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 2013  agosto 02 Venerdì calendario

QUANTO PESA L’ECONOMIA SOMMERSA

Se si tratta di dare i numeri, non esiste al mondo una materia che li attiri come l’evasione fiscale. Li danno tutti i numeri. Dentro i confini nazionali ci pensano la Corte dei conti, la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate, l’Istat. Fuori ci pensano la Ue, l’Ocse, le Agenzie internazionali ma, anche in questo caso, l’elenco è lungo. La morale è sempre la stessa: il fenomeno è in crescita e la globalizzazione ha acuito il problema.
Per restare con i piedi ancorati all’Italia, che siano 150 miliardi all’anno, che diventino 180 o che lievitino fino a 220 (la stima Istat dell’economia sommersa), tutti concordano che quei maledetti numeri – gravati dal fatto che l’effettiva riscossione dell’evasione accertata è spesso una chimera, come dimostra il fatto che su 807,7 miliardi la somma effettivamente riscossa dall’Erario dal 2000 è di 69,1 miliardi mentre il carico dei ruoli ancora da riscuotere ammonta teoricamente a 545,5 miliardi di cui 107,2 riguardano soggetti già falliti e altri 20 risultano sospesi - sono così elevati da superare abbondantemente i livelli di guardia per una democrazia che voglia perseguire (maggiore) equità nel prelievo fiscale, (ri)equilibrio della finanza pubblica e avvio della ripresa economica.
Un richiamo dietro l’altro
Quanto alle stime su dove si concentri maggiormente l’evasione, vale la pena di riportare l’analisi cronologicamente più vicina: quella del 3 ottobre 2012 della Corte dei conti, per l’arco temporale 2007/2009. Per quanto riguarda l’Iva, la propensione all’evasione sul gettito potenziale, in Italia è stata del 29,3% (al Nord-Ovest 25,7%, al Nord Est 24,5%, al Centro 24,6% e al Sud 40,1%). Per quanto riguarda l’Irap, la propensione all’evasione sul gettito potenziale, in Italia è stata del 19,4% (al Nord-Ovest 12,7%, al Nord Est 17,5%, al Centro 21,4% e al Sud 29,4%). L’agricoltura è il settore a più alto rischio, a seguire industria, costruzioni, trasporti e comunicazioni, credito e attività immobiliari.
Non è un caso che – ancora una volta - un presidente del Consiglio abbia richiamato la necessità di una lotta senza quartiere all’evasione. Il premier in questione è Enrico Letta ma, se sfogliassimo gli album degli ultimi 30 anni, non ce n’è uno che non abbia espresso concetti analoghi.
Così vale la pena di soffermarsi, come ha fatto davanti alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato il 3 ottobre 2012 il presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino, sugli effetti devastanti che l’evasione produce, soprattutto se si somma a livelli record di pressione tributaria e debito pubblico. Una miscela esplosiva che ha nella finanza pubblica il primo sbocco. In passato è stato stimato che se l’evasione italiana degli anni 70 fosse stata pari a quella statunitense (inferiore di tre punti) il debito pubblico sarebbe stato, dopo 20 anni, pari al 76% del Pil anziché del 108%. Ebbene, c’è da domandarsi se questa incrostazione è ancora attuale. La risposta, sconsolata, della Corte dei conti è: sì.
Gli effetti
Gli effetti dell’evasione sull’equità del prelievo e sulla distribuzione del reddito alterano gli obiettivi del sistema nella ripartizione del carico fiscale. «Ciò intacca l’equità verticale quando l’occultamento dell’imponibile sovverte la progressività (scala delle aliquote, detrazioni, deduzioni) voluta dal legislatore – ha riferito Giampaolino – ma più devastanti sono le alterazioni dell’equità orizzontale data la non uniformità dei criteri di accertamento e delle opportunità di evasione». Rilevanti sono gli effetti sull’allocazione delle risorse fra settori, attività, fattori e territori. Non di rado, una più elevata evasione si coniuga con una bassa efficienza, svolgendo un ruolo di compensazione (favorendo il nanismo imprenditoriale con la sopravvivenza di imprese marginali) e amplificazione (sul sistema economico si scaricano non solo i costi delle inefficienze produttive ma anche gli ulteriori oneri delle inefficienze fiscali). «Questo spiega – conclude Giampaolino - perché sommerso ed evasione fiscale violano le condizioni di trasparenza dei mercati e di libera concorrenza».
