Massimo Vincenzi, la Repubblica 30/7/2012, 30 luglio 2012
SVOLTA USA "CAMBIAMO LA DEFINIZIONE DI CANCRO"
Le parole sono importanti, decidono della nostra vita. Ed è per questo che un gruppo di medici americani chiede una rivoluzione semantica nella lotta al tumore: basta pronunciare cancro per definire qualsiasi anomalia, ci sono altri modi scientifici per indicare la stessa patologia e vanno usati quelli. Il rapporto del National Cancer Institute ha come obbiettivo ridurre l’impatto emotivo sui pazienti: «Cambiare il linguaggio è fondamentale per dare alla gente la fiducia necessaria per affrontare le loro malattie senza esagerare con le cure», spiega al New York Times Laura Esserman, una delle autrici del rapporto e direttrice del Breast Center all’università di California a San Francisco, che aggiunge: «Quando uno sente pronunciare la parola cancro pensa subito alla morte ed è disposto a fare qualsiasi cosa pur di salvarsi. Chiede di fare qualsiasi qualcosa ».
Il nemico da combattere si chiama sovradiagnosi o trattamento eccessivo, ed è diventato uno dei principali problemi che assillano i medici. La sempre maggior precisione della tecnologia consente esami ultra perfetti e risultati così in profondità da diventare, quasi per paradosso, distorti, al confine dell’errore.
«Come osservare un oggetto troppo da vicino con un cannocchiale: si perde di vista la realtà», dice uno dei ricercatori. Così ad ogni minima imperfezione i pazienti si sottopongono a terapie invasive, dolorose dal punto di vista fisico e con effetti pesanti anche sotto il profilo psicologico. Le polemiche sollevate dopo la scelta di Angelina Jolie di farsi asportare entrambi i seni per il rischio genetico di un tumore al seno vanno in questa direzione: «Occhio al rischio emulazione», dissero molti accademici. Otis W. Brawley, uno dei titolari dello studio, usa una definizione efficace: «Cancro è una definizione che risale al 19esimo secolo. Abbiamo bisogno di parole che ci portino dentro l’era moderna ». E lui i suoi colleghi chiedono una commissione composta da più specialisti che tracci la nuova strada da percorrere. Nel mirino degli scienziati quei tumori benigni al seno, alla tiroide, alla prostata e ai polmoni che hanno pochissime possibilità di trasformarsi in maligni: «Per esempio, il carcinoma in situ non è un tumore. Dunque perché chiamarlo così? Va usata la corretta definizione medica: lesioni indolenti di origine epiteliale», spiegano. E non è un banale gioco delle tre carte sulle pagine del vocabolario, è un cambio radicale: «Una volta pronunciata la parola nefasta è impossibile o quasi tornare indietro. Si parte con la biopsia e poi il malato entra in una via crucis di esami e operazioni». In campo anche il premio Nobel Harold Vamus, direttore del National Cancer Institute: «Abbiamo difficoltà a spiegare ai nostri pazienti che alcune lesioni scoperte alla prostata o dopo una mammografia non mettono in pericolo la loro vita».
Non tutti sono d’accordo. Larry Norton, che non ha partecipato al gruppo di studio, si preoccupa dei rischi possibili: «Nessun dottore è in grado di prevedere con esattezza l’evoluzione di un tumore». Anche se lui stesso deve ammettere che la comunicazione tra medico e ammalato è decisiva: «Bisogna scegliere bene le parole. Io spiego loro che se uno vestito da criminale non è detto che poi lo sia: almeno sino a quando non infrange la legge».