Michele Brambilla, La Stampa 3/8/2013, 3 agosto 2013
L’ ufficio di Pupi Avati è tappezzato di fotografie che sono l’album della sua vita. Scene di famiglia e scene di film: a volte si confondono
L’ ufficio di Pupi Avati è tappezzato di fotografie che sono l’album della sua vita. Scene di famiglia e scene di film: a volte si confondono. Ha appena pubblicato da Rizzoli un’autobiografia, «La grande invenzione», e in settembre RaiUno trasmetterà in sei puntate il suo «Un matrimonio». In questi giorni sta girando un film con Scamarcio e Sharon Stone: è un lavoro che lo immerge completamente, ma lui dice che si sta godendo la vecchiaia. «Ti permette di rivivere tutte le età che hai vissuto: anche di ritornare bambino. Capisci la tua infanzia come mai l’hai capita prima». All’infanzia è legato il ricordo della prima villeggiatura: «È nel dopoguerra, a Rimini. Non era ancora la Las Vegas che ne hanno poi fatto i romagnoli. Era di una modestia totale: nient’altro che il mare, ma a noi bastava quello. Arrivavamo in treno da Bologna e c’era il momento in cui si usciva da una galleria e si vedeva finalmente il mare. Allora tutto il treno gridava: il mare!». Erano le vacanze dei «fagottari», raccontati nel film «Domenica d’agosto» di Luciano Emmer. Racconta Pupi Avati: «Nell’immediato dopoguerra c’era la necessità di ristabilire una gerarchia fra le classi sociali. La prima cosa era mettere su una casa decente, che potesse permettere il ricevimento per il tè. La seconda erano le vacanze. Ci si divideva fra quelli che ci andavano e quelli che non ci andavano. «In città vedevi un sacco di gente sul balcone, in canottiera, con i piedi a mollo in una bacinella. Stavano lì tutto il giorno a parlare con quelli di fronte. Erano le loro vacanze. Al massimo potevano permettersi di andare in tram a Casalecchio a fare il bagno nel Reno. Si portavano appunto in un fagotto asciugamani e zoccoli e tornavano la sera bruciati dal sole. «Noi, che eravamo fra quelli che stavano bene, prendevamo in affitto a Rimini una specie di garage senza finestre, con il gabinetto in cortile e le tende che separavano i vari ambienti. Stavamo tutti lì dentro: io e i miei due fratelli che dormivamo nello stesso letto, mia mamma che era vedova, la zia Laura che era vedova anche lei e la donna di servizio, perché c’era questo paradosso, che si aveva comunque la domestica. Queste vacanze duravano un mese e comportavano un autentico trasloco. Affittavamo da un certo Vicinelli, che stava a Bologna in piazza Aldrovandi, vicino a casa mia in via San Vitale, un camioncino, perché allora non c’erano le seconde case, e tutta la prima casa veniva trasportata al mare. «La prima vacanza che ricordo fu così, nel 1951. La spiaggia era quella libera. Ti prendevi un palo da piantare nella sabbia e una tenda. Mia madre portava un tegame di maccheroni che aveva cucinato la mattina e alcune bottiglie di acqua e limone; ogni tanto c’era il pesce, comprato al mercato al porto. Poi la giornata trascorreva lentissima. Il massimo che potevi fare era prendere in affitto un moscone. Aspettavamo per ore che se ne liberasse uno e, quando si liberava, caricavamo su tutti i parenti e gli amici. In quelle spiagge ho vissuto le mie prime storie d’amore, fatte solo di sguardi fra una tenda e l’altra, quegli sguardi che chiamo “le lontananze”». «La partenza per il ritorno era un momento doloroso. Invidiavo i residenti, quelli che abitavano lì, perché immaginavo che anche l’inverno a Rimini fosse gioioso. Ma era tutto ridotto al niente. Era un’Italia che si poteva permettere solo l’essenziale. Abbiamo avuto anche estati in montagna, a Pieve di Cadore, presso una famiglia. Ma sempre in situazioni molto modeste. Nessuno pretendeva, in vacanza, di avere gli stessi agi che aveva in città». Solo qualche anno più tardi arriveranno i primi segni della svolta: «Le scarpe bianche facevano la differenza. Era evidente che erano destinate solo al mare, quindi chi le aveva era uno che poteva permettersi un lusso. Quando le ebbi, nel ’54-’55, mi sentii un ragazzo arrivato». Era un’Italia che riprendeva a cantare e a ballare. «Io avevo la fortuna di suonare e quindi andavo nelle balere della riviera adriatica. Le ragazze finalmente ti guardavano: prima non eri nessuno, non riuscivi a battere un chiodo. Quando ho cominciato a suonare, mi è girato il mondo». Gli chiedo se ricorda la prima volta che ha suonato sull’Adriatico, e la risposta sembra la scena di un suo film: «La ricordo benissimo, perché feci una figura pessima, e io ho una singolare capacità di ricordare benissimo tutte le sconfitte. Eravamo in una balera vicino a Lido di Spina. Si chiamava “l’Edera” perché era di fianco al circolo del partito repubblicano. Quella sera doveva venire La Malfa: il vecchio La Malfa, che poi allora era giovane. Mi dissero: guarda che va matto per “Fascination”, suona quella. Lui arriva, io attacco e sbaglio clamorosamente una nota: si girarono tutti, perfino La Malfa. Feci una figuraccia che mi sono ricordato per tutta la vita. «La prima vacanza di livello superiore la feci verso la fine degli Anni 50. Lasciammo il garage e andammo in una pensione familiare. Si chiamava “Élite”, a Riccione. Si mangiava bene e quello era il metro di valutazione: sull’Adriatico non si chiedeva com’era il mare, si chiedeva come si mangiava. Quell’estate fu la prima completamente diversa. Ma oggi una pensione come quella sarebbe rifiutata, anzi non esiste neppure, non avrebbe mezza stella». Ricordi di quando eravamo più poveri ma forse meno fragili: «C’era un’adattabilità che derivava anche dall’essere usciti dalla guerra. E i genitori avevano una grande capacità di fare apprezzare a noi figli ogni cosa. Oggi vedo che rendere felice un nipotino è difficile. Quando arrivi a regalare a un bambino dei soldi perché hanno già tutto e non sai cosa regalare, vuol dire che è finita». Ma la «peggior tossicità» del nostro tempo, dice Avati, è il pessimismo: «Gli economisti, che poi sono i responsabili della crisi, sanno solo ragionare per grafici e statistiche, e non con il cuore e la fantasia. Ci promettono solo il negativo. Se avessi vissuto in un clima come quello di oggi, non avrei fatto i 45 film che ho fatto. Stiamo privando i nostri figli e nipoti della possibilità di credere che la vita possa offrire qualcosa di eccezionale».