Stefano Folli, il Sole 24 Ore 3/8/2013, 3 agosto 2013
Lo scenario che si apre è abbastanza chiaro e tutt’altro che rassicurante. Il logoramento è talmente rapido da rendere difficile anche la cronaca degli eventi
Lo scenario che si apre è abbastanza chiaro e tutt’altro che rassicurante. Il logoramento è talmente rapido da rendere difficile anche la cronaca degli eventi. Il paradosso è che la stagione post-berlusconiana è cominciata, ma lui, Berlusconi, è ancora lì. Fra poco abbandonerà il Parlamento o ne verrà espulso, poi dovrà cominciare a espiare la sua pena: agli arresti domiciliari ovvero (meno probabile) ai servizi sociali. Ma intanto, com’era prevedibile, parla, attacca, scuote l’albero delle istituzioni. L a trovata mediatica, ma non per questo meno insidiosa, è quella di convolgere Napolitano con una richiesta di grazia che i suoi seguaci vorrebbero sottoporgli senza averne titolo. Una pretesa vagamente assurda e dal sapore alquanto ricattatorio. Certo, stiamo parlando di un uomo ferito, chiuso nel suo cortocircuito psicologico. Un uomo che verbalmente non risparmia le parole, evoca elezioni politiche «al più presto», ma reclama anche la riforma della giustizia. Offre ai gruppi parlamentari tutto il repertorio che essi vogliono ascoltare, a cominciare dall’attacco alla magistratura definita «un cancro» (e non è una novità). Cosa resta di quel tanto di «prudenza e saggezza istituzionale» a cui lo invitava Giuliano Ferrara dalle colonne del "Foglio"? Resta la necessità di distinguere l’aspetto emotivo della reazione, tipica del "giorno dopo", e il profilo concreto delle scelte compiute dal Pdl in difesa del capo. In definitiva, cosa c’è di concreto? La richiesta di grazia non può nemmeno essere accettata dal Quirinale, per mille ragioni. Il centrodestra deve accontentarsi di affermare un punto politico, ma sul piano giuridico è in un vicolo cieco. Quanto alle dimissioni dei parlamentari e dei ministri, si tratta più che altro di un gesto dimostrativo. Hanno offerto la «disponibilità» a lasciare il campo. Niente di definitivo. Così come Berlusconi non ha ritirato la fiducia al governo. Si potrebbe persino pensare che tutte queste mosse a effetto servono a coprire la realtà: e cioè che il partito berlusconiano, pur colpito e accecato dall’ira, non intende venir meno al patto governativo. E che il vecchio leader si muove come al solito su due piani: da un lato eccita la risposta emotiva, dall’altro tiene fermi i ministri al loro posto. Si capisce perchè: far parte della maggioranza rappresenta ancora una straordinaria carta da giocare all’occorrenza. Una carta di scambio. Perchè rinunciarvi? Non sappiamo fino a quando l’intero centrodestra, che comprende al suo interno importanti componenti moderate, seguirà le suggestioni del suo leader storico, al di là delle ovazioni e degli applausi dovuti. In quel 30 per cento di italiani che Berlusconi è ancora convinto di rappresentare, quanti sono gli elettori disposti a condividere un ricatto alle istituzioni, un tentativo di mettere alle strette il capo dello Stato e di correre l’avventura delle elezioni? Non molti. I più chiedono una politica di responsabilità e riforme serie. Berlusconi lo sa, come sa che i mercati sono stati stranamente tranquilli: segno che non considerano più il personaggio in grado di modificare il corso della storia, causa mancanza di credibilità. Tutto vero. Ma questi colpi di coda sono estremamente pericolosi. Innescano controspinte distruttive, logorano un assetto già fragile. E fortuna che il Pd si mantiene talmente compassato da apparire sonnolento. Meglio così, in un certo senso. Purtroppo però abbiamo superato la soglia di guardia. I Cinque Stelle hanno ritrovato i loro spazi, anche Vendola è molto attivo. La tendenza ricattatoria a cui sta cedendo Berlusconi non otterrà risultati, diciamo così, istituzionali (la grazia, la restituzione della dignità perduta). Ma è la prova che il sasso sta rotolando giù dalla montagna. Converrebbe a tutti, in primis a Berlusconi, fermarne la corsa.