Matteo Nucci, il Venerdì 2/8/2013, 2 agosto 2013
IL MIO NOME È FLEMING, IAN FLEMING
Il 15 gennaio del 1952, alle dieci di mattina, dalle parti di Orcabessa, Giamaica, sta per nascere uno dei personaggi destinati a universale celebrità nell’immaginario popolare contemporaneo. Ma nessuno può sospettarlo. Neppure i migliori conoscenti di quel signore inglese che da sei anni è venuto a vivere lì nei mesi freddi. Probabile che non lo sappia neppure lui, mentre si aggira come un fantasma accanto alla grande scrivania della villa che si è fatto costruire, dandole un nome che richiama, come un sogno o un incubo, la sua passione per l’oro: Goldeneye. Fa caldo, il sole è già alto e chi passa nei dintorni potrebbe vedere soltanto un’ombra dalla mano sottile che ondeggia dietro le finestre di una grande sala spartana. Tra l’indice e il medio della sinistra penzola un lungo bocchino nero, la cenere cade a terra, le persiane si chiudono. È la penombra quel che cerca l’uomo apparentemente flemmatico capace di diventare a tratti molto nervoso.
Ha quasi quarantatre anni, è noto per i modi aristocratici, lo sguardo sarcastico e indolente, i movimenti lenti e studiati, pieni di una sprezzante malinconia. Si siede alla scrivania, osserva a lungo la pagina di carta bianca infilata nel rullo di un’elegante macchina da scrivere londinese. Poi le dita cominciano a battere sui tasti. «Fumo, sudore: alle tre del mattino l’odore di un casinò dove si gioca forte è nauseante».
L’atmosfera è definita. Quel che manca è l’uomo, il protagonista, il personaggio che Ian Fleming ha nascosto dentro di sé per almeno una trentina di anni.
Bisogna risalire molto indietro, non ci si può fermare al mattino di Orcabessa e allo slancio che prese la mano di colui che, fino ad allora, era stato tutto fuorché scrittore. Oggi, passati i sessant’anni da quel giorno, sappiamo che nella frenesia e nell’oscura agitazione che presero l’autore davanti alla macchina da scrivere si nascondeva una qualche consapevolezza di ciò che sarebbe nato, un eroe che avrebbe fatto virtù delle apparenti debolezze del suo creatore.
James Bond, l’agente cui volle affibbiare una sigla il più possibile anonima ignorando che sarebbe diventata un marchio, aveva mosso con lui i primi passi, dentro una famiglia ingombrante. Fleming era il nipote di un ricchissimo banchiere, il figlio di un eroico inglese tutto d’un pezzo, il fratello di un intelligentissimo ragazzo capace di primeggiare ovunque. Dunque, era stato da sempre una specie di pecora nera che avrebbe trovato il modo di riscattarsi con successi su cui nessuno avrebbe scommesso.
La storia è nota. E mentre Adelphi riporta in libreria i romanzi a lungo oscurati dai film (ne sono usciti due, per ora: Casino Royale e Vivi e lascia morire, a cura di Matteo Codignola, traduzioni di M. Bocchiola, F. Santi) noi possiamo ripercorrerla fin dal principio, a partire dai primi passi di un bambino ipercinetico.
Nacque a Londra il 28 maggio del 1908, secondogenito di Valentine, membro del Parlamento e possidente terriero, cui la grande ricchezza non bastava a creare l’immagine di sé che voleva offrire al mondo.
Ian ereditava dal padre, più che altro, un’idea del dovere. Valentine morì nella Grande Guerra e il figlio, a nove anni, ne lesse il necrologio sul Times, firmato da Winston Churchill. Gli ideali di rettitudine, spirito di servizio, coerenza e probità non passarono per osmosi in lui. Forse perché s’impiantarono invece nel fratello Peter mentre su Ian cominciavano a scavare un percorso labirintico e persecutorio. Peter, divenuto naturalmente il patriarca della famiglia, eccelleva a Eton e a Oxford. Ian, invece, abbandonava Eton per un «incidente d’amore» e veniva allontanato dall’Accademia militare di Sandhurst per indisciplina. Sempre e solo fratello di e figlio di, Ian cominciò a scoprire come le sue debolezze nell’alveo della famiglia Fleming potessero cambiare segno lontano da casa.
La svolta è datata 1927. Il luogo è un paesino austriaco ancora ignoto alle masse: Kitzbühel. Oggi, si è tentati di immaginare le montagne innevate dove le gesta di 007 verranno immortalate in epici inseguimenti tra i boschi. Ma l’ambiente è un altro: una scuola privata. Stavolta, però, tra coetanei assolutamente ignari di ciò che evocava il cognome Fleming. Semmai sorpresi, e quasi invidiosi, per i suoi modi elegantemente cinici, l’attenzione impavida e misogina nei confronti dell’altro sesso, la rudezza mai sopra le righe del suo eloquio. Le contraddizioni, in un ambiente estraneo, suonano come tocchi eccentrici e calibrati ad arte di un ragazzo pieno di cultura e ben educato alle regole del galateo.