Ancora una volta
I giudici contabili ci vanno giù duro e a maggio di quest’anno le Sezioni riunite in sede di controllo sfornano un capitolo – all’interno del Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica – tutto da leggere. Il capitolo è stato scritto da Massimo Romano, primo direttore, dal 2001 al 2008, dell’Agenzia delle entrate. Il suo pallino fisso – lo era anche quando, dal ’96 al 2001 era a capo dell’allora Dipartimento delle Entrate – è la lotta all’evasione, tanto che sulla stessa capitombolò quando, correva l’anno 2008, dovette dimettersi dopo aver firmato l’autorizzazione a diramare online i redditi 2005 degli italiani. L’allora ministro Vincenzo Visco difese la scelta ma resta il fatto che oggi si fa fatica anche a pubblicare l’imponibile dei politici. Ebbene, Romano – anche al netto del dente avvelenato per non essere più lui a guidare l’Agenzia fiscale – scrive che «la strategia adottata dal legislatore nel corso della passata legislatura è stata caratterizzata da andamenti ondivaghi e contraddittori». E giù poi con l’elenco delle contraddizioni che è lungo quanto le ore che portano al giorno della liberazione dalle tasse, che quest’anno la Fondazione per le riforme europee e l’Istituto economico Molinari, sulla base di dati della Ernst&Young, hanno fissato al 10 luglio. Prima si lavora solo per versare imposte e tasse ma questo vale solo per chi le paga. In Italia, visto che all’appello del Fisco mancherebbero 8 milioni di contribuenti, più o meno come se sparisse dal radar dell’Agenzia delle Entrate una città come New York, lo “sport” dell’evasione sembra infatti molto diffuso.
Colpi da parare
Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate, nell’audizione in Commissione Finanze, ha snocciolato i numeri del contrasto ma ha affermato che «se molto è stato fatto nel campo del contrasto all’evasione fiscale, molto resta ancora da fare. Ecco perché i risultati ottenuti non rappresentano per l’Agenzia un punto di arrivo ma costituiscono piuttosto un forte stimolo a proseguire sulla stessa strada, nella consapevolezza che l’azione nei prossimi anni dovrà, ancor più che in passato, coniugare rigore e giustizia sociale».
Come quello dei politici, insomma, un passaggio buono per tutte le stagioni che vede alcuni sindacati sul piede di guerra perché mentre le convenzioni triennali 2013/2015 tra ministero dell’Economia e le Agenzie maturano, i problemi restano. Roberto Cefalo, a capo del coordinamento nazionale Flp Finanze, il 5 luglio ha scritto che «se con le convenzioni si adeguano di anno in anno gli indirizzi politici in termini di obiettivi e numeri da raggiungere, lo strumento convenzionale, quello per intenderci che determina impegni e obblighi delle parti contraenti, vale a dire ministro e direttori delle Agenzie, è invece assolutamente ingessato in una formulazione ormai più che decennale visto che nacque nel 2001 in via sperimentale».
I controlli
Ad agevolare la correzione del tiro nelle politiche e nelle strategie di aggressione all’evasione, soccorrono gli stessi studi dell’Agenzia delle entrate. Una ricerca del febbraio 2012, che prende in considerazione l’arco 1999/2009, mostra alcune analisi oggettive. I controlli effettuati – tra imposte dirette e indirette, accertamenti unificati e automatici, atti di recupero e accessi mirati sui crediti d’imposta – sulla platea di quasi 5,8 milioni di imprese e lavoratori che gravitano nel mondo della produzione di beni e servizi, sono passati da 1.373.041 a 1.749.592, con una media di 1.416.456, un picco, nel 2009, di 1.749.592 e un minimo nel 2003 di 1.133.437. Negli 11 anni presi in considerazione, i controlli hanno sfiorato i 15,6 milioni. Il 24,26% dei controlli su imprese e lavoratori autonomi ha riguardato chi eroga servizi alla pubblica amministrazione. In pratica uno su quattro. Il 21,20% ha interessato le industrie alimentari, delle bevande e del tabacco. Solo dopo, con il 17,84% delle verifiche, arrivano alberghi e ristoranti e, con il 15,86%, il commercio al dettaglio. Con questi ritmi, se il Fisco si mettesse in testa di controllare tutti, ci vorrebbero in media 10,5 anni, con picchi di 35 nel settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca, oltre 22 anni nel settore della sanità e “solo” 5,73 tra alberghi e ristoranti.
