Francesco Cevasco, Mondo Nuovo n.4 8/2013, 30 luglio 2013
IL FANTASMA CHE INSEGUE CARAVAGGIO
Probabilmente. Forse. C’è chi sostiene che... Anche gli storici più rigorosi sono costretti ad arrampicarsi sulle parole quando tentano di decifrare la vita e la morte di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Lo trovano morto sulla spiaggia di Porto Ercole il 18 luglio 1610. È disidratato, i vestiti sporchi e laceri, i piedi tumefatti, le cicatrici di vecchie ferite ben evidenti sul volto e sulla testa. È morto di febbre maligna, quella che supera i quaranta gradi e non scende nemmeno se ti mettono nell’acqua fredda. La febbre provocata dalla malaria.
A 39 anni era il pittore più conteso d’Europa. I re e il papa, i nobili e i cardinali amavano le sue opere: le volevano per le chiese e, soprattutto, nelle loro collezioni private. Eppure Caravaggio muore da fuggiasco, inseguito da una condanna a morte per decapitazione. Una condanna che chiunque, non soltanto il boia, può eseguire: nobile o cafone, chi s’imbatte in lui è autorizzato a mozzargli la testa e a riscuotere un premio in denaro. Sono quattro anni che Caravaggio fugge da questo incubo.
La spiaggia di Porto Ercole non è lontana da Roma, dove spera di ottenere la grazia da papa Paolo V. Per questo, nella sua ultima fuga da Napoli, ha portato con sé la tela del San Giovanni Battista e probabilmente altre due opere: devono servire a compiacere il papa per l’atto di clemenza e l’intermediario che si è offerto di convincerlo, il potente cardinale Scipione Borghese. Ma alla fine Caravaggio si trova solo con se stesso, senza il tesoro che doveva ricomprargli la vita. E si ritrova in un luogo improbabile: Porto Ercole non faceva parte dell’itinerario previsto dal viaggio verso la salvezza.
È finito lì dopo una folle rincorsa a piedi. Correva all’inseguimento della feluca su cui s’era imbarcato a Napoli portando con sé le sue robe e le sue tele. Dalla feluca l’avevano fatto sbarcare con un qualche stratagemma a Palo, ancora oggi una frazione di Ladispoli. Trattenuto per qualche ora o per qualche giorno da militari pontifici, era poi stato rilasciato. Gli avevano detto che la feluca stava facendo rotta su Porto Ercole. E così era cominciato l’inseguimento. In realtà la nave-traghetto, che normalmente collegava lo Stato dei Presidi spagnoli (grosso modo parte dell’odierna Toscana) con il Regno spagnolo meridionale, stava tornando al porto di partenza con il tesoro di Caravaggio. Quel 18 luglio 1610 chiude con logica follia il periodo più cupo della vita del pittore, gli ultimi quattro anni, quelli in cui ha convissuto con il fantasma di se stesso: un morto vivente.
Il 29 maggio 1606, il giorno in cui Caravaggio uccide un uomo, è un lunedì. Lì cambia il suo destino. Roma è ricchissima nelle ville dei cardinali e dei nobili amanti dell’arte e delle cortigiane raffinate e poverissima nelle case della plebe. Lo Stato pontificio è succube dello strapotere della Spagna che contende alla Francia l’egemonia in Europa. La città è squarciata dalle tensioni sociali e politiche. Bande rissose di filofrancesi e filospagnoli si scontrano violentemente. E, anche quando non c’è la politica di mezzo, le strade sono teatro di zuffe e megafono di insulti tra rivali. Così avviene a Campo Marzio, dove si trovano i campi della pallacorda, un gioco simile all’attuale tennis.
