Danilo Taino, Corriere della Sera 5/8/2013, 5 agosto 2013
Duemilacinquecento filosofi. Tutti assieme. E ad Atene, da dove mancavano da circa quindici secoli. Da ieri a sabato prossimo
Duemilacinquecento filosofi. Tutti assieme. E ad Atene, da dove mancavano da circa quindici secoli. Da ieri a sabato prossimo. Una festa tra le pietre di Socrate, Platone e Aristotele. Naturalmente discutono, sono bizzarri e vogliono avere ragione. Il cliché, però, si ferma qui. Non pensiate che il XXIII Congresso mondiale di filosofia, una riunione che si tiene ogni cinque anni, corra in modo noioso da un argomento all’altro e con linguaggi da specialisti. È il contrario: niente di elitario, a differenza di come siamo abituati a pensare in Occidente. La filosofia del XXI secolo sta uscendo dai confini tradizionali nei quali l’abbiamo spesso incarcerata e assume nuove dimensioni. Per esempio entra a piedi uniti nella politica, «perché etica e politica sono la stessa cosa», ha urlato dal pubblico dell’anfiteatro dell’università, dove si tiene il Congresso, un insegnante indiano, Satya Gautam. Soprattutto, diventa un affare globale: cinesi, giapponesi, indiani, thailandesi, kazaki, numerosissimi, in queste ore stanno conquistando Atene. Anche in filosofia, è con loro, con gli asiatici, che l’Occidente si deve confrontare. Sono emersi e hanno argomenti da fare valere: senza alcuna soggezione, ieri li hanno messi sul tavolo. Già, gli argomenti: la base stessa della filosofia, hanno detto in apertura del Congresso l’italo-messicano Evandro Agazzi e John McDowell, che si divide tra America e Sudafrica (a proposito di dividersi, sono sempre meno gli studiosi, anche di materie umanistiche, che se ne stanno fermi in un posto solo, che non abbiano almeno un paio di università in due continenti da curare). La funzione dell’argomento e del confrontarsi è la base sulla quale tutti sembrano concordare, che vengano dall’Ovest o dall’Est. «Il senso dell’argomentare — ha spiegato Dagfinn Føllesdal, che insegna a Stanford, California, e a Oslo, Norvegia — sta nel condurre a unità ciò che prima era disperso. Oggi che i mass media hanno una funzione così rilevante nell’influenzare la vita, va enfatizzata ancora di più la forza dei buoni argomenti». Fin qui, molto di condiviso. È quando si entra nel merito — ieri lo si è visto nettamente — che la filosofia dell’Occidente e quella dell’Oriente tendono a divergere e non sempre a capirsi. Mostrano di avere molto bisogno di parlarsi, dopo troppo tempo durante il quale si sono confrontate sporadicamente e solo per curiosità culturale, non per bisogno imposto dal mondo, come accade oggi. «Abbiamo molta strada da fare — dice il professor Føllesdal —. Soprattutto noi occidentali abbiamo studiato poco, anche per difficoltà linguistiche, l’Oriente; loro ci hanno studiato di più». Al momento, però, i punti di vista scivolano presto in incomprensioni. In più, i cinesi e gli asiatici pongono questioni filosofiche che noi occidentali raramente consideriamo, ma che avranno conseguenze sulla nostra vita e sui rapporti politici e di potere nel futuro prossimo. L’incomprensione — il disaccordo — ieri è scoppiata dopo una lunga relazione di Anat Biletzki, che insegna all’Università di Tel Aviv e alla Quinnipiac University del Connecticut. La professoressa parlava di diritti umani e ha iniziato l’intervento con una domanda: «La religione è un ostacolo ai diritti umani?». Ha immediatamente risposto di sì. Ovviamente, ha argomentato il suo punto di vista: tra le altre cose, ha sostenuto che i diritti umani e la democrazia si alimentano a vicenda, ma tra la democrazia e le religioni portate all’estremo ci sarebbe una coesistenza difficile, se non impossibile, come testimoniano le vicende politiche dell’Egitto, della Turchia, di Israele. La