scuotono e si voltano verso di noi. La luce dorata dell’alba illumina le ferite sui loro volti: un taglio sul naso, un po’ di gonfiore, una lacerazione sotto l’orecchio destro ancora umida di pus. Sono ferite recenti, osserva Rosengren. È successo qualcosa durante la notte, e non è stato uno screzio sulla condivisione del cibo: i mèmbri di una coalizione non si feriscono l’un l’altro così. Devono essersi azzuffati con altri leoni, ma quali? E in che condizioni saranno i rivali?
Solo dopo qualche ora, andando ancora un po’ in giro, notiamo l’assenza di C-Boy.
«I LEONI MUOIONO QUASI SEMPRE UCCISI da altri leoni», mi spiega Craig Parker. «In un ambiente indisturbato, è quella la principale causa di morte». Almeno il 25 per cento delle morti dei cuccioli, continua lo studioso, è dovuta all’uccisione da parte dei maschi che subentrano nel branco. All’occasione, anche le femmine possono uccidere i piccoli di un branco vicino, e a volte anche altre femmine adulte che sconfinano incautamente nella loro zona. Le risorse sono limitate, i branchi sono territoriali, e «da queste parti la vita è dura».
La gelosia dei maschi è altrettanto letale. «Le coalizioni maschili sono come gang: se un estraneo gli insidia le ragazze, lo uccidono». E, come i Killer, i maschi uccidono anche le femmine se ne possono trarre un vantaggio. I tanti segni di morsi visibili sul corpo dei leoni sono testimonianze della loro vita passata a combattere: per il cibo, il territorio, la possibilità di riprodursi, la mera sopravvivenza. Per chi è fortunato, le ferite guariscono. I più sfortunati vengono uccisi in un feroce combattimento, o riescono a stento ad allontanarsi, perdendo sangue, magari azzoppati per sempre e destinati a morire lentamente di fame o per l’infezione. «Quindi il nemico numero uno dei leoni è il leone», continua Packer. «Ecco perché i leoni vivono in gruppo». È fondamentale controllare il territorio, soprattutto i punti migliori, come la confluenza di due corsi d’acqua, dove si concentrano le prede. «L’unica maniera per monopolizzare uno di questi rari e preziosi punti caldi», spiega lo studioso, «è creare una gang di individui dello stesso sesso, che agiscano insieme per un obiettivo comune».
Questo aspetto della società dei leoni è emerso con forza dalle ricerche che Packer conduce da decenni con l’aiuto di vari collaboratori e studenti. Le leonesse non si uniscono in branchi solo per uccidere le prede e difendere il bottino, ma anche per proteggere la prole e conservare il dominio sui territori migliori. I dati raccolti da Packer dimostrano che per quanto le dimensioni di un branco possano variare anche di molto – da una sola femmina adulta fino a 18 – sono quelli di media grandezza a difendere meglio i cuccioli e il territorio. I branchi troppo piccoli tendono a perdere i cuccioli. I periodi di estro delle femmine adulte sono spesso sincronizzati specie se un maschio infanticida ha sterminato la prole, facendo ripartire il loro orologio biologico quindi i piccoli di madri diverse nascono tutti intorno allo stesso periodo. Ciò consente la formazione di una sorta di asilo nido, in cui ciascuna femmina allatta e protegge i piccoli di tutto il gruppo, anche perché le leonesse di un branco sono imparentate tra loro madri e figlie, sorelle e zie e quindi condividono l’interesse genetico per la sopravvivenza della prole di tutte. A quanto pare, nel Serengeti il branco ottimale è quello che comprende da due a sei adulte; quelli più grandi rischiano di soccombere a causa dell’eccessiva concorrenza interna.
Le alleanze maschili sono governate da una logica simile. Solitamente le coalizioni vengono formate da maschi giovani, troppo cresciuti per rimanere nel branco in cui sono nati, che vanno via insieme per affrontare la vita per conto loro. Una coppia di fratelli può unirsi a un’altra coppia di fratellastri o cugini, o anche a singoli individui solitari e nomadi, che hanno bisogno di collaborazione. Mettete insieme troppi maschi di questo tipo affamati di cibo e di sesso e avrete una gang destinata al caos. Ma anche i maschi solitari, o le coalizioni troppo esigue (come quelle di due leoni) rischiano molto.