Caravaggio vive a Roma da otto anni. È già considerato un sommo pittore. Fra i dipinti che gli hanno dato la celebrità ci sono Il Bacchino malato (un tenero e impietoso autoritratto), I bari (i protagonisti della vita nelle taverne che frequentava assiduamente), La morte della Vergine (scandalosamente somigliante a una delle note prostitute sue compagne di vita). Ma s’è già fatto notare anche per altro: risse, zuffe, ferimenti, lanci di sassi, porto illegale di armi. Finora se l’è cavata con danni assai limitati: c’è sempre stato un nobile o una nobildonna, un cardinale o un ricco collezionista pronti a offrirgli protezione, ospitalità, nascondiglio, raccomandazioni. Tutto, ovviamente, in cambio di quadri o di promesse (a volte mai mantenute) di quadri. Ma questa volta la situazione è più complicata.
La via della Pallacorda è a due passi dall’ex appartamento di Caravaggio, in vico San Biagio, e altrettanto vicina alla casa di Ranuccio Tomassoni, a San Lorenzo in Lucina. I due si conoscono, e si detestano, da tempo. Ranuccio da Terni è un venticinquenne sposato e scapestrato; di famiglia importante (il padre e i fratelli sono militari), non ha un lavoro vero e proprio, ma in compenso facile accesso alle dimore private dei cardinali. Gestisce con sagacia un giro di prostitute di alto livello, tra cui la bellissima (e famosa per l’abilità nella sua arte) Fillide Melandroni. Ranuccio ha un debole per lei. Fillide è una delle amanti di Caravaggio, che l’ha fatta diventare anche sua modella. Quindi tutto è alla luce del sole. In più Ranuccio è un protagonista delle risse, politiche e non. E forse vanta un credito nei confronti di Caravaggio per una cifra non molto sostanziosa, dieci scudi. I due si sono già insolentiti, si sono querelati a vicenda e hanno sfiorato lo scontro fisico.
Appare quindi improbabile che la rissa del 29 maggio sia avvenuta – come invece scrivono i primi “avvisi”, specie di bollettini giornalistici che definivano Caravaggio “pittor celebre”– in conseguenza di una discussione dovuta all’attribuzione di un punto durante una partita di pallacorda. Sono due bande che si fronteggiano. Con Ranuccio ci sono il fratello Giovan Francesco e altri due. Con Caravaggio, l’amico Onorio Longhi e il capitano Antonio da Bologna. Caravaggio viene aggredito e colpito gravemente alla testa, ma riesce a restituire il colpo di spada. Mira all’inguine del rivale. Un “avviso” scriverà che la ferita ha lacerato “il pesce della coscia” di Ranuccio. Un altro che Caravaggio ha voluto colpire il pene del nemico per estremo oltraggio.
Probabilmente, visto che il pittore barcollava dopo essere stato colpito, la punta della sua spada è finita lì in modo del tutto casuale. Ma il suo carattere violento, impulsivo, ribelle, gli ha dato una fama negativa che rende verosimile il gesto oltraggioso. Tanto che la versione accreditata dalla famiglia Tomassoni è: Caravaggio ha colpito il rivale al pene quando questi era già a terra, lo ha fatto per umiliare la sua virilità.
Sofferente, ferito seriamente alla testa, il pittore fugge a Paliano, il feudo dei Colonna. Viene accolto con grande affetto. I Colonna sono sempre stati suoi protettori, estimatori, mecenati. Sono talmente potenti che, anche se è noto a tutti che Caravaggio si è rintanato da quelle parti, nessuno osa violare le loro terre. Fuggitivo, stanco, malato, ma ancora vitale e pieno di speranza. Non conosce ancora l’entità della condanna cui sarà sottoposto, ma è fiducioso che, per intercessione dei suoi tanti ammiratori potenti, il papa gli concederà la grazia. Ma è proprio uno dei suoi potenti ammiratori a emanare il “bando” di condanna. Scipione Borghese, plenipotenziario di Giustizia, annuncia la sentenza: pena capitale. In più, essendo stato condannato da un “bando”, Caravaggio è da considerarsi “un bandito” E poiché la condanna è avvenuta “in absenzia” chiunque ha diritto di giustiziarlo. Le speranze di Caravaggio s’infrangono: il papa è implacabile. Per il momento sembra più sensibile alle pressioni della famiglia Tomassoni, anch’essa nobile e potente, che a quelle del duca d’Este il quale, tramite il suo ambasciatore Fabio Masetti, implorava il perdono: unico mezzo per aver finalmente il quadro che aveva commissionato e in parte pagato, ma mai ricevuto.
