Vanna Vannuccini, il Venerdì 2/8/2013, 2 agosto 2013
IL RIFORMISTA DI ALLAH
Era l’estate del 2009. Dalle urne era uscito presidente il radicale Mahmud Ahmadinejad e centinaia di migliaia di persone protestavano per le strade delle città iraniane ritenendosi truffati del voto che avevano dato a un moderato. C’era nell’aria un sentore di rivolta, per la prima volta gli iraniani non chiedevano solo riforme, ma contestavano la legittimità del regime, che reagì con estrema durezza. Ora siamo nell’estate del 2013 dalle urne è uscito vincitore il moderato Hassan Rohani e i giovani iraniani sono scesi per le strade a cantare e ballare. Sono gli stessi che allora la polizia arrestava non appena ne vedeva quattro insieme. Anche la polizia è la stessa. Che cosa è successo? Che cosa è cambiato dal 2009?
«Mi fa piacere che in Iran splenda di nuovo il sole della ragione» ha detto Rohani la sera della sua elezione. Il buio della non-ragione erano stati gli otto anni di populismo e di provocazioni di Ahmadinejad che hanno isolato l’Iran dal resto del mondo. La situazione economica è, secondo molti economisti, paragonabile a quella greca, e sebbene sia dovuta anche alla cattiva gestione e alla corruzione, le sanzioni hanno fatto la parte del leone, rendendo la vita difficile alla popolazione. Gli iraniani, eredi orgogliosi di una antichissima civiltà, si sentono cittadini del mondo di seconda categoria.
Che cosa potrà cambiare in Iran con Rohani? Un intero popolo spera. Il neo eletto presidente aveva scelto come simbolo della sua campagna elettorale una chiave, ma quale porta riuscirà ad aprire? Molto dipende dall’Occidente. Non lasciate solo Rohani, raccomandano gli ambasciatori iraniani in Europa a chiunque porga l’orecchio. Non fate come ai tempi di Khatami! Il presidente riformatore Khatami aveva teso la mano all’Occidente, ma gli Stati Uniti si erano voltati dall’altra parte. Era appena caduta Bagdad e George W. Bush sperava che la prossima a cadere fosse Teheran. Era stato proprio Renani, come negoziatore del dossier nucleare sotto Khatami, ad accettare di sospendere l’arricchimento dell’uranio e a sottoscrivere il protocollo straordinario che permetteva agli ispettori dell’Onu di visitare i siti atomici senza preavviso. Parlamentari americani (anche alcuni repubblicani) hanno invitato in questi giorni Obama ad agire con rapidità e flessibilità per evitare di ripetere gli stessi errori e di ridare potere ai fondamentalisti che si oppongono ad ogni compromesso sul nucleare e vogliono tenere i prigionieri politici in prigione. Se gli Stati Uniti non gli daranno lo spazio politico per agire, il cammino di Rohani sarà stretto: non può disattendere le aspettative dei riformatori che l’hanno votato e delle masse che si aspettano un miglioramento della situazione economica, ma deve stare attento a non impensierire troppo i falchi che lo aspettano al varco del primo insuccesso per riprendere l’iniziativa.
Già da ora è partita una campagna sul web in cui gli ayatollah cominciano a chiedergli pubblicamente conto di quale significato intenda dare alla parola moderazione che è stata il suo slogan elettorale. Il Profeta era un moderato, si legge nel Corano, un mootadel, e il popolo era invitato ad andare al suo passo: né più veloce, né più lento. Ma «la via della moderazione è quella del Leader Khamenei», asseriscono molti ayatollah.
Potrebbe davvero esserlo diventata. La pressione interna e quella esterna sul regime sono diventate fortissime negli ultimi anni e il Leader potrebbe essersi reso conto di aver bisogno di una valvola, un filo di speranza, per salvare il sistema. Durante la campagna elettorale Khamenei aveva detto: «Anche se non siete d’accordo con il sistema (nezam) andate a votare per il vostro Paese»: una frase sensazionale, perché fino ad allora sistema e Paese erano stati nel suo linguaggio una cosa sola.