I mesi passano veloci a Kitzbühel, ma bastano a far scoprire a Ian che la sua natura può essere realizzata solo nella più assoluta libertà.
Quel che segue sono mestieri disparati solo all’apparenza, il bagaglio di esperienza e informazioni che andrà a formare il retroterra dell’eroe che sta crescendo dentro Ian Fleming. Le necessità economiche spingono infatti il giovane a rincorrere qualsiasi opzione. La grande eredità che il padre ha lasciato a sua moglie è stata vincolata a una promessa di fedeltà: ogni lascito andrebbe perso se la madre di Ian dovesse risposarsi, un’ombra di vedovanza per necessità destinata a perseguitare l’intera famiglia. Quindi Ian non può attingervi finché la madre è in vita. Il che fa il paio con l’eredità del nonno che, scomparso nel 1933, non lascia nulla ai nipoti. Di necessità fa virtù. Innanzitutto, un impiego come giornalista alla Reuters, dove si distingue per un servizio sui primi processi staliniani. Poi un posto di broker alla City che gli porta parecchio denaro e anni scanditi da un ambiente elegante e dal gioco d’azzardo.
Si comincia a parlare di Fleming flair, lo stile aristocratico e corrosivo, distaccato e tuttavia passionale che ormai conosciamo come il segno caratteristico dell’uomo che si presenterà «Bond, James Bond».
Ma Fleming si annoia. Non gli basta una bibliomania che lo spinge a collezionare prime edizioni storiche e a dirigere una rivista letteraria di gran pregio. Nel 1939 comincia una vita di azione nei servizi di spionaggio per l’Intelligence della Marina Militare. Durante la guerra, decine di idee strampalate e geniali nascono dalla sua fantasia snob e folle. Braccio destro dell’Ammiraglio Godfrey – che si fida ciecamente di un esperto di economia, politica estera, buone maniere, carte e ristoranti, uno che è capace di scrivere lettere brillanti e stilisticamente perfette – Fleming incontra personaggi come Edgar Hoover, decide le sorti di gruppi speciali, intrattiene e inventa. E soprattutto viaggia, scoprendo un’isola paradisiaca: la Giamaica.
Il sogno di fuga, dopo la guerra, comincia a diventare realtà. Tornato al giornalismo, Fleming scandisce l’anno in due parti e i tre mesi di freddo passano lì. Il gioco dura sei anni, finché una delle donne che il suo alter ego 007 saprebbe bene come trattare, incinta, lo costringe a fermarsi. È allora che l’amore per i libri si trasforma. Le amicizie letterarie che Fleming ha coltivato (su tutti Patrich Fermor, il grande viaggiatore) stanno per diventare amicizie di colleghi. È il 15 gennaio 1952, infatti. La stesura del primo romanzo dura poco. Si conclude il 18 marzo, sei giorni prima del matrimonio. Fleming è sferzante: sostiene di aver scritto il libro per alleggerire la pena dell’incipiente celebrazione. Ma quando Casino Royale esce, in una veste di gran pregio che Fleming è riuscito a farsi accordare dall’editore – cuori rossi e finimenti dorati che Adelphi ha rievocato nella nuova edizione –, il carattere di Bond conquista i lettori. Nei successivi dodici anni Fleming scrive incessantemente, producendo un romanzo all’anno, più una manciata di racconti. Tra gli appassionati spiccano scrittori del calibro di Raymond Chandler, Kingsley Amis, Evelyn Waugh e Somerset Maugham. Il percorso di trasformazione da erede scapestrato in uomo riuscito si è compiuto. E fa sorridere di amarezza che sia nel momento in cui la madre muore che anche per lui giunge il momento di dire addio alla vita.
Quando la donna si spegne, Fleming ha il corpo appesantito da anni di stravizi che gli hanno già procurato un infarto e esce da un’influenza che si è trasformata in pleurite. I medici lo sconsigliano, gli intimano di restare fermo. Lui non ne vuole sapere. Il 12 agosto, cinquantasei anni, non sopravvive a un attacco cardiaco. Le sue ultime parole sono per gli infermieri dell’autoambulanza: «Mi spiace disturbarvi, ragazzi. Non capisco come abbiate fatto a essere qui tanto in fretta col traffico che congestiona le strade in questi giorni».
Matteo Nucci