È questo il problema di C-Boy. Con un unico alleato, Hildur, che sembra avere molta voglia di accoppiarsi ma poca di combattere, si ritrova a dover affrontare i Killer, sempre più aggressivi, praticamente da solo. La sua favolosa criniera nera non può nulla in un combattimento tre contro uno. Forse a quest’ora C-Boy è già morto. E magari, pensiamo io e Rosengren, le ferite sulle facce dei Killer sono l’ultimo ricordo che avremo di lui.
QUELLA NOTTE I KILLER decidono di addentrarsi in un nuovo territorio. Si sono riposati tutto il giorno vicino alla riva del fiume, riscaldandosi e asciugandosi le ferite al sole. Circa due ore dopo il tramonto, cominciano a ruggire, quasi a trasmettere un messaggio all’unisono, forse: “Stiamo arrivando!”. Poi partono tutti e quattro insieme. Nichols, che è rimasto a osservarli, ci avvisa con il walkie-talkie. Io e Rosengren saltiamo in auto e nel buio diamo inizio alla Notte del Lungo Pedinamento.
Raggiungiamo l’auto di Nichols e con quella ci mettiamo a seguire i leoni. Adesso siamo in cinque: alla guida c’è Reba Peck, la moglie di Nichols, che avanza piano con i fari abbassati. È una notte senza luna. Nichols ha un paio di occhiali per la visione notturna e una macchina fotografica a infrarossi. Nathan Williamson, suo assistente e operatore, è pronto a registrare i suoni e ad accendere i proiettori a infrarossi. Così armati, procediamo lentamente dietro i leoni, i quali non mostrano alcun interesse per la nostra presenza.
Li seguiamo lungo una vecchia pista di bufali neri, poi attraverso una fitta macchia di acacie della febbre gialla. Peck guida con pazienza, schivando le tane di oritteropo, schiacciando rami spinosi, superando il letto fangoso di un torrente. Ti prego, non ti impantanare, pensiamo tutti. Con quattro Killer nelle vicinanze, nessuno ha voglia di scendere dall’auto e mettersi a spingere. Per fortuna non ci impantaniamo. I leoni avanzano in fila indiana, con passo costante, senza fretta, senza aspettarci ne tentare di seminarci. Li teniamo d’occhio con la luce degli anabbaglianti oppure, quando si allontanano, con un visore termico. Usandolo dal tetto traballante della Rover, vedo i quattro corpi dei leoni che emanano un bagliore come di candele in una grotta. All’improvviso ci passa accanto una grossa creatura: nel fascio di luce della mia torcia, vedo i suoi occhi arancioni che scintillano. È una leonessa che vuole farsi notare dai Killer. Rosengren non ha il tempo di riconoscerla, ma probabilmente è in calore: la pulsione sessuale le sta facendo correre un rischio enorme, vista la cattiva fama di questi maschi. I Killer la notano e si voltano verso di lei; la leonessa scappa via ritrosa, inseguita da tutti e quattro. Per un po’ pensiamo di averli persi. Ma solo uno dei maschi le sta dietro: non lo vedremo più per tutta la notte. Gli altri si ricompongono e si rimettono in marcia.
Attraversano una pista sterrata e girano a sud, entrando così in pompa magna nel territorio del branco Vumbi e dei suoi residenti, C-Boy e Hildur. Di tanto in tanto si fermano a lasciare una traccia del loro passaggio, strofinando la fronte contro i cespugli, raspando il terreno, urinando.
Non è un agguato: stanno annunciando il loro arrivo. I leoni si dirigono verso il campo di Nichols, ma il piccolo gruppo di tende, con i suoi odori di popcorn, pollo e caffè, non sembra attirarli: si fermano 400 metri prima a riposarsi un po’. Manca poco a mezzanotte: Nichols e i suoi tornano al campo, mentre io e Rosengren, recuperata la nostra macchina, restiamo con i Killer. Tocca a me il primo turno di guardia: dopo solo mezzora i leoni sono di nuovo in cammino. Sveglio lo svedese e riprendiamo il pedinamento. Va così per tutta la notte: brevi marce alternate a brevi riposi, con me e Rosenberg che restiamo di guardia a turno. Di tanto in tanto, durante una sosta, i tre intonano un coro di ruggiti: sentito da vicino è un suono potente e insieme rauco e gutturale, che evoca suggestioni primordiali di forza, sicurezza di sé, minaccia. Nessuno risponde ai loro richiami. Qualche ora prima dell’alba il trio incontra una gazzella di Thomson; la poveretta deve essere terrorizzata, ma i leoni accennano un assalto quasi solo pro forma, e lei riesce a mettersi in salvo. Non vale la pena di sforzarsi per una preda così misera, da dividere in tre.