Le affettuose cure dei Colonna fanno sì che il pittore si riprenda. Ma lui non si sente sicuro neanche a Paliano: i suoi ospiti, per cercare di tranquillizzarlo, gli hanno fatto cambiare alloggio almeno quattro volte.
Parte per Napoli, una città che lo ha sempre affascinato per i racconti degli scapestrati che ne hanno vissuto i vicoli torbidi, le osterie malfamate, le donne di ogni genere. Qui ha degli amici come Battistello Caracciolo. E tale è la sua fama che trova subito lavoro. Dipinge La Madonna del Rosario (finita al Kunsthistorisches Museum di Vienna), Le sette opere di Misericordia (destinata alla Chiesa del Pio Monte di Misericordia) e La flagellazione (ora al Museo di Capodimonte). Sono quadri complessi, di grande impatto religioso, opere corali eseguite con un impegno totale.
Qui, a Napoli, Caravaggio dimostra a tutti e soprattutto a se stesso che la sua grandezza e la sua arte non sono offuscate dal fantasma della condanna morte. Certo a modo suo, è religioso. Ha frequentato, per convenienza, i ricchi cardinali, ma il suo cristianesimo è pauperista. Ha coscienza dei suoi peccati: una volta, entrando in una chiesa, a chi gli domandava perché non si facesse il segno della croce rispose che “il segno della croce monda i peccati veniali, io possiedo soltanto peccati mortali”. Gli piace la figura di San Francesco, ma lo dipinge “in estasi” tra le braccia di un languido angelo efebo.
Napoli è mondo spagnolo. I suoi nemici sono amici degli Spagnoli. Nemmeno qui si sente al sicuro. Non si conosce chi, ma qualcuno (forse se ne convince da solo, forse gli viene suggerito da un Colonna) gli mette in testa che il posto giusto per lui è Malta.
S’imbarca, più o meno clandestino o con falso nome, qualcuno disposto a dargli una mano, magari per puro interesse, lo trovava sempre. Ma nei suoi pensieri c’è solo Roma, la città dove è esplosa la sua arte. Sogna di tornare lì dopo aver ottenuto la grazia per intercessione dell’Ordine dei Cavalieri. Per carità, Roma capitolina, figlia della Controriforma e sorella dell’Inquisizione, aveva rifiutato di esporre nelle sue chiese alcune sue opere perché raccontavano troppo crudamente quella natura, quella realtà che Caravaggio aveva trasformato nel suo canone estetico. Ma i quadri che non entravano in chiesa finivano, apprezzatissimi, nelle collezioni private dei cardinali.
Già nel 1601 è famosissimo anche se la burocrazia vaticana gli ha bocciato alcune opere per “scarso decoro” Ciò non toglie che gli venga affidata, scatenando invidie profonde, la decorazione della Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. Dipinge La conversione di san Paolo (ma gli viene chiesto di rifarla meno cupa e meno tragica) e La crocifissione di san Pietro.
Arrivano anche i soldi, tanti, ma ancor più ne escono. La maggior parte finiscono nelle taverne, nei bordelli, nel gioco. Anche negli abiti. Compra drappi, velluti e tessuti tipici dell’abbigliamento dei nobili. Il colore è quasi sempre nero, il più difficile da lavorare e quindi il più costoso. Dopodiché è capace di indossare lo stesso capo per mesi. Si lava poco. E mangia su un tavolo che al posto della tovaglia ha una tela imbrattata di colori (tanto che c’è chi sostiene che la sua malattia non fosse la malaria, ma un avvelenamento causato dal piombo contenuto nei colori che usava).
