Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 29 Lunedì calendario

UN «TESORO» DA 4 MILIARI NASCOSTO IN BANKITALIA

Tutto iniziò nell’ormai lonta­no 2005. Grande battaglia per riorganizzare il settore delle ban­che, con quella che poi diverrà la Legge 262: «Disposizioni per la tutela del risparmio e la discipli­na dei mercati finanziari». Tra le novità introdotte da quella Leg­ge, il comma 2 dell’articolo 19, re­cita che la Banca d’Italia «è istitu­to di diritto pubblico». Norma che va letta tenendo conto del quadro europeo e del diritto co­munitario. Il tutto al fine di garantirne l’assoluta indipendenza da interferenze estranee, soprattut­to politiche. Così stando le cose, allora, quali forme deve avere il suo assetto proprietario?
Se la banca è un istituto di dirit­to pubblico, non vi possono esse­re altri proprietari che non siano lo Stato. Ma, nella lunga tradizio­ne della Banca d’Italia, così non è mai stato. Contraddizioni del­la storia e del parto difficile che, nel lontano 1933, portò alla na­scita della nostra banca centra­le. Il capitale di allora era pari a 300 milioni. Con la nascita del­l’euro e con scarsa fantasia fu semplicemente tradotto nel nuovo conio: per cui ancora oggi ammonta appena a 156.000 eu­ro. Una bazzecola. Specie se si considera che il totale delle riser­ve finora accumulate (31 dicem­bre 2012) ammonta a più di 22,6 miliardi di euro.
L’anomalia era evidente e il le­gislatore del 2005 decise di porvi rimedio. Stabilì, infatti che «è ri­definito l’assetto proprietario della Banca d’Italia,e sono disci­plinate le modalità di trasferi­mento, entro tre anni dalla data dell’entrata in vigore della pre­sente legge, delle quote di parte­cipazione al capitale della Ban­ca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici».Mai norma fu così pre­cisa e, forse proprio per questo, disattesa. Da allora gli anni pas­sati sono pari a più del doppio, ma il capitale rimane quello del 1933. E restano più o meno iden­tici gli azionisti di riferimento: 64 enti di cui solo 58 con diritto di vo­to. L’assoluta maggioranza dei quali (51) appartenenti al setto­re bancario.
Va bene che l’Italia è il Paese del barocchismo giuridico, ma in questo caso si è superato ogni limite. Abbiamo un istituto di di­ritto pubblico, con un attivo pa­trimoniale di circa 610 miliardi (più di 1/3 del Pil italiano), con un capitale piccolo piccolo (156mila euro), riserve che sono mille volte tanto, un controllo frammentato tra azionisti senza potere. Che ne sarà di tutto que­sto q­uando la stessa vigilanza tra­slerà a livello europeo? La Banca resterà una riserva della Repub­bl­ica per la scelta dei dirigenti po­litici del Paese (da Carlo Azeglio Ciampi in poi), ma è una ragione sufficiente per giustificare un as­setto così precario, con quel piz­zico di autoreferenzialità che quell’architettura comporta?
Una nota storica, ma fonda­mentale per comprendere il ragionamento che segue: all’indo­mani del dopoguerra, fu istituito nel 1947, il «comitato intermini­steriale per il credito ed il rispar­mio», cui spettava l’alta vigilan­za in materia di tutela del rispar­mio e in campo valutario. Fu, altresì, previsto che il Consiglio su­periore della Banca d’Italia, i cui componenti sono nominati da­gli azionisti nelle assemblee dei partecipanti presso le sedi perife­riche della Banca (13 consiglieri su base territoriale), non può interferire con le materie deferite al Comitato interministeriale. Era la separazione netta tra le funzioni «politiche» e la norma­le gestione amministrativa. Distinzione ribadita dallo Statuto tuttora in vigore. Su questa stes­sa base è quindi possibile indivi­duare alcune possibili soluzioni in grado di aggiornare la struttu­ra proprietaria della Banca d’Ita­lia, senza incidere sui profili di in­dipendenza che ne dovrebbero caratterizzare la regola aurea.
La soluzione migliore, in linea con quanto accade nel resto d’Europa, sarebbe quella di «li­quidare» i vecchi azionisti e tra­sferire interamente il capitale nelle mani dello Stato. Poi si può discutere sulla migliore formula organizzativa da adottare: una fondazione o una società per azioni o un ente economico e via dicendo.
Se non si è adottata questa so­luzione, il motivo è stato preva­lentemente di carattere econo­mico. È chiaro, infatti, che disci­plinare «le modalità di trasferi­mento» significherebbe un co­spicuo esborso finanziario. Si dovrebbero trovare circa 25 miliar­di di euro (il valore di libro delle riserve complessive) per com­pensare i vecchi azionisti. Visto che il valore contabile della quo­ta (0,52 euro) è solo una brutta finzione.
In tempi di vacche grasse, l’ipotesi sarebbe sostenibile. Ma con la crisi finanziaria che corre oggi una simile opzione ha solo il sapore della stravaganza. Quin­di? Meglio far finta di nulla. Co­me se il trascorrere del tempo fos­se l’unico toccasana possibile. Se non fosse che questa piccola furbizia è tutt’altro che priva di conseguenze.
Le banche azioniste hanno nei loro bilanci una partecipazione che è valutata una quota irri­soria del suo effettivo valore. Ne deriva un depauperamento patrimoniale e quindi, visti i para­metri di Basilea III, il venire me­no, per la parte corrispondente, della loro capacità di dare credi­to. Più piccolo è il patrimonio posseduto, minori devono esse­re gli attivi bancari: vale a dire i prestiti che si possono concede­re alla clientela. Il risultato ulti­mo: una maggiore stretta del cre­dito rispetto ai vincoli, già fin troppo rigorosi, di una politica monetaria che già deve scontare le asimmetrie di un’Europa de­bole con i forti e forte con i debo­li.
Ecco allora la soluzione, se si vuole provvisoria, in attesa che lo Stato trovi i soldi per rilevare le quote possedute dalle banche. Se ne rivaluti il valore facciale, sulla base dei parametri corren­ti, tenendo conto del valore effet­tivo delle riserve e si consenta agli stockholder di apportare le opportune variazioni di bilan­cio. Ne deriverebbe un rafforza­mento patrimoniale e quindi un beneficio indiretto alle imprese, sotto forma di maggiore disponi­bilità all’erogazione del credito. Al tempo stesso le singole banche realizzerebbero delle plu­svalenze, che andrebbero tassa­te, facendo così contento l’Era­rio, che potrebbe contare di un cespite aggiuntivo. Se non è l’uo­vo di Colombo, poco ci manca.
Caro ministro Saccomanni, i miei interventi hanno avuto sempre come obiettivo quello di dare un contributo ad un gover­no che, proprio perché di coali­zione, ha bisogno dell’apporto di tutti i partiti che lo compongo­no. Ed evidentemente lei stesso ne ha riconosciuto la validità.
A quest’ultima proposta su Banca d’Italia, che il governo può far propria subito e imple­mentare già nell’immediato, al rientro dalla pausa estiva a fine agosto, ne seguiranno altre, e nu­merose, nei prossimi giorni, con la speranza che questa volta lei, ministro Saccomanni, ci metta poco a rilanciarle. Per il bene del paese. Magari citando le fonti.