La ruota della (s)fortuna
Lo sforzo dell’Agenzia delle Entrate, nel periodo 99/2009, è stato prevalentemente concentrato al Nord (233.408 controlli), seguito dal Sud (210.842) ed infine dal Centro (120.502) ma la probabilità di essere accertati a livello regionale, in media, è molto inferiore al Nord rispetto che al Sud (8,20% contro 12,14%). Il fenomeno – si legge nello studio – si spiega principalmente con la dimensione della platea di contribuenti, in quanto dove essa è particolarmente consistente esistono dei vincoli di scala che impediscono all’attività di controllo di svilupparsi proporzionalmente. Sarà, ma c’è anche una versione maliziosa, che suggerisce che le possibilità sono maggiori al Sud perché è qui che si concentra il maggior numero di ispettori e verificatori, con una sproporzione che neppure le (datate) assunzioni sono riuscite a riequilibrare.
Emblematica, in proposito, è la situazione della Lombardia, che presenta la platea più vasta d’Italia, dove un contribuente ha una probabilità di essere accertato una volta ogni 14,14 anni. Una probabilità analoga si riscontra anche in Veneto (13,69 anni), mentre in terza posizione si colloca l’Emilia Romagna (13,36 anni). All’estremo opposto troviamo la Sicilia (7,04 anni) e in una situazione poco peggiore Valle d’Aosta (7,39) e Calabria (7,58).
Le province dove è meno frequente essere accertati sono Reggio Emilia (17,88 anni), Milano (15,93), Padova (15,88), Treviso (15,58) e Parma (15,39). All’estremo opposto si trovano Messina (5,6 anni), Reggio Calabria (5,9), L’Aquila (6,6), Siracusa (6,63) e Agrigento (6,83).
Grandi città e Sud
Analizzando i grandi centri, cioè quelli con una platea di contribuenti superiori a 200mila unità, spicca la situazione di Milano, che si colloca al 109° posto in graduatoria (possibilità di un controllo ogni 16 anni), ma che ha una platea di oltre 400.000 unità, preceduta da Torino, 91° posto in graduatoria, con 215.260 contribuenti, mentre molto prima risultano Roma (58° posto e possibilità di un controlli ogni 10 anni) e Napoli (33°), con un bacino di utenza rispettivamente di 400.266 e 231.382 contribuenti. La graduatoria tende a (s)favorire i piccoli centri, in quanto presentano una platea più ristretta e, pertanto, maggiormente controllabile. I piccoli centri che presentano una posizione peggiore (o migliore, a seconda dei punti di vista) della media italiana, sono Pordenone, Asti, Rovigo, Lodi, Lecco, Ogliastra, Medio Campidano, Olbia Tempio e Fermo. Nelle primissime posizioni si collocano invece L’Aquila (un controllo ogni 6,6 anni) e poi via via Siracusa, Isernia, Ragusa, Enna e Gorizia.
Insomma, la sintesi, a volerla dire tutta è che, mentre al Nord, dove si registra il maggior reddito pro-capite e dunque si concentra maggiore ricchezza e Pil e pur in presenza di un buon numero di controlli, si hanno minori possibilità di verifiche fiscali; al Sud, in presenza di condizioni opposte, le probabilità aumentano.
Per le imprese e i lavoratori autonomi del Mezzogiorno, in pratica, alla beffa (servizi più scadenti che al Nord) e al rischio (una più alta possibilità di verifica fiscale) si aggiunge anche il danno, vale a dire il pizzo. Esentasse. Per chi lo riceve.