Gira con la spada, come i nobili. È un bel tipo, alto più o meno un metro e 75, più della media, ha capelli neri e folti, baffi, pizzo. La sua casa non è ricca ma, come notano in un verbale i gendarmi che gli sequestrano i beni perché non paga l’affitto, ha molti più libri di quanti anche persone di rango ospitino abitualmente. Nel verbale compaiono anche due spade e due pugnali. Dunque, a Malta! Con uno scopo ben preciso: farsi nominare cavaliere del prestigioso ordine e avere così una possibilità in più di ottenere la grazia papale. Nel luglio del 1607 parte da Napoli diretto alla Valletta. Il Gran Maestro Alof de Wignacourt ne conosce la grandezza e lo accoglie con tutti gli onori. Il Maestro Caravaggio lo ricambia e – con un po’ di ruffianeria – lo ritrae fiero, coraggioso, possente con l’armatura da impavido combattente affiancato da un giovane paggio che, con aria maliziosa, ha gli occhi fissi su chi guarda il quadro. E il Gran Maestro chiede al papa la deroga per “poter acquisire al servizio della religione nostra una persona virtusissima e di honoratissime qualità e costumi senza obbligo di prove e che non obsti l’aver in rissa commesso omicidio”.
Senza farne il nome si riferisce chiaramente a Caravaggio che diventa Cavaliere di Grazia, un gradino sotto i Cavalieri di Diritto. Entusiasta, lui dipinge La decollazione del Battista, quasi a esorcizzare la sua che vede sempre più allontanarsi. Ma ne combina un’altra. Canzona od oltraggia o sfida un Cavaliere di Diritto (forse lo definisce “sodomita”). Oppure è coinvolto in un delitto sessuale come testimone o come persona informata dei fatti. In ogni caso per lui si aprono le porte di Forte Sant’Angelo, il carcere sul promontorio a guardia della Valletta. E viene espulso dall’Ordine come essere “putrido e fetido”. Un altro sogno svapora.
NON GLI RESTA CHE fuggire anche da Malta con la complicità di qualche vecchio amico, forse Fabrizio Colonna, anche lui anni prima coinvolto in un omicidio e rifugiato alla Valletta. Caravaggio arriva in Sicilia e da lì torna a Napoli dove ha amici e pensa di sentirsi tranquillo. Ancora ricco di speranza fa arrivare al potente Scipione Borghese la domanda di grazia. E dipinge, non a caso, Davide con la testa di Golia. La testa di Golia è un autoritratto. Davide lo guarda con compassione. Gli occhi di Golia sembrano quelli di un uomo ancora vivo che mostrano pentimento e chiedono pietà.
Ma la città che gli dava sicurezza gli si rivolta contro. Davanti alla locanda del Cerriglio, un gruppo di armati lo affronta. Forse sono sicari inviati dal Cavaliere di Malta che aveva in qualche modo offeso. Riesce a sfuggire all’attentato, ma è ferito gravemente (tanto che le prime notizie lo danno per morto) e resta sfigurato.
Anche da Napoli è tempo di fuggire. Comincia l’ultimo viaggio sulla feluca che fa da traghetto con lo Stato dei Presidi. Viaggio che avrà il suo inspiegabile termine sulla spiaggia di Porto Ercole. Viaggio che nella testa del pittore sarebbe dovuto finire a Roma, da uomo libero, in quella città che lo aveva accolto nell’autunno del 1592. Aveva 21 anni, veniva dal paese di Caravaggio, fra Bergamo e Milano, portava con sé la piccola quota che gli spettava dei beni di famiglia e la sua immensa arte. Se n’era accorto subito il cardinale Francesco Maria del Monte che, con spirito laico, aveva comprato I bari e lanciato il giovane talento nel mondo dei collezionisti e dei mecenati.
Ma la Roma che Caravaggio si illude di rivedere è un’altra, quella plebea delle osterie, delle prostitute come la Lena che ama da sempre e per sempre, del gioco, delle risse e delle spade che sa usare così bene.