relazione ha raccolto applausi caldi. Ma ha anche suscitato le reazioni dei molti asiatici. Satya Gautam, indiano, ha posto la questione di come mai, quando parlano di religioni e diritti umani, i filosofi occidentali non considerino le filosofie buddista e confuciana, che hanno punti di vista diversi da quelli occidentali. Questo, per dire, è un campo tutto da arare, nella relazione Est-Ovest, e gli orientali non lo lasceranno deserto. Su un altro piano, avete mai sentito parlare delle «madri tigre» cinesi, che impongono una disciplina rigida a figlie e figli affinché abbiano nella vita il successo che i genitori si aspettano? Con la conseguenza che, all’università, i ragazzi occidentali sono regolarmente superati da quelli cinesi? La taiwanese Su Ying-Fen ha riportato la questione agli insegnamenti di Yan Zhitui, l’intellettuale cinese del VI secolo che nelle Istruzioni famigliari del Maestro Yan ha sviluppato i concetti di pietà filiale e di fratellanza, per i quali il figlio e la figlia portano sulle spalle i genitori anziani per visitare il bosco d’autunno e il fratello maggiore ha in ogni momento il fratello giovane in mente. Fermezza e dolcezza per rendere forte la famiglia, al suo interno e nel mondo: qualcosa con cui già oggi le famiglie occidentali, rilassate e frantumate, fanno i conti e con cui anche i filosofi europei e americani si dovranno confrontare. A un livello più generale, Chen Hsueh-I, di Taipei, e Lau Kwok-Ying, di Hong Kong, hanno posto il problema dei conflitti interculturali nelle società aperte. E introdotto l’idea, sviluppata nella pratica dal professor Bernard Li dell’università Fu Jen di Taiwan, del Polylog (o Polylogue), il contrario del monologo e arricchimento del dialogo. Per dire che sul piano individuale il metodo di ascoltare e assorbire punti di vista che nascono da culture e filosofie diverse è fondamentale. «In questo campo — è la teoria di Chen — la terapia del filosofo è migliore di quelle dello psicologo, del sociologo, del politico». Ascoltare, assorbire, confrontarsi. Che è poi la base di una delle argomentazioni centrali dei dirigenti di Pechino nei confronti dell’Occidente: basta con il modello dei Paesi ricchi fondato sul monologo, con il «centrismo culturale» dell’Ovest. «Si tratta — dice Chen — di non cercare e non avere l’egemonia, ma di essere capaci di farsi influenzare da altri». Ora, che Pechino sia davvero disposta al Polidialogo va verificato. I filosofi occidentali, però, faranno bene a frequentare anche queste argomentazioni, nei prossimi anni: per gran parte di loro si tratta di territori in buona misura inesplorati, ma nel mondo d’oggi ogni giorno più rilevanti. In fondo, come insistevano ieri a dire i cinesi, «la filosofia non è solo fatta di documenti, ma anche di azione». Non che ad Atene siano sparite le dispute tra filosofi a cui siamo abituati da decenni. Nella sessione iniziale del Congresso, l’americano-norvegese Føllesdal ha per esempio criticato il famoso pensatore tedesco Martin Heidegger, perché incapace di riconoscere e esplicitare gli insegnamenti di chi l’ha preceduto. E ha attaccato due dei premiati con lo Holberg Prize, istituito nel 2003 dal governo norvegese per le scienze sociali e umane: la franco-bulgara Julia Kristeva, «perché usa Gödel per spiegare la struttura della poesia, ma non ha capito cosa dice Gödel», e il francese Bruno Latour, «un costruttivista sociale che sostiene che il batterio della tubercolosi è stato scoperto nel 1882, quindi il faraone Ramses non poteva essere morto di tubercolosi tremila anni fa». Dispute intra-occidentali. Ma oggi è soprattutto l’Oriente che inizia a mettere in discussione le verità profonde dell’Occidente. Occorrerà pensarci su: per ora, questa settimana, sotto il Partenone, ogni filosofo si sente a casa sua.