Alberto Arbasino, la Repubblica 30/7/2013, 30 luglio 2013
Village di Arbasino Si usa, naturalmente, dire correntemente «la lobby», «il ticket», «il Times »
Village di Arbasino Si usa, naturalmente, dire correntemente «la lobby», «il ticket», «il Times ». Non certo «il lobby», «la ticket», «la Times». O «la Guardian». Ma non ci sarà o sarebbe una qualche regola sugli articoli italiani per i sostantivi stranieri neutri? «Un» mail o «una» mail, per curiosità o per esempio? *** Certamente noi italiani teniamo in grande conto ciò che di noi sentenziano i prestigiosi giornali stranieri. Anche se le sentenze arrivano da corrispondenti a Roma non tanto autorevoli. Ma in quali altri paesi europei importanti si tengono in gran conto i giudizi emanati da prestigiosi media italiani? *** Gli applausi al feretro, nei funerali in chiesa... Ricordo la prima volta, a San Carlo ai Catinari, per Natalia Ginzburg: una delle persone più introverse e schive che abbia mai incontrato. *** «Riportare in auge il Merito», consiglia Sabino Cassese, su Il Sole 24 Ore, in un editoriale su «Come migliorare la macchina dello Stato» per ridare speranza ai giovani. E spiega: «Riscoprire i concorsi, ripensandone i meccanismi per verificare le attitudini, introducendo prove che corrispondano alle mansioni, valorizzando casi pratici ed esperienze professionali»... Sullo stesso giornale, nel Domenicale, «Ordino di esiliare il Merito, in modo che saranno presi in considerazione quegli innumerevoli uomini che ne sono privi e che, senza di esso, saranno piazzati in posti di favore...». E inoltre: «Istituisco nel carattere della mia Nazione la Superbia, madre dell’indolenza e dell’ignoranza...». Trattasi di una “graffiante satira” spagnola del Settecento. *** A Caracalla, Dorothy Parker tornerebbe a osservare che nell’universo del balletto, il linguaggio si estende dalla A alla B. E dove subentra il minimalismo, sarà di prammatica l’uggia? Tante camicie bianche, e capelli bianchi. Roberto Bolle è assolutamente bellissimo, e perfettamente non sexy, come in quell’Ottocento che non si è vissuto. E quando al pubblico scaligero forse bastava che i danzatori “nobili” mostrassero «dü bei ciappett ». Qui però si assiste nel finalissimo a una divinizzazione televisiva del corpo, a un narcisismo del Self caravaggesco che può soltanto portar bene. *** «Ma questo è il nostro inno!», si esclamava internazionalmente quando Frank Sinatra, qui ben rammemorato, lanciava «Strangers in the Night». E dunque la voga dei locali notturni ove ci si scambiavano occhiate e avances fino a un’alba di legami duraturi. Così come la cocaina veniva reclamizzata con «Star Dust» negli anni Trenta, e i gagà nostrani canticchiavano «In questa polvere di stelle vedo te, dolce mio tesor», socchiudendo gli occhi ma senza capirne veramente le allusioni e il senso. Ma queste rovine monumentali sono così grandiose nel plenilunio che sarebbe ormai giusta qualche stagione di «Caracalla and Friends». *** «Strangers in the Night» danzato da una coppia uomo-donna affiatatissima nega in realtà che si tratti di «estranei » che si scambiano sguardi, «glances ». Ma gli ultimi anni di Sinatra non furono poi allegrissimi. Cantava in certi Universal Studios verso North Hollywood e San Fernando Valley. Dove la figlia Nancy aveva il compito di intrattenere nel primo tempo un pubblico più o meno trafelato giunto fin lì tra deviazioni e rallentamenti e incidenti, e voglia di commentarli. Poi arrivava lui, con la sua bottiglia, e non faceva neanche la scena di nasconderla. Una sorsata ad ogni battuta. E dopo tre quarti d’ora , era vuota.