All’alba i Killer concludono la loro incursione nel territorio del Vumbi e si rimettono in marcia tranquilli, verso una kopje che conoscono, dove resteranno all’ombra per tutto il giorno. È la mattina di sabato. Io e Rosengren li lasciamo lì. Le ferite sul volto e l’assenza di C-Boy non hanno ancora una spiegazione.
NEL TARDO POMERIGGIO DI SABATO troviamo il branco Vumbi alle Zebra Kopjes, un paio di chilometri a sud della zona visitata dai Killer. Contiamo tre femmine, che riposano soddisfatte all’ombra delle rocce di granito, e tutti gli otto cuccioli. Sappiamo che un’altra femmina è impegnata altrove, in una sessione amorosa con quel playboy di Hildur. Di C-Boy, nessuna traccia. La sua assenza non fa presagire niente di buono.
Domenica pomeriggio, di nuovo alle Zebra Kopjes. Hildur e la sua leonessa sono tornati nel gruppo, C-Boy no. Rosengren consiglia di provare alle Gol Kopjes: con un po’ di fortuna potremmo trovare il branco Simba East, e forse C-Boy è con loro. D’accordo, rispondo: ormai è questa la mia priorità, voglio trovarlo, vivo o morto. Così ci dirigiamo a sud-ovest, in un dolce saliscendi tra le distese erbose. Rosengren ascolta in cuffia i bip provenienti dai radiocollari del Simba East. Localizziamo il branco nei pressi di una piccola kopje, non distante dalle Gol: tre femmine e tre grossi cuccioli che oziano tra le rocce sfolgoranti. Di C-Boy neanche l’ombra.
A questo punto Rosengren ammette di essere preoccupato. Certo il suo compito non è di fare il tifo per questo o quel leene, bensì di osservare eventi naturali come la violenza all’interno della specie e la conquista di un branco. Ma anche uno scienziato può avere le sue simpatie. Sembra proprio, dice con aria triste, che C-Boy sia stato vittima dei Killer.
Mentre il tramonto tinge di lavanda l’orizzonte del Serengeti, torniamo alle Zebra Kopjes. Nichols e Peck sono ancora lì con i Vumbi, che si sono sdraiati sull’erba e hanno iniziato a ruggire: prima una voce, poi un’altra, poi tre insieme che rimbombano tra le pianure, sotto un cielo sempre più scuro e una falce di luna crescente. Il ruggito dei leoni può avere significati diversi e questo coro ha un che di misterioso e solitario. Quando rimangono in silenzio, restiamo in ascolto insieme a loro. Nessuna risposta.
Nichols e Peck tornano al campo. Rosengren fa un ampio giro per avvicinarsi al punto dove stanno sdraiati i Vumbi. Vuole farmi provare l’eccitante paura di sentire i leoni che praticamente mi ruggiscono in faccia. Stavolta Hildur si unisce al coro con la sua voce maschia e profonda, che fa quasi tremare la macchina. Quando tacciono, rimaniamo in ascolto. Anche stavolta, nessuna risposta. Adesso posso anche andare via, inserendo C-Boy nell’elenco dei “dispersi, probabilmente deceduti”.
Ma Rosengren mi dice di aspettare. Nel buio intorno a noi si è sentito un fruscio. Dammi la torcia, dice. Sposta il raggio di luce da sinistra a destra, oltre Hildur e gli altri, fino a puntarlo sul nuovo arrivato, un grosso leone grande dalla criniera scura: C-Boy. È tornato di corsa, richiamato dai ruggiti.
Non ha ferite sul volto, ne sui fianchi, ne sul retro. Due notti fa i Killer hanno aggredito qualcun altro. C-Boy si mette comodo accanto alla femmina con il radiocollare. Presto si accoppierà di nuovo. È un maschio di otto anni, sano e temibile, che incute rispetto a tutto il branco. Gli resta ancora qualche anno di vita, e presto forse si ammalerà, resterà ferito, sarà scacciato, morirà di fame. Il Serengeti non ha pietà per gli anziani, gli sfortunati o i deboli. Non sarà felice per sempre. Ma adesso sembra proprio che lo sia.