Chi ora contro Khamenei era contro l’Iran. Ora le cose sembrano un po’ cambiate. È una dimostrazione di una certa flessibilità della Repubblica islamica e del particolare dispositivo di checks and balances di cui dispone, ancorché supervisionato dall’alto. Gli iraniani volevano un riformatore e il regime ne aveva bisogno. Così è stato eletto Rohani. Lo spettro della Siria ha fatto il resto. Popolo e regime si sono trovati uniti da una comune spinta verso il centro: niente estremismi, nessuno vuole finire come i vicini siriani. Moderazione, appunto. Vi consiglio di essere moderati, aveva detto il Profeta: né efrat né tafrit (nessun estremismo).
Rohani è un uomo che è sempre stato al centro della Repubblica islamica. Nella sua persona si dispiega l’intero arco delle potenzialità del regime. Per sedici anni membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, uno degli organi più importanti del Paese, nella qualità di rappresentante personale del Leader. Comandante dell’aviazione nella guerra contro l’Iraq, tra il 2002 e il 2005 negoziatore capo del dossier nucleare sotto il presidente Khatami, il predecessore di Ahmadinejad. Nella campagna elettorale aveva parlato contro la censura e per la libertà di stampa, aveva detto che in un Paese non devono esserci prigionieri politici e aveva promesso di migliorare la situazione economica. Il vignettista Mana Nayestani lo raffigura sorridente nella sua veste di mullah col turbante mentre tiene in mano una vecchia chiave di ferro davanti a una serratura di quelle digitali ultramoderne. Un modo per dire che al di là di tutti gli entusiasmi che ha provocato, risolvere i problemi dell’Iran potrebbe andare oltre le sue possibilità. Già Netanyahu mette in guardia l’Occidente dal non lasciarsi ingannare da Teheran se Rohani non darà subito prova di cambiare la politica iraniana.
Per Teheran la priorità è un alleggerimento delle sanzioni. Per l’Occidente questo sarà possibile solo dopo che il regime iraniano avrà fatto delle concessioni sostanziali. Rohani si troverà di fronte allo stesso problema davanti al quale si trovava nel 2003. Quanto può offrire all’Occidente dipende esclusivamente dal Leader supremo, il cui obbiettivo è salvaguardare il sistema e mantenere se stesso al potere. La Siria potrebbe offrire una prima possibilità di avvicinamento, se sarà data una possibilità all’Iran di contribuire a una soluzione. «La crisi siriana deve essere risolta dai siriani, noi siamo contro il terrorismo, la guerra civile e gli interventi esterni» ha detto Rohani. Essere chiamato a collaborare, essere considerato una potenza regionale che ha un droit de regard sulle vicende mediorientali potrebbe rendere l’Iran più flessibile sul dossier nucleare. L’Occidente dia all’Iran il rispetto che si merita ed esiga un controllo severo sull’arricchimento dell’uranio: questo potrebbe essere un accordo ragionevole, dice Seyed Hossein Mousavian, un ex negoziatore del dossier nucleare che ha lavorato a stretto contatto con Rohani.
Tutti coloro che lo conoscono parlano di lui come un uomo di grande intelligenza, cultura e tranquillità d’animo. È nato nel 1948 a Sorkhe, una cittadina di provincia nella regione di Semnan, il maggiore di cinque figli in una famiglia «religiosa e rivoluzionaria», il padre possedeva un negozio, ha studiato a Qom e si è laureato al Politecnico di Glasgow. Al suo insediamento il 4 agosto, per la prima volta dopo 34 anni, oltre ai rappresentanti dei governi europei sono stati invitati anche rappresentanti degli Stati Uniti.
Vanna